ALBERT VANHOYE S.I. LA NOVITÀ DEL SACERDOZIO DI CRISTO

La Civiltà Cattolica, quaderno 3541, 1998, 1, 16-27.
In un certo senso, niente è più antico del sacerdozio, niente è più nuovo del sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio è un'istituzione antichissima. La preoccupazione dei rapporti con Dio si è manifestata sin dalle origini del genere umano come tratto fondamentale della vita spirituale dell'uomo, e questa preoccupazione si è tradotta presto nella vita sociale con l'istituzione di sacerdoti, cioè di uomini specializzati per il culto divino. Il sacerdozio non è stato una invenzione della Bibbia, ma è più antico di essa. Non era un privilegio del popolo eletto: la Bibbia parla anche di sacerdoti pagani; anzi, i primi sacerdoti di cui parla la Sacra Scrittura non erano israeliti. Il primo nominato è Melchisedech, re di Salem (Gn 14,18); poi appaiono i sacerdoti egiziani, nella storia di Giuseppe (Gn 41,45.50; 46,20; 47,22.26); poi un sacerdote madianita, nella storia di Mosè (Es 2,16; 3,1). Il sacerdozio levitico si presenta più tardi e non costituisce una novità. Le mansioni dei sacerdoti ebrei erano simili a quelle dei sacerdoti pagani. Gli uni come gli altri erano incaricati del culto nel santuario, dovevano trasmettere gli oracoli divini a chi si recava a consultare la divinità, offrivano i sacrifici e avevano la responsabilità di diverse osservanze.
Per natura le istituzioni sono stabili e tendono a conservarsi. Questo è specialmente vero del sacerdozio, istituzione sociale sacra. Per tale ragione si osserva una forte tendenza a concepire il sacerdozio sempre nello stesso modo e a far assomigliare dunque il sacerdozio di Cristo a quello levitico. Invece il sacerdozio di Cristo si presenta nel Nuovo Testamento (NT) come una stupenda novità. Non si inserisce nei testi come una cosa che vada da se e che prolunghi semplicemente l'istituzione antica. Al contrario, il NT segna una rottura, che, a prima vista, pare completa. 11 sacerdozio di Cristo è tanto nuovo che non sembra affatto essere un sacerdozio. I Vangeli non parlano di sacerdozio a proposito di Gesù e neanche per gli apostoli. Tanti titoli vengono attribuiti a Gesù: Maestro, Profeta, Figlio di Davide, Piglio dell'uomo, Messia, Signore, Figlio di Dio; ma tra tutti questi titoli non si trova mai, nei racconti evangelici, quello di sacerdote o di sommo sacerdote.
Questa assenza dei termini indica chiaramente la consapevolezza, da parte della Chiesa primitiva, di una novità tanto forte che non era possibile, in un primo momento, esprimerla con le parole antiche. E stata necessaria una radicale rielaborazione delle categorie sacerdotali perché la loro applicazione al mistero di Cristo diventasse possibile. Tale rielaborazione richiese parecchi anni. La sua utilità però si rivelò di primaria importanza per l'approfondimento della fede in Cristo. Il risultato finale è che il solo trattato metodico di cristologia presente nel NT è un trattato di cristologia sacerdotale, che si trova nella Lettera agli Ebrei. In altri scritti del NT la cristologia occupa parecchio spazio, ma non è mai sviluppata così ampiamente in modo sistematico.

Cristo mediatore della nuova alleanza

Se si vuole esprimere in una breve formula la novità del sacerdozio di Cristo, si può dire: è il sacerdozio della nuova alleanza. Nell'Ultima Cena, infatti, preso il calice, Gesù disse: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi" (Lc 22,20; cfr 7 Cor 11,25). Cristo è sacerdote nuovo, perché è "mediatore di una nuova alleanza" (Eh 9,15).
L'insistenza sulla mediazione e sull'alleanza costituisce già una prima innovazione nei confronti dell'Antico Testamento (At). In quel tempo, infatti, il legame tra sacerdozio e alleanza, che certamente esisteva, non veniva espresso. Al Sinai, secondo il racconto biblico, la conclusione della prima alleanza si era effettuata senza l'intervento dei sacerdoti (Es 24,4-8), benché fossero stati menzionati prima (Es 19,22.24). Quando si parlava di sacerdoti, l'aspetto su cui si volgeva maggiormente l'attenzione non era quello di una mediazione di alleanza, ma quello del culto divino. Il sacerdozio veniva considerato anzitutto un grande onore a causa del rapporto privilegiato dei sacerdoti con Dio, i quali erano sacerdoti per Dio. A Mosè, Dio aveva detto: "Fa' avvicinare Aronne e i suoi figli con lui perché siano miei sacerdoti" (Es 28,1; cfr anche 29,1). Ai sacerdoti era riservato il diritto di offrire a Dio i sacrifici e di entrare nella sua casa. Il sommo sacerdote aveva il privilegio di penetrare, una volta l'anno, nella parte più sacra del Tempio e di avvicinarsi al trono di Dio. Perciò appariva come un essere quasi celeste, innalzato al di sopra di tutto il popolo. Quando il Siracide si mette a parlare di Aronne, la prima parola che gli viene in mente è proprio il verbo "innalzare". Dio "innalzò Aronne" (Sir 45,6). Poi con entusiasmo il Siracide descrive la gloria sacerdotale di Aronne, espressa da paramenti maestosi che "mai un estraneo ha indossato" (Sir 45,7-13). Il suo entusiasmo non è meno grande nei confronti del sommo sacerdote del suo tempo, Simone, che egli paragona a un "sole sfolgorante" (Sir 50,7).
Nell'Ultima Cena, invece, Gesù si presentò in tutta semplicità "come colui che serve" (Lc 22,27), che serve cioè i suoi discepoli. Nell'istituzione dell'Eucaristia espresse e rafforzò una duplice relazione: prima, la sua relazione con Dio, suo Padre, nella preghiera di rendimento di grazie e, subito dopo, la sua relazione con i discepoli, ai quali diede se stesso, il suo corpo e il suo sangue. Questa seconda relazione ebbe un'espressione molto più forte della prima.
In modo analogo la Lettera agli Ebrei sostituì la visione unilaterale del sacerdozio, quale veniva espressa nell'AT, con una prospettiva bilaterale. L'autore insiste sulla mediazione, dicendo che "ogni sommo sacerdote, scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio" (Eb 5,1). Invece di dire costituito per Dio, come era prescritto nell'AT (cfr Es 28,1; 29,1), l'autore dice "costituito per gli uomini" e soltanto dopo precisa l'altro lato della mediazione, parlando delle relazioni con Dio. A Cristo applica per tre volte il titolo di "mediatore", che non si trova mai nel Pentateuco e solo una volta negli altri scritti dell'AT, cioè in un augurio ritenuto inattuabile; parlando di Dio, Giobbe esclama: "Ah! se ci fosse tra noi due un mediatore!" (Gb 9,33), facendo capire che non c'era. La Lettera agli Ebrei, invece, afferma che Cristo è mediatore e non dice soltanto "mediatore", ma aggiunge sempre "di alleanza" (Eb 8,6; 9,15, 12,24), perché lega fortemente il sacerdozio all'alleanza. Di tutti gli scritti del NT è quello che parla più frequentemente di alleanza: il termine greco diatheke che designa l'alleanza vi si trova ripetuto 17 volte, mentre per tutto il resto del NT si contano soltanto altre 16 ricorrenze.

Il nuovo concetto di santificazione

Da questa prima innovazione, che riguarda il modo di concepire il sacerdozio, ne derivano molte altre. Mentre l'AT sottolineava la necessità, per il sacerdote, di mantenersi separato dagli altri, il NT insiste, al contrario, sulla necessità dell'unione fraterna del sacerdote con tutti i membri del popolo di Dio.
L'AT si preoccupava anzitutto della relazione tra il sacerdote e Dio. Per questa ragione cercava di preservare il sacerdote da ogni contatto che potesse intaccare la sua consacrazione e togliergli quindi l'idoneità per il culto divino. Tutti erano convinti che, per essere ammessi ad accostarsi alla tremenda santità di Dio, era indispensabile una speciale consacrazione o santificazione. Non essendo in grado di procurare una santificazione interna che raggiungesse la coscienza, l'AT proponeva e richiedeva una santificazione esterna, ottenuta per mezzo di separazioni rituali. C'era tutto un sistema di tali separazioni, una specie di piramide costituita da successivi gradini. Una prima separazione era stabilita tra il popolo d'Israele e le altre nazioni; Israele era il popolo eletto, messo a parte per appartenere a Dio. Poi, tra le dodici tribù che lo formavano, quella di Levi era stata separata dalle altre per essere applicata al servizio del Tempio. In questa tribù, una famiglia aveva ricevuto una consacrazione particolare, che la metteva su un gradino ancora più alto. In questa famiglia veniva scelto il sommo sacerdote, il quale si trovava in cima alla piramide. I riti della sua consacrazione vengono descritti in modo minuzioso nei libri dell'Esodo (Es 29) e del Levitico (Lv 8-9): bagno rituale per purificarlo dai contatti con il mondo profano, unzione che lo impregnava di santità, vesti che esprimevano la sua appartenenza al mondo sacro, molteplici sacrifici rituali. Severe prescrizioni lo obbligavano poi a conservare questa consacrazione, che esigeva la separazione dal mondo profano. Non gli era permesso fare il lutto nemmeno per suo padre o sua madre, avvicinandosi alla salma (Lv 21,11), perché questo sarebbe stato per lui un contatto con la morte e quindi un'impurità inconciliabile con il culto. Tra la corruzione della morte e la santità del Dio vivo veniva percepita un'assoluta incompatibilità.
Nel sacerdozio di Cristo, invece, l'insistenza sulla mediazione cambia completamente la prospettiva e la rinnova in modo radicale. Il concetto di santificazione per mezzo di riti di separazione viene eliminato; al suo posto subentra quello di santificazione per mezzo di un dinamismo di comunione, la mi manifestazione più intensa è proprio l'Eucaristia Molto significativa in proposito e la frase della Lettera agli Ebrei in cui troviamo il primo accenno al sacerdozio di Cristo l'autore vi afferma che, "per diventare un sommo sacerdote", Cristo "doveva rendersi in tutto simile ai fratelli" (Eb 2,17) 11 contesto fa capire che "in tutto" non si riferisce soltanto alla natura umana che Cristo ha preso nel mistero dell'Incarnazione, ma anche e soprattutto agli aspetti più penosi e umilianti della nostra esistenza le prove, le sofferenze e la morte Cristo ha sperimentato la morte (cfr Eb 2,9), è stato "reso perfetto mediante la sofferenza" (Eb 2,10) "Per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (Eb 2,18) Un tale modo di "diventare sommo sacerdote" è diametralmente opposto al concetto antico invece di una separazione rituale, troviamo una solidarietà esistenziale, invece di un innalzamento al di sopra degli altri, troviamo un estremo abbassamento, invece di una proibizione di ogni contatto con la morte, troviamo l'esigenza di accettare la sofferenza e la morte.
Gesù non occupava un posto particolare nel sistema delle separazioni rituali Infatti egli non era di famiglia sacerdotale, non apparteneva alla tribù messa a parte per il culto divino Non lo si vide mai manifestare qualsiasi preoccupazione di purità rituale, non esitava a toccare un lebbroso (Mc 1,41), né a prendere per mano una morta (Mc 5,41), mangiava con i pubblicani e i peccatori (Mc 2,16, Lc 15,1-2) tutti contatti che sembravano incompatibili con la partecipazione al culto divino e perciò provocavano lo scandalo da parte dei farisei La solidarietà esistenziale di Gesù con i più miserabili degli uomini raggiunse il culmine nella sua morte sul Calvario, che egli rese presente in anticipo nell'Ultima Cena, quando diede ai discepoli il suo sangue versato. La morte di Gesù non ebbe niente di un "sacrificio" nel senso antico della parola Anzi, ne fu esattamente l'opposto l'esecuzione di una condanna. Un sacrificio era un atto di consacrazione rituale glorificante, veniva effettuato nel luogo santo, il fumo che saliva allora verso il ciclo simboleggiava l'innalzamento della vittima sino al trono celeste di Dio (cfr Gn 8,21) Al contrario, l'esecuzione di una condanna era un atto di "dissacrazione", un atto di rigetto completo e definitivo, quanto mai infamante, perciò lo si effettuava fuori della citta santa Gesù non morì in un luogo santo, ma sul patibolo "fuori della por-te della citta" (Eb 13,12, cfr Lv 24,14) La sua morte lo escludeva per sempre dal culto sacerdotale antico.
In quel tempo la dignità sacerdotale era considerati dagli ebrei la più alta fra tutte Sin dall'epoca dell'esodo, essa aveva suscitato ambizioni e gelosie (cfr Nm 16 17, Sir 45,18) Dopo il ritorno dal l'esilio, le rivalità si erano fatte ancora più aspre. Ne danno testimonianza i libri dei Maccabei e lo storico Giuseppe Flavio. Per in-nalzarsi alla posizione di sommo sacerdote gli ambiziosi adopera vano tutti i mezzi, anche i più disonesti e crudeli, come la corruzione e l'omicidio (cfr 2 Mac 4,7 8 24 26 32 34) Gesù invece scelse il cammino inverso, quello dell'accettazione volontaria dell'umiliazione. Lungi dal cercare per se una posizione più alta, "spoglio se stesso, assumendo la condizione di servo" e "umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce" (Fil 2,7-8) Rinunciò cosi a ogni privilegio e si rese "in tutto simile ai fratelli" (Eb 2,17), anzi si mise all'ultimo posto in questo consistette la sua consacrazione sacerdotale. Era una novità assoluta, una novità tremendamente esigente, che sconvolgeva il modo di intendere il sacerdozio, dando un'importanza fondamentale al compito di mediazione e quindi a un dinamismo di comunione.

La novità dell'oblazione sacerdotale di Cristo

Dallo stesso fatto veniva messo in atto un nuovo concetto del l'oblazione sacerdotale, cioè del sacrificio Tutto e cambiato nuovo è lo scopo ricercato dall'oblazione, nuovo il contenuto dell'offerta, nuovo il mezzo per attuarla, nuovo il dinamismo che ne risulta
Nuovo scopo dell'oblazione. II modo spontaneo di intendere le oblazioni sacrificali consiste nel considerarle come regali offerti a Dio in vista di accattivarsi il suo favore II rapporto tra l'offerente e Dio viene concepito sul modello dei rapporti tra due persone umane o due gruppi umani, che cercano di vivere in buona armonia. Il racconto biblico del sacrificio di Noè dopo il diluvio suggerisce questa prospettiva. Noè si mostra generoso con Dio, offren-do olocausti. Dio ne odora la soave fragranza, e la soddisfazione che ne prova lo porta ad essere, a sua volta, generoso con gli uo-mini (Gn 8,20-22), prendendo un impegno (berit) in loro favore 1 sacrifici di espiazione per i peccati possono, similmente, essere presentati come regali offerti a Dio per fargli dimenticare i peccati. A un Dio giustamente irritato dalle colpe commesse, vengono pre-sentate oblazioni gradite, con la speranza di "placare la sua ira", oppure i sacrifici cruenti vengono considerati come sostituzione di un castigo meritato dall'offerente.. II modo spontaneo di intendere le oblazioni sacrificali consiste nel considerarle come regali offerti a Dio in vista di accattivarsi il suo favore II rapporto tra l'offerente e Dio viene concepito sul modello dei rapporti tra due persone umane o due gruppi umani, che cercano di vivere in buona armonia. Il racconto biblico del sacrificio di Noè dopo il diluvio suggerisce questa prospettiva. Noè si mostra generoso con Dio, offren-do olocausti. Dio ne odora la soave fragranza, e la soddisfazione che ne prova lo porta ad essere, a sua volta, generoso con gli uo-mini (Gn 8,20-22), prendendo un impegno (berit) in loro favore 1 sacrifici di espiazione per i peccati possono, similmente, essere presentati come regali offerti a Dio per fargli dimenticare i peccati. A un Dio giustamente irritato dalle colpe commesse, vengono pre-sentate oblazioni gradite, con la speranza di "placare la sua ira", oppure i sacrifici cruenti vengono considerati come sostituzione di un castigo meritato dall'offerente.
Si potrebbe discutere a lungo su queste concezioni, che possono contenere qualche elemento valido, nell'insieme però, il NT - e in particolare la Lettera agli Ebrei - dimostra chiaramente la loro insufficienza. Negli Atti degli Apostoli, san Paolo si oppone fermamente alla pretesa umana di regalare qualcosa a Dio sia una casa, sia alimenti. Egli dice: "II Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del ciclo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell'uomo, ne dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che da a tutti la vita e il respiro e ogni cosa" (At 17,24-25). Questa dichiarazione del discorso all'Areopago contesta radicalmente il concetto ordinano di culto reso a Dio in un tempio, per mezzo di oblazioni sacrificali.
Le oblazioni non servono a Dio e non possono cambiare le sue disposizioni verso di noi. Secondo la Lettera agli Ebrei, la finalità delle oblazioni non è di provocare un cambiamento nell'atteggiamento di Dio, bensì di ottenere una trasformazione interiore dell'offerente. L'autore critica le oblazioni antiche perché "non potevano rendere perfetto, nella coscienza, l'offerente" (Eb 9,9). Egli concede loro una qualche efficacia per la "purificazione nella carne" (9,13), cioè per la purità rituale, condizione per la partecipazione al culto esterno; ma osserva a più riprese la loro radicale inefficienza per la purificazione delle coscienze (10,1-2.4.11) e quindi per l'autentica relazione con Dio. Invece l'oblazione di Cristo è stata valida perché è stata una trasformazione di Cristo stesso. La Lettera agli Ebrei ci insegna che, per mezzo della sua oblazione, Cristo è stato "reso perfetto" (5,9; cfr 2,10; 7,28). Anziché essere un tentativo umano di cambiare le disposizioni di Dio, la sua oblazione consistette nell'aprire se stesso all'azione di Dio, con amore riconoscente e piena docilità, affinchè la sua natura umana fosse trasformata e resa perfetta, e diventasse così "causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,9-10).
Nuovo contenuto dell'oblazione. Questo cambiamento radicale di prospettiva porta con sé ovviamente un cambiamento del contenuto dell'oblazione. Su questo punto, la Lettera agli Ebrei critica fortemente il culto antico. II gran difetto del culto sacrificale antico era di essere irrimediabilmente esterno Si offrivano cose materiali, si compivano cioè riti esterni (Eb 9,10). Il sommo sacerdote entrava nel santuario "con sangue altrui" (Eh 9,25), cioè "il sangue di capri e di vitelli" (9,12.13.19) Un'oblazione personale non era possibile, perché il sacerdote non era né degno di essere offerto né capace di offrire se stesso. Non era degno, perché era peccatore come gli altri uomini: siccome l'offerta presentata a Dio doveva essere "senza macchia", il sacerdote non costituiva una vittima sacrificale accettabile. La Legge gli prescriveva di offrire prima per i suoi peccati, poi per quelli del popolo (Lv 9,7, 16,6.15). D'altra parte, essendo peccatore, il sacerdote non aveva in sé la forza di canta indispensabile per innalzarsi fino a Dio, la sua attività consisteva quindi nel compiere riti esterni Tale liturgia non raggiungeva realmente Dio e non poteva avere una reale efficacia per le persone umane.. Questo cambiamento radicale di prospettiva porta con sé ovviamente un cambiamento del contenuto dell'oblazione. Su questo punto, la Lettera agli Ebrei critica fortemente il culto antico. II gran difetto del culto sacrificale antico era di essere irrimediabilmente esterno Si offrivano cose materiali, si compivano cioè riti esterni (Eb 9,10). Il sommo sacerdote entrava nel santuario "con sangue altrui" (Eh 9,25), cioè "il sangue di capri e di vitelli" (9,12.13.19) Un'oblazione personale non era possibile, perché il sacerdote non era né degno di essere offerto né capace di offrire se stesso. Non era degno, perché era peccatore come gli altri uomini: siccome l'offerta presentata a Dio doveva essere "senza macchia", il sacerdote non costituiva una vittima sacrificale accettabile. La Legge gli prescriveva di offrire prima per i suoi peccati, poi per quelli del popolo (Lv 9,7, 16,6.15). D'altra parte, essendo peccatore, il sacerdote non aveva in sé la forza di canta indispensabile per innalzarsi fino a Dio, la sua attività consisteva quindi nel compiere riti esterni Tale liturgia non raggiungeva realmente Dio e non poteva avere una reale efficacia per le persone umane.
L'oblazione di Cristo invece fu quanto mai personale. Lo si vide all'Ultima Cena. Egli prese il proprio corpo, il proprio sangue In un atteggiamento di amore riconoscente, li mise a disposizione dell'amore che viene da Dio e li diede poi ai discepoli. La Lettera agli Ebrei dichiara che Cristo "offrì se stesso" (Eb 9,14) Entrò nel santuario "non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue" (Eb 9,12). Fece "una volta sola [...] il sacrificio di se stesso" (Eb 9,26), "l'offerta del suo corpo" (Eb 10, 10) Era in grado di effettuare questa oblazione personale perché era perfettamente degno di presentarsi a Dio, essendo "senza macchia" (Eb 9,14), "santo, innocente" (Eb 7,26), indenne da ogni complicità con il peccato (cfr Eb 4,15). "Chi di voi - diceva Gesù ai giudei - può convincermi di peccato?" (Gv 8,46). San Pietro lo chiama "agnello senza difetti e senza macchia" (1 Pt 1,19) e san Paolo "colui che non aveva conosciuto peccato" (2 Cor 5,21). D'altra parte, egli non era soltanto vittima gradita a Dio, ma anche sacerdote capace di innalzare la vittima, perché accoglieva nel suo cuore tutta la forza della carità divina.
Nuovo modo di offrire. Per l'attuazione di un sacrificio, l'elemento più importante non è la cosa offerta, bensì il mezzo adoperato per farla pervenire presso Dio. Nel culto antico, per far salire la vittima fino al trono celeste di Dio, i sacerdoti avevano a disposizione il fuoco dell'altare. Grazie a questo fuoco, le bestie immolate, portate sull'altare degli olocausti, si trasformavano in fumo che si innalzava verso il ciclo e poteva così venire respirato da Dio come un "profumo gradito" (Es 29,18) Occorre notare, in proposito, che, secondo le tradizioni bibliche, il fuoco dell'altare non era un fuoco qualsiasi, che si sarebbe potuto lasciare spegnere e poi riaccendere Per far salire l'offerta presso Dio, occorreva un fuoco che fosse venuto da Dio stesso. Soltanto un fuoco sceso dal cielo è capace di risalire al cielo e di portarvi con sé le oblazioni Per questo motivo, il libro del Levitico sottolinea che il culto sacrificale del popolo di Dio si effettuava per mezzo di un fuoco venuto da Dio Infatti, secondo il racconto biblico, per l'inaugurazione di questo culto, "un fuoco era uscito dalla presenza del Signore e aveva consumato sull'altare l'olocausto e i grassi" (Lv 9,24). 11 culto del tempio di Salomone veniva situato nella stessa prospettiva. Il giorno della dedicazione, "appena Salomone ebbe finito di pregare, cadde dal cielo il fuoco, che consumò l'olocausto e le altre vittime" (2 Cr 7,1). Secondo le prescrizioni della Legge, il fuoco celeste venuto sull'altare vi era alimentato con cura, per poter servire in continuazione ai sacrifici. Un precetto del Levitico prescriveva che il fuoco fosse sempre tenuto acceso sull'altare e non lo si lasciasse mai spegnere (Lv 6,5-6). L'importanza attribuita a queste tradizioni appare chiaramente in una leggenda pittoresca, riferita in 2 Mac 1,18-36.. Per l'attuazione di un sacrificio, l'elemento più importante non è la cosa offerta, bensì il mezzo adoperato per farla pervenire presso Dio. Nel culto antico, per far salire la vittima fino al trono celeste di Dio, i sacerdoti avevano a disposizione il fuoco dell'altare. Grazie a questo fuoco, le bestie immolate, portate sull'altare degli olocausti, si trasformavano in fumo che si innalzava verso il ciclo e poteva così venire respirato da Dio come un "profumo gradito" (Es 29,18) Occorre notare, in proposito, che, secondo le tradizioni bibliche, il fuoco dell'altare non era un fuoco qualsiasi, che si sarebbe potuto lasciare spegnere e poi riaccendere Per far salire l'offerta presso Dio, occorreva un fuoco che fosse venuto da Dio stesso. Soltanto un fuoco sceso dal cielo è capace di risalire al cielo e di portarvi con sé le oblazioni Per questo motivo, il libro del Levitico sottolinea che il culto sacrificale del popolo di Dio si effettuava per mezzo di un fuoco venuto da Dio Infatti, secondo il racconto biblico, per l'inaugurazione di questo culto, "un fuoco era uscito dalla presenza del Signore e aveva consumato sull'altare l'olocausto e i grassi" (Lv 9,24). 11 culto del tempio di Salomone veniva situato nella stessa prospettiva. Il giorno della dedicazione, "appena Salomone ebbe finito di pregare, cadde dal cielo il fuoco, che consumò l'olocausto e le altre vittime" (2 Cr 7,1). Secondo le prescrizioni della Legge, il fuoco celeste venuto sull'altare vi era alimentato con cura, per poter servire in continuazione ai sacrifici. Un precetto del Levitico prescriveva che il fuoco fosse sempre tenuto acceso sull'altare e non lo si lasciasse mai spegnere (Lv 6,5-6). L'importanza attribuita a queste tradizioni appare chiaramente in una leggenda pittoresca, riferita in 2 Mac 1,18-36.
In questi testi dell'AT si manifesta un'intuizione profonda riguardo alla natura dell'oblazione sacrificale, un'intuizione che dobbiamo accuratamente riscoprire, perché l'abbiamo lasciata perdere. Il termine "sacrificio" infatti non è più capito bene; nel linguaggio corrente è diventato un concetto negativo, che designa una privazione penosa. Perciò è ormai opportuno sostituirlo con la parola "oblazione" oppure "offerta". Di per sé, tuttavia, "sacrificio" esprime meglio la realtà intesa, perché, lungi dal significare "privazione", designa un atto di valore molto positivo, l'atto cioè di rendere sacra qualche cosa. "Sacrificare" vuol dire "rendere sacro", come "purificare" vuol dire "rendere puro" e "semplificare" "rendere semplice". La Bibbia ci fa capire che il "sacrificare" è un'impresa grande, un atto positivo; tanto grande e positivo che l'uomo, da solo, è assolutamente incapace di compierlo. Chi si credesse capace di fare un sacrificio, un'oblazione sacrificale, si troverebbe nell'illusione. Soltanto Dio, infatti, può rendere sacro qualcosa, comunicando la sua santità. L'oblazione sacrificale è un atto cioè che valorizza immensamente una realtà o una persona, proprio perché la permea di santità divina. L'uomo non è in grado di compiere quest'azione perché non può disporre, a suo arbitrio, della santità; può soltanto presentare un'offerta, non la può rendere sacra. Perché l'offerta diventi sacra occorre un intervento di Dio stesso occorre che Dio prenda l'offerta, la trasformi e la faccia salire presso di sé per mezzo del suo fuoco divino. Era questa l'intuizione dell'AT, la quale conserva sempre la sua validità.
Questa intuizione però rimaneva a metà strada, perché il fuoco divino veniva concepito in modo materiale. Per la folgore caduta una volta dal cielo sull'altare degli olocausti, i sacerdoti ebrei ritenevano di avere a disposizione una forza divina nel fuoco adoperato per i sacrifici. L'autore della Lettera agli Ebrei si liberò da questo concetto rudimentale. Meditando sul mistero pasquale di Cristo, scoprì il senso del simbolo: il fuoco di Dio non è la folgore che piomba dalle nubi, ma è lo Spirito Santo, Spirito di santificazione, capace di attuare la trasformazione sacrificale, comunicando all'offerta la santità di Dio. Perciò l'autore scrisse che Cristo "con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio" (Eb 9,14). Di tale frase san Giovanni Crisostomo fa questo commento: "L'espressione "per mezzo dello Spirito Santo" dimostra che l'offerta non è stata effettuata per mezzo del fuoco o di altre cose". Nessuna forza materiale, nemmeno quella del fuoco, è in grado di far salire un'offerta fino a Dio, perché non si tratta di un viaggio nello spazio. Per accostarsi a Dio, l'uomo ha bisogno di uno slancio interno, non di un movimento esterno; di una trasformazione del cuore, non di una combustione fisica. Chi opera questa trasformazione e comunica questo slancio è lo Spirito di Dio.
Per capire meglio in che modo si sia attuata l'azione dello Spirito Santo nell'oblazione sacerdotale di Cristo, e quindi in che modo la dobbiamo accogliere anche noi nella nostra vita, ci conviene ricorrere al cap. 5 della Lettera agli Ebrei, dove possiamo osservare i tratti esistenziali dell'offerta di Cristo. Vi troviamo una descrizione drammatica della Passione, la quale completa il racconto dell'Ultima Cena, mostrandoci un altro aspetto degli eventi. L'autore situa l'oblazione di Cristo "nei giorni della sua vita terrena" (Eb 5,7). Questa indicazione ci aiuta ad approfondire il mistero. Ci mostra infatti che l'offerta di Cristo non fu lo slancio facile di un essere tutto spirituale, che si sarebbe innalzato fino a Dio senza incontrare nessuna difficoltà. Fu, al contrario, una lotta faticosa, una trasformazione dolorosa, attraverso sofferenze e lacrime. Per Gesù il punto di partenza dell'oblazione non fu glorioso, bensì umilissimo. Egli aveva assunto realmente la nostra carne fragile, debole, mortale (cfr 2 Cor 13,4). Perciò si trovò in una situazione di angoscia tremenda, quella di un uomo che deve lottare contro la morte, e quindi "offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime" (Eb 5,7). L'oblazione di Cristo si attuò per mezzo di una offerta di preghiere e fu oblazione del cuore.
Cristo si è presentato: "Ecco, io vengo a fare la tua volontà" (Eb 10,9; Sal 40,8-9). Alle molteplici oblazioni esterne del culto antico, egli ha sostituito l'oblazione del suo cuore, accettando che lo Spirito Santo effettuasse nel suo cuore umano la trasformazione dolorosa che era necessaria per procurare ai peccatori il "cuore nuovo" promesso da Dio (Ez 36,26). La sua oblazione fu oblazione del cuore, non nel senso che si fosse limitata a un atteggiamento interno, ma nel senso che si effettuò nella parte più intima del suo animo per estendersi a tutto il suo essere umano, a tutto il suo agire e patire. L'oblazione realizzata a questa profondità ha avuto come risultato che Cristo "imparò l'obbedienza dalle cose che patì" (Eb 5,8). Ecco il compimento, nel cuore umano di Cristo, della profezia della nuova alleanza: avendo imparato l'obbedienza, Cristo ha la Legge di Dio scritta in modo nuovo nel suo cuore d'uomo, come aveva predetto Geremia (Ger 31,33).
Nuovo dinamismo messo in moto. Queste considerazioni ci portano a constatare ancora un'altra novità, cioè che nell'oblazione sacerdotale di Cristo si è realizzata una sorprendente unione tra docilità verso Dio e solidarietà con i peccatori, e questa unione è diventata la sorgente di un nuovo dinamismo di alleanza. Nella prospettiva dell'AT non si vedeva nessuna possibilità di mettere insieme questi due orientamenti: per stare con Dio pareva necessario combattere contro i nemici di Dio. Per questo motivo, dopo l'idolatria del vitello d'oro, i leviti non soltanto si erano separati dai loro fratelli peccatori, ma li avevano sterminati e avevano così ottenuto il sacerdozio (Es 32,26-29). Similmente Finees nell'episodio di Baal-Peor (Nm 25,5-13). Gesù invece ha ottenuto il suo sacerdozio in un modo inverso: per mezzo di una completa solidarietà con i peccatori. Egli sapeva che la sua missione, affidatagli dal suo Padre celeste, era di "salvare ciò che era perduto" (Lc 19,10) e che Dio non voleva il sacrificio rituale, ma la misericordia (Mi 9,13; 12,7; Os 6,6). Quindi la sua docilità filiale, lungi dall'ostacolare la solidarietà con i peccatori, lo ha spinto a portarla all'estremo. Invece di escludersi a vicenda, le due disposizioni d'animo si sono rafforzate mutuamente. Per corrispondere pienamente all'amore del Padre, Gesù ha dato la propria vita per i suoi fratelli peccatori. Per salvare i fratelli, Gesù è stato obbediente al Padre sino alla morte (Fil 2,8). Così nell'oblazione sacerdotale di Cristo sono state saldate insieme le due dimensioni dell'amore - per Dio e per il prossimo -, alle quali corrispondono le due dimensioni, verticale e orizzontale, della croce. Il sacerdozio di Cristo è ormai caratterizzato dall'unione indissolubile di queste due dimensioni e perciò mette in moto un potente dinamismo di riconciliazione e di comunione. Si tratta veramente del dinamismo della nuova alleanza, che tende a superare tutte le separazioni e a radunare tutte le persone nell'amore che viene da Dio. Questo dinamismo ci viene comunicato dall'Eucaristia, sacramento di comunione.. Queste considerazioni ci portano a constatare ancora un'altra novità, cioè che nell'oblazione sacerdotale di Cristo si è realizzata una sorprendente unione tra docilità verso Dio e solidarietà con i peccatori, e questa unione è diventata la sorgente di un nuovo dinamismo di alleanza. Nella prospettiva dell'AT non si vedeva nessuna possibilità di mettere insieme questi due orientamenti: per stare con Dio pareva necessario combattere contro i nemici di Dio. Per questo motivo, dopo l'idolatria del vitello d'oro, i leviti non soltanto si erano separati dai loro fratelli peccatori, ma li avevano sterminati e avevano così ottenuto il sacerdozio (Es 32,26-29). Similmente Finees nell'episodio di Baal-Peor (Nm 25,5-13). Gesù invece ha ottenuto il suo sacerdozio in un modo inverso: per mezzo di una completa solidarietà con i peccatori. Egli sapeva che la sua missione, affidatagli dal suo Padre celeste, era di "salvare ciò che era perduto" (Lc 19,10) e che Dio non voleva il sacrificio rituale, ma la misericordia (Mi 9,13; 12,7; Os 6,6). Quindi la sua docilità filiale, lungi dall'ostacolare la solidarietà con i peccatori, lo ha spinto a portarla all'estremo. Invece di escludersi a vicenda, le due disposizioni d'animo si sono rafforzate mutuamente. Per corrispondere pienamente all'amore del Padre, Gesù ha dato la propria vita per i suoi fratelli peccatori. Per salvare i fratelli, Gesù è stato obbediente al Padre sino alla morte (Fil 2,8). Così nell'oblazione sacerdotale di Cristo sono state saldate insieme le due dimensioni dell'amore - per Dio e per il prossimo -, alle quali corrispondono le due dimensioni, verticale e orizzontale, della croce. Il sacerdozio di Cristo è ormai caratterizzato dall'unione indissolubile di queste due dimensioni e perciò mette in moto un potente dinamismo di riconciliazione e di comunione. Si tratta veramente del dinamismo della nuova alleanza, che tende a superare tutte le separazioni e a radunare tutte le persone nell'amore che viene da Dio. Questo dinamismo ci viene comunicato dall'Eucaristia, sacramento di comunione.

Conclusione

L'oblazione sacerdotale di Cristo ha come risultato definitivo la sua attuale posizione di mediatore perfetto, dotato di insuperabili capacità di relazione. Nella Lettera agli Ebrei due aggettivi esprimono queste capacità: Cristo è diventato sommo sacerdote "fedele" e "misericordioso" (Eb 2,17). Il primo aggettivo, "fedele", esprime la capacità riguardo alle relazioni con Dio: "fedele nelle cose che riguardano Dio". L'altro aggettivo, "misericordioso", esprime la capacità di comprensione, di compassione e di aiuto per noi uomini. Negli eventi della passione e della glorificazione di Cristo questa duplice capacità è stata portata al culmine.
"A causa della morte che ha sofferto", Gesù è ormai "coronato di gloria e di onore" (Eb 2,9); Dio lo ha proclamato "sommo sacerdote" (Eb 5, 10), "in qualità di Figlio costituito sopra la propria casa" (Eb 3,6). La relazione di Cristo con Dio è la più stretta possibile, poiché Cristo è Figlio nel senso più pieno della parola; egli è "il Figlio di Dio" (Eb 4,14), "irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza (Eb 1,3). Per mezzo della Passione la natura umana di Cristo è stata innalzata nella pienezza della gloria filiale (cfr Eb 5,5; Rm 1,4; Fil 2,8-9). Ne risulta che la filiazione divina conferisce al suo sacerdozio un valore unico, inimmaginabile prima, per le relazioni con Dio. D'altra parte, Cristo ha acquisito, per mezzo delle sue sofferenze e della sua morte, una capacità estrema di compassione e di misericordia verso di noi: "Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato" (Eb 4,15). "Proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova" (Eb 2,18).
Nel mistero pasquale di Cristo, reso presente nell'Eucaristia, la relazione con gli uomini e la relazione con Dio sono state condotte simultaneamente, l'una per mezzo dell'altra, alla loro perfezione. Tutte le separazioni antiche sono state abolite. Una "via nuova e vivente" esiste ormai per la comunicazione tra gli uomini e Dio (Eb 10,20). Questa via è Cristo stesso, sacerdote perfetto, che nell'Eucaristia mette a nostra disposizione le sue stupende capacità di relazioni, acquisite a caro prezzo, affinché propaghiamo nel mondo la comunione nell'amore.

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