La liturgia, nella seconda domenica di Quaresima, propone alla nostra meditazione e alla nostra contemplazione il Vangelo della Trasfigurazione,
E' un passo molto ricco, dalle mille sfumature, del quale non è possibile in questa sede fare una analisi dettagliata e approfondita. Raccogliamo solo alcune suggestioni che possono esserci utili per la riflessione personale, soprattutto come stimolo a far sì che l'esperienza taborica raggiunga anche noi, dentro le precise, concrete e quotidiane circostanze nelle quali ci troviamo al presente.
Per contestualizzare...
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre che sono stati sempre scelti come testimoni privilegiati dei momenti più intimi di Gesù, dall'inizio della vita pubblica fino alla sua manifestazione suprema, "la sua ora", come continuamente la definì lo stesso Giovanni nel suo Vangelo e che nell'Orto degli Ulivi ebbe un momento di particolare intensità. Dice infatti Marco - che ha scritto quanto ha udito raccontare da Pietro, di cui era discepolo - nel suo Vangelo: "Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: "Sedetevi qui, mentre io prego". Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: "La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate"" (14,32-34).
Dunque Gesù, anche questa volta, prende con sé questi suoi tre discepoli e li conduce con sé sul monte, il monte Tabor.
E' proprio quella del MONTE la prima suggestione che vogliamo raccogliere.
Nella tradizione biblica esso è un luogo particolarmente sacro.
Su di esso venivano infatti offerti i sacrifici, come viene detto ad esempio nel primo Libro di Samuele: "Mentre essi salivano il pendio della città, trovarono ragazze che uscivano ad attingere acqua e chiesero loro: "È qui il veggente?". Quelle risposero dicendo: "Sì, c'è; ecco, vi ha preceduto di poco: ora, proprio ora è rientrato in città, perché oggi il popolo celebra un sacrificio sull'altura" (9,11-12); anche nel primo Libro dei Re si dice: "Il re andò a Gàbaon per offrirvi sacrifici perché ivi sorgeva la più grande altura. Su quell'altare Salomone offrì mille olocausti" (3,4).
Iahwè stesso sul monte manifesta la sua gloria: basti pensare all'esperienza di Mosè sul Sinai (un passo fra molti: "Allora Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte.
Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì." [Es19,17-20]), ma anche a quella di Elia, fuggiasco a causa di Gezabele, che sull'Oreb fa esperienza del suo Dio ("Elia si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco il Signore gli disse: "Che fai qui, Elia?". Egli rispose: "Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita". Gli fu detto: "Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore". Ecco, il Signore passò". [1Re 19,8-11a]).
Un Dio dunque, quello degli Israeliti, che i nemici di questi ultimi definiscono addirittura "dio dei monti": si dice infatti nel primo Libro dei Re: "Ma i servi del re di Aram dissero a lui: "Il loro Dio è un Dio dei monti; per questo ci sono stati superiori"" (20,23).
Lo stesso Gesù fa della montagna un luogo privilegiato: su di essa infatti sceglie i dodici ("Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui": Mc3,12), sulla montagna fa il discorso che sarà la sua "magna charta" ("Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: "Beati i poveri in spirito…"" [Mt. 5,1ss.]), sul monte si ritira a pregare ("Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù" [Mt 14,23]).
La scelta dunque di condurre Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte non è dunque casuale, ma è un indizio capace di farci comprendere che ciò che Gesù intende rivelare riguarda la sua divinità, il suo essere "vero Dio", esattamente come rivelazione di Dio fu quella sull'Oreb.
Una seconda suggestione viene offerta a noi dal simbolo della LUCE, della quale Gesù si mostra vestito.
Mentre a Mosè Dio si mostra come fuoco che arde nel roveto senza bruciarlo (Es 3,1ss.) e a Elia come "mormorio di vento leggero" (1Re 19,12), sul Tabor la teofania assume l'elemento della luce.
In realtà questa immagine era già ben conosciuta in Israele, come viene detto nel Salmo 103: "Benedici il Signore, anima mia, Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto" (103,1-2a).
Anche la luce è la dimora e la veste di Dio.
In Gesù tale luce è velata dal suo essere umano, dalla sua corporeità; trasfigurandosi davanti ai tre, Egli rivela la sua intima realtà, si svela. Gesù dimostra di essere sì vero uomo, ma anche e pienamente vero Dio.
Bene sembra coglierlo Giovanni, che nel prologo del suo Vangelo dice: "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (1,9) e nella sua prima Lettera ribadisce: "Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre" (1Gv 1,5).
La terza suggestione che raccogliamo è quella della NUBE LUMINOSA DA CUI ESCE UNA VOCE.
Come non ripensare ancora a Mosè? Dice il Libro dell'Esodo: "Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti" (24,15.17).
Anche a Maria è donata questa esperienza: "Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio"" (Lc 1,35).
Per lo stesso Gesù non è nuova l'esperienza della voce dal cielo, dal momento che il Padre aveva fatto udire la sua voce già il giorno del battesimo del Figlio nel fiume Giordano: "Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: "Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,21-22).
Si tratta dunque di una vera e propria teofania e questa volta a ben coglierla sembra essere Pietro, il quale ritiene ormai inutile andare alla festa dei tabernacoli a Gerusalemme (festa che celebra la sovrana regalità di Dio, come viene descritto in Zac 14,16-19), perché la "gloria di Dio" si è loro manifestata lì, sul Tabor: Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti - per dire l'intera Scrittura Santa - lo confermano! Questa esperienza lo segna a tal punto da scrivere nella sua seconda Lettera: "Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto". Questa voce noi l'abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori" (2Pt 1,16-19).
Perché mai però Gesù ha voluto mostrare ai tre discepoli la sua gloria? Perché ha voluto far vivere loro questa esperienza?
La risposta ci viene fornita dalla posizione stessa in cui è posto questo brano evangelico.
In tutti e tre i sinottici infatti (Mt, Mc e Lc) il racconto della trasfigurazione è collocato tra il primo e il secondo annuncio della passione.
Da un lato dunque sembra essere un assaggio della luce gloriosa della risurrezione - come è detto in Luca: "Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato". (24,1-6a)" - e dall'altro sembra essere uno strumento che Gesù fornisce loro in anticipo perché non si smarriscano quando l'ora delle tenebre giungerà e con la sua potenza oscura sembrerà travolgere ogni cosa, persino lo stesso Gesù: "Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni? ", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ""(Mc 15,33-34).
Anche i Santi Padri confermano questo tipo di interpretazione.
S. Leone Magno, nel suo 51° Discorso, afferma infatti:
"Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di molti testimoni e fa risplendere quel corpo, che gli è comune con tutti gli uomini, di tanto splendore che la sua faccia diventa simile al fulgore del sole e le sue vesti uguagliano il candore della neve.
Questa trasfigurazione, senza dubbio, mirava soprattutto a rimuovere dall'animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l'umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo. Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della S. Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato oggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel capo".
Quale teologia?
Quale visione di Dio e dell' uomo scaturiscono perciò dalla contemplazione dell'icona della trasfigurazione?
I nostri fratelli ortodossi amano parlare di "TEOLOGIA DELLA GLORIA-LUCE".
L'umanità visibile di Gesù infatti è l'icona della sua divinità invisibile; come dice S. Giovanni Damasceno, è "il visibile dell'invisibile" ("De imaginibus oratio" I, 11, PG 94,1241 BC). Gesù dunque appare come l'immagine di Dio e dell'uomo al tempo stesso, l'icona del Cristo totale: Dio-Uomo.
Questa funzione rivelatrice che possiede l'umanità di Gesù diviene la verità di ogni essere umano: l'uomo infatti non è vero e non è reale se non nella misura in cui riflette il celeste.
Gesù realizza, compie l'immagine vera dell'uomo, la porta alla perfezione e, rendendola pura, la fa partecipare alla Bellezza divina. Questo è vero e possibile per ogni persona umana; S. Paolo, nella sua 2° Lettera ai Corinzi, afferma infatti: "E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore" (3,18).
S. Gregorio Nazianzeno, dice che "l'uomo ha ricevuto l'ordine di divenire Dio secondo la grazia" ("In laudem Basilici Magni, PG 36, 560 A) perché: "essendosi avvicinata alla luce, l'anima si trasforma in luce" (S. Gregorio di Nissa, "In cantica canticorum homilia 5, PG 44, 869A).
Questa vocazione alla gloria è, per i Padri, donata a ogni uomo con il Battesimo; l'indossare le tuniche bianche infatti è un coprirsi delle vesti luminose di Cristo, quelle stesse che Egli ha mostrato nella sua Trasfigurazione.
Perché ciò si realizzi, ognuno è però chiamato a dare il suo libero assenso e a partecipare in modo attivo a questa personale trasfigurazione.
Ma come è possibile fare in modo che ciò si compia?
Per l'oriente cristiano la via è quella dell'ascesi contemplativa.
Essere "in stato di deificazione" significa infatti contemplare la luce increata e lasciarsene penetrare, è riprodurre nel proprio essere il mistero cristologico. Come afferma S. Massimo, "è riunire nell'amore la natura creata alla natura increata, facendole apparire nell'unità mediante l'acquisizione della grazia" (Ambiguorum liber, PG 91, 1308B).
Quale il sentiero su cui camminare?
Abbiamo già detto che la via è quella della ascesi contemplativa., tuttavia molto spesso non si sa quali passi concreti compiere per ascendere.
La tradizione ortodossa ci dona un possibile sentiero sul quale camminare, che è quello dell'ESICASMO e della PREGHIERA DEL CUORE.
L'uomo infatti è sospinto verso il mistero da ogni evento della vita e della storia, ma perché la preghiera sia "preghiera cristiana" è necessario che si realizzi un rapporto personale di comunione tra l'uomo e il Padre, per Cristo, nel fuoco dello Spirito di amore. L'itinerario ascetico e spirituale consiste allora nel distaccare la coscienza dalle sue manifestazioni illusorie per congiungerla al cuore; il fine è quello di ripristinare, nel fuoco della grazia dello Spirito, l'unità dell'uomo totale, frammentato a causa del peccato originale.
Colui che vuol avanzare nella strada della preghiera interiore deve rientrare in se stesso, trovare "il Regno dei Cieli" dentro di sé, per poter attraversare, in compagnia dello Spirito Santo, la misteriosa frontiera che separa il creato dall'increato.
L'uomo, creato unitario, si esprime nel corpo, nella mente e nello spirito. La preghiera perciò non può non coinvolgere tutte e tre queste dimensioni dell'essere.
L'esicasmo, sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione dell'uomo nella unione con Dio tramite la preghiera incessante, divide il cammino della preghiera del cuore in tre gradi.
La preghiera vocale coinvolge l'uomo nella sua corporeità, perché coinvolge le labbra, la lingua, la postura, la voce. I Padri la considerano come il "primo approccio alla carne di Gesù". Le parole vengono pronunciate ad alta voce, oppure sommessamente, o silenziosamente dalle labbra e dalla lingua. Mentre si recitano, l'attenzione è chiamata a sostare sul significato delle parole pronunciate, che devono essere piuttosto costanti e ripetitive (tipica è quella adottata anche dal Pellegrino Russo: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore"). Anch'essa necessita di un cammino di crescita, che consiste in una sempre maggiore sobrietà e sintesi. Solo così l'anima può progredire verso un'unione più intima e personale con Dio.
La preghiera mentale fa invece appello all'attività intellettuale e riflessiva. Più sviluppata in Occidente, in Oriente è considerata come una fase di passaggio che serve unicamente come preparazione alla "preghiera del cuore". Si ha quando la mente ripete la formula senza il concorso delle labbra o della lingua; l'interiorità è cresciuta, c'è una maggiore facilità di attenzione e di concentrazione. La preghiera spesso assume un suo ritmo proprio, a volte "canta" in noi spontaneamente, senza alcun atto cosciente della volontà, come testimonia lo starets Partenio: "Abbiamo in noi un piccolo ruscello che mormora".
Quando la preghiera diventa, come dice Teofanie il Recluso, "un sospiro del cuore verso Dio", allora si è nella autentica preghiera spirituale. Solo questa è veramente "preghiera del cuore", cioè orazione di tutto l'uomo, corpo, mente e spirito. La preghiera qui non è più una serie di atti, ma uno stato contemplativo. La preghiera si fa strada nel cuore e da lì permea tutta la personalità. Il suo ritmo si identifica sempre più con il battito del cuore, finché giunge ad essere incessante. Si compie quanto S. Paolo afferma nella sua 1° Lettera ai Tessalonicesi: "Pregate incessantemente" (5,17). Questa "preghiera di Gesù" che staziona costantemente nel cuore è fonte di pace e di gioia; all'orante è fatta la grazia di contemplare la luce taborica, che altro non è che una pregustazione di quella della Parusia, come anche S. Gregorio Palamas afferma quando dice che la luce del Tabor, la luce contemplata dai santi e la luce del secolo futuro sono identiche.
L'uomo trasfigurato compie così anche quella che è la sua "missione ontologica", secondo il comandamento di Gesù: "Voi siete la luce del mondo" (Mt5,14).
Dalla contemplazione all'azione
Nel Vangelo di Matteo che stiamo meditando la conclusione non è la proposta di Pietro di restare sul monte, ma la discesa nella valle, il ritorno alla vita quotidiana, alla storia. La luce di cui sono stati fatti partecipi gli apostoli è infatti quella taborica, non quella escatologica: questo significa che la missione di cui sono investiti gli apostoli deve compiersi ancora attraverso le pieghe della storia terrena.
Non diverso può essere per coloro che accettano di compiere il cammino di ascesi contemplativa e che ricevono da Dio la grazia della visione di questa luce.
Anche per questi ultimi però è riservata una missione, una missione certamente di carità, che però può assumere mille volti, mille espressioni, mille sfaccettature, mille sfumature.
Per restare alla scuola dei nostri fratelli ortodossi, accogliamo la provocazione che ci viene da coloro che, per mandato, sono iconografi.
Nella tradizione bizantina non esiste quella che, in Occidente, viene chiamata "arte religiosa", cioè l'espressione del sentimento religioso attraverso la pittura, obbediente alla sensibilità, al gusto, alla forma del tempo. In Oriente si parla di "arte liturgica", cioè di una modalità di esprimere il dato teologico non come è recepito dall'artista, ma secondo la verità della fede, proclamata dalla Chiesa. E' il dato teologico che emerge, non il dato mediato da chi dipinge. L'icona è espressione di questa "arte liturgica".
Considerata un "sacramentale", essa trae tutto il suo valore teofanico dalla sua partecipazione al "totalmente altro" mediante la rassomiglianza; l'icona non può racchiudere niente in se stessa, ma è una sorta di "schema di irradiamento". E' chiamata non a suscitare l'emozione - come è per l'arte religiosa Occidentale - ma il senso mistico, l'attesa della Parrusia del Trascendente di cui essa testimonia la presenza.
Nella tradizione ortodossa nessuno si autoproclama iconografo. Scrive una icona solo chi riceve il mandato e la benedizione dall'autorità ecclesiale, dopo aver lungamente pregato e digiunato. Proprio per questo motivo la maggioranza degli iconografi - almeno un tempo! - erano monaci… Nel Monastero ogni iconografo-monaco cominciava la sua "arte divina" dipingendo l'icona della Trasfigurazione. Questa iniziazione vivente e diretta insegnava innanzitutto che l'icona è scritta non tanto con i colori, quanto con la luce taborica. Secondo la tradizione infatti la presenza conduttrice dello Spirito Santo si manifesta nella luminosità dell'icona stessa: è la presenza dello spirito che sopprime ogni sorgente definita di luce nella composizione iconografica (questo anche il motivo dello sfondo dorato).
Non è possibile in questa sede fare una analisi del linguaggio iconografico: accontentiamoci di cogliere solo qualche suggerimento derivante dallo sguardo posato sull'ICONA DELLA TRASFIGURAZIONE della Chiesa di Berat, icona del secolo XVI.
Essa mostra i discepoli che cadono giù dalla cima scoscesa, atterrati e atterriti dalla visione sfolgorante.
Pietro, a sinistra, inginocchiato, alza la mano per proteggersi dalla luce; Giovanni, in mezzo, cade voltando le spalle alla luce; Giacomo, a destra, fugge.
Il contrasto è sorprendente: esso contrappone il Cristo come immobile nella Pace trascendente che emana da lui, che avvolge le figure di Mosè e di Elia e forma il cerchio perfetto dell'aldilà, e il dinamismo movimentato degli apostoli, ancora del tutto umani davanti alla Rivelazione che li sconvolge e li atterra. Questo contrasto ben sottolinea il carattere increato della luce della Trasfigurazione.
Tornando a posare gli occhi su Pietro, consideriamo il fatto che vuole piantare le tende sul monte: è, il suo, un volersi installare nella Parusia prima della fine della storia. S. Gregorio Palamas bene ha colto questa tentazione dell'apostolo, al punto che spesso nei suoi insegnamenti ritorna sul senso della storia. Il mondo tutto intero infatti è destinato al Regno, ma esso deve essere trasfigurato in una "nuova terra". Conformemente a quanto insegna S. Paolo nel cap.8 della sua Lettera ai Romani - in cui si dice che la creazione geme e soffre nella attesa di essere essa pure liberata, salvata dall'uomo cristificato -, dice: "L'uomo vero, quando la luce gli serve da via, si eleva sulle cime eterne; egli contempla le realtà metacosmiche, senza separarsi dalla materia che l'accompagna fin dal principio… conducendo a Dio, attraverso se stesso, tutto l'insieme della creazione".
Dopo una breve irruzione dell'Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la missione apostolica, ritrovare il mondo e discendere nel suo inferno.
Gesù parla con Mosè ed Elia della sua Passione.
Contemplare la luce taborica e poi scendere nel mondo significa porre i propri passi dietro a quelli di Cristo, il cui Amore è sacrificale: sacrificio redentivo il Suo, che chiama noi a partecipazione.
Gli iconografi attraverso il colore, noi attraverso modalità nostre proprie, tutti chiamati a godere della luce del Tabor, fonte di certezza nel buio del dolore, perché ogni morte già risplende della luce del mattino di Pasqua.
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