IV Domenica del Tempo di Avvento. Anno A





Rembrandt (1606-1669)
Mentre Giuseppe e Maria dormono, l'angelo appare in sogno a Giuseppe



Matteo 1,18-24.

Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.




Sogno di San Giuseppe
Museo Civico di Novara



IL COMMENTO

Il timore di Giuseppe dinnanzi ad un Figlio. Il nostro stesso timore dinnanzi a noi stessi, figli nel Figlio, nel seno immacolato di Maria. In Lei abbiamo ricevuto le sembianze del Figlio, la stessa natura di Dio. Ma nonostante ciò, abbiamo paura di noi stessi. Della nostra ombra, degli spigoli del carattere, delle nostre incertezze, delle parole, dei gesti. Per paura siamo schiavi, soggetti ad un padrone che ci tira per il collo e ci fa compiere quel che non vorremmo, ci fa pronunciare parole che neanche ci sogniamo. Ci fa pensare male di noi stessi. E di Dio.

Si, la prima paura, il terrore della morte che ci fa schiavi dal principio, è il timore di noi stessi. Della nostra riuscita, del nostro modo d'essere, del rifiuto di chi vorremmo amare. La paura d'essere noi stessi. Non ci amiamo, ci disprezziamo, ci idealizziamo in un mondo di sogni, ci impegniamo a cambiare e a mostrarci "commestibili", accettabili, presentabili, amabili. E le scottature di delusioni a grappoli aumentano il disprezzo e il giudizio su noi stessi, che catapultiamo immancabilmente su chi ci è prossimo. La paura e lo scandalo di un'infinita distanza. La lacerazione come una ferita sempre aperta tra la sublimità della nostra vocazione e l'infinita inadeguatezza di ciò che riteniamo sia il nostro essere, e il nostro modo di stare al mondo. Lo scandalo e la paura di Giuseppe.

E' accaduto qualcosa di strano, fuori dai calcoli e dalle regole della vita, la vita di Dio appare dove nessuno se lo aspetta. Senza preavviso, senza chiedere il permesso, al di là di ogni legge. Addirittura al di là della stessa Legge di Dio. Incinta fuori del matrimonio. Maria. Promessa sposa, ma non ancora sposa. Da schiantare il cuore. Lo schianto dell'Incarnazione, evento imprevisto sul crinale della Storia. E Giuseppe assorto, tremante, impaurito, a cercare modi e parole per ovviare all'imponderabile. Come noi, oggi, dinnanzi alla nostra vita, alla nostra storia. Alle briciole di un'esistenza che vorrebbe avere capo e coda, e non ne trova in nessun percorso logico. Umano.

"Giuseppe, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perchè quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo". Tua sposa. La promessa sposa è "già" sposa, la Provvidenza di Dio ha precorso il tempo. Ha infranto le regole del mondo, la biologia del cosmo, disegnando, dall'eterno e per l'eterno, un cammino di salvezza tra le piaghe dell'umanità peccatrice. Verranno le acque amare per Maria. Verranno gli insulti, i sorrisi ironici. Verrà la spada. Anche Lei, Immacolata Concezione, senza peccato s'è fatta peccato per partorire al mondo il Dio fatto peccato. Lo schianto dell'Incarnazione, il cammino della Misericordia dentro la storia di peccato delle generazioni degli uomini. La Madre e il Figlio senza ombra alcuna di peccato tacciati di peccato. La Croce per entrambi. L'amore estremo e folle di Dio. Amore totale e gratuito ai peccatori. Per salvarli, e farli Dio, ha fatto peccato la Madre e il Figlio. E Giuseppe a prendere con sè quanto lo Spirito Santo aveva generato, e, follemente, aveva attuato.

L'arduo cammino dell'amore. Gesù al Giordano, nella fila dei peccatori, e Maria incinta fuori del matrimonio. Ma c'è una verità nascosta, il mistero che fa tremare la terra, Lei "è" già sposa agli occhi di Dio, Lei è santa, Lei è la Madre santa del Figlio santo. Dio si è nascosto nella carne dell'uomo. Solo gli occhi di Dio vedono "oltre" l'angusto sguardo dell'uomo. Lo stupore e la paura di Giuseppe sono il nostro stupore, la nostra paura. E la parola dell'Angelo rivolta oggi a ciascuno di noi è un balsamo di pace e di speranza: " Non temere", non temiamo di prendere con noi Maria, la Figlia di Sion, la Donna, la nostra storia. In Lei siamo generati, e quel che è generato in Lei è opera dello Spirito Santo. Siamo dunque opera del respiro di Dio, la Sua vita è dentro la nostra vita. La carne la sorregge a malapena, la tenda d'argilla che sono le nostre membra peccatrici, quelle zolle di terra che ci scandalizzano, ci bloccano, ci impauriscono non sono che la povera stalla di Betlemme dove Dio ha voluto prendere dimora. Dove Dio ha voluto nascere al mondo.

Non abbiamo paura di noi stessi, delle nostre debolezze, di tutto quello che in noi oggi non quadra, del nostro astruso passato, del nostro incerto futuro. Quel che è in noi, quello che ci genera oggi a questo giorno come ad ogni giorno è il dito di Dio; il soffio del Suo Spirito dà vita alla nostra morte. In Dio siamo "già" sposati con il Suo Figlio, siamo Suoi da sempre, da prima della creazione del mondo. E' Lui il nostro destino, la nostra debolezza è una debolezza in più allineata nell'albero genealogico di Gesù. Noi siamo il suo destino e Lui è la nostra Patria. Il nostro cielo. La nostra Vita. Siamo preziosi ai Suoi occhi. I nostri occhi guardano la nostra vita riflessa in uno specchio, gli occhi di Dio guardano, e amano, il Suo Figlio in noi. Gli occhi di Dio ci guardano con amore di Padre. Come hanno guardato Maria, di cui, oggi come ogni giorno, siamo gli amatissimi figli. Con Maria e Giuseppe allora, sulle strade della Croce, una spada a trafiggerci l'anima e la certezza incrollabile d'essere amati di un amore eterno. Quello di Suo Figlio.





Evangelio según San Mateo 1,18-24.
Este fue el origen de Jesucristo: María, su madre, estaba comprometida con José y, cuando todavía no habían vivido juntos, concibió un hijo por obra del Espíritu Santo.
José, su esposo, que era un hombre justo y no quería denunciarla públicamente, resolvió abandonarla en secreto.
Mientras pensaba en esto, el Angel del Señor se le apareció en sueños y le dijo: "José, hijo de David, no temas recibir a María, tu esposa, porque lo que ha sido engendrado en ella proviene del Espíritu Santo.
Ella dará a luz un hijo, a quien pondrás el nombre de Jesús, porque él salvará a su Pueblo de todos sus pecados".
Todo esto sucedió para que se cumpliera lo que el Señor había anunciado por el Profeta:
La Virgen concebirá y dará a luz un hijo a quien pondrán el nombre de Emanuel, que traducido significa: "Dios con nosotros".
Al despertar, José hizo lo que el Angel del Señor le había ordenado y llevó a María a su casa.



Giotto, Il sogno di Giuseppe
Cappella degli Scrovegni Padova




COMENTARIO

El temor de Josè frente a un Hijo. Nuestro mismo temor frente a nosotros mismos, hijos en el Hijo, hijos en el seno inmaculado de Maria. En sus entrañas hemos recibido los semblantes del Hijo, la misma naturaleza de Dios. Pero a pesar de eso, tenemos miedo de nosotros mismos. De nuestra sombra, de las esquinas del carácter, de nuestras incertidumbres, de las palabras, de los gestos. Por miedo somos esclavos, sujetos a un dueño que nos tira por el cuello y nos hace cumplir lo que no querríamos, nos hace pronunciar palabras que tampoco nos imaginamos. Nos hace pensar mal de nosotros mismos. Y de Dios.

Es cierto, el primer miedo, el terror de la muerte que nos hace esclavos del principio, es el temor de nosotros mismos. De nuestro éxito, de nuestro modo de ser, del rechazo de quien querríamos querer. El miedo de ser nosotros mismos. No nos queremos, nos despreciamos en lo que somos y nos idealizamos en un mundo de sueños, nos empeñamos a cambiar y a enseñarnos "comestibles", aceptables, presentables, amables. Y las quemaduras de las desilusiones a racimos aumentan el desprecio y el juicio sobre nosotros mismos, que catapultamos inevitablemente sobre quién nos es próximo. El miedo y el escándalo de una infinita distancia. La laceración como una herida siempre abierta entre la sublimidad de nuestra vocación y la infinita inadecuación de lo que creemos sea nuestro ser y nuestro modo de estar al mundo. El escándalo y el miedo de Josè.

Algo extraño ha ocurrido, fuera de los cálculos y de las reglas, la vida de Dios aparece dónde nadie lo espera. Sin preaviso, sin pedir el permiso, más allá de cada ley. Hasta más allá de la misma Ley de Dios. Embarazada fuera del matrimonio. Maria, prometida esposa, pero todavía no esposa. Algo para destrozar el corazón. El escandalo de la encarnación, acontecimiento imprevisto en el cumbre de la Historia. Y Josè absorto, tembloroso, asustado, a buscar modos y palabras para remediar a lo imponderable. Como nosotros, hoy, frente a nuestra vida, a nuestra historia. A las migas de una existencia que querría tener cabeza y cola, y no encuentra sentido en ningún recorrido lógico, humano.

"Josè, no temas de coger contigo a Maria, tu novia, porque aquellos que es engendrado en ella procede del Espíritu Santo." Tu novia. La prometida esposa "ya" es su esposa, la Providencia de Dios ha anticipado el tiempo. Ha sobrepasado las reglas del mundo, la biología del cosmos, dibujando, de lo eterno y por lo eterno, un camino de salvación entre las llagas de la humanidad pecadora. Vendrán las aguas amargas para Maria. Vendrán los insultos, las sonrisas irónicas. Vendrá la espada. Ella tambien, Inmaculada Concepción, sin pecado se ha hecho pecado para dar a luz al mundo al Dios hecho pecado. El escandalo de la encarnación, el camino de la Misericordia dentro de la historia de pecado de las generaciones de los hombres. La Madre y el Hijo sin sombra alguna de pecado tachados de pecado. La Cruz por ambos. El amor extremo y loco de Dios. Amor total y gratuito a los pecadores. Para salvarlos, y hacerlos Dios, ha hecho pecado la Madre y el Hijo. Y Josè, justo ententando desubrir la voluntad de Dios, a tomar consigo cuánto el Espíritu Santo habia engendrado, y, locamente actuado.

Es el arduo camino del amor. Jesús al Jordan, en la fila de los pecadores y Maria embarazada fuera del matrimonio. Pero hay una verdad escondida, el misterio que hace temblar la tierra, Ella ya "es" novia a los ojos de Dios, Ella es santa, Ella es la Madre santa del Hijo santo. Dios se ha escondido en la carne del hombre. Sólo los ojos de Dios ven "más allá de" la estrecha mirada del hombre. El estupor y el miedo de Giuseppe son nuestro estupor, nuestro miedo. Y la palabra del ángel vuelve hoy a cada uno de nosotros es un bálsamo de paz y esperanza: "No temas", no temamos de coger con nosotros a Maria, la Hija de Sión, la Mujer, imagen y cumplimiento de nuestra historia. En Ella somos engendrados, y lo que ha sido engendrado en sus entrañas es obra del Espíritu Santo. Somos pues obra del respiro de Dios, Su vida está dentro de nuestra vida. La carne la sustenta a duras penas, la tienda de arcilla que son nuestros membros pecadores, aquellas glebas de tierra que nos escandalizan, nos paran, nos asustan, son el pobre establo de Belén donde Dios ha querido poner su morada. Dónde Dios ha querido nacer al mundo.

No tengamos miedo de nosotros mismos, de nuestras debilidades, de todo lo que en nosotros hoy no cuadra, de nuestro abstruso pasado, de nuestro incierto futuro. Lo que nos pertenece, fuera del pecado, es exactamente lo que nos engendra hoy a este día a como a cada día, es el dedo de Dios, el soplo de Su Espíritu que da vida a nuestra muerte. En Dios "ya" somos casados con Su Hijo, somos desde siempre Suyos, desde antes de la creación del mundo. Él es nuestra suerte, nuestra debilidad es una debilidad más alineada en el árbol genealógico de Jesús. Nosotros somos su suerte y Él es nuestra Patria. Nuestro Cielo. Nuestra Vida. Somos preciosos a Sus ojos. Nuestros ojos miran nuestra vida refleja en un espejo, los ojos de Dios miran, y quieren, Su Hijo en nosotros. Los ojos de Dios nos miran con amor de Padre. Como han mirado a Maria, de que, hoy como cada día, somos los hijos amados. Con Maria y Josè encaminémosnos sobre el camino de la Cruz, una espada a traspasarnos el alma y la certeza inquebrantable de ser queridos de un amor eterno. El amor de Su Hijo.



Beato Angelico, Sposalizio della Vergine – Pala di Cortona [part.], Museo Diocesano di Cortona.

Beato Angelico, Bodas de la Virgen
Pala di Cortona [part.], Museo Diocesano di Cortona.



Giuseppe meritò da Dio di essere detto e creduto padre di Dio

Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate.

Era costume degli ebrei che dal giorno del fidanzamento a quello delle nozze la sposa fosse affidata alla custodia dello sposo, perché tanto meglio fosse conservata la loro pudicizia quanto più vicendevolmente essi erano fedeli. Ora, come Tommaso col suo dubbio e poi con il suo incontro tangibile con Cristo fu il testimonio più tenace della risurrezione del Signore, così Giuseppe, fidanzandosi a Maria e bene conoscendola durante il periodo di preparazione alle nozze, fu il teste più fedele della di lei pudicizia. Splendida convenienza dell'uno e dell'altro fatto: del dubbio di Tommaso e del fidanzamento di Maria.

Fu dunque necessario che Maria fosse sposata a Giuseppe, affinchè le cose sante rimanessero nascoste agli infedeli (cfr. Mt 7,6), la verginità di lei fosse accertata dallo sposo, e intatta restasse la sua pudicizia e la sua fama. Nulla di più saggio e di più degno della Provvidenza divina. Con un solo atto è ammesso un teste ai segreti celesti, ne è escluso il nemico, si conserva integro l'onore della Vergine. Però qualcuno potrebbe obiettare: «Giuseppe, come uomo, non poteva fare a meno di dubitare della fedeltà della sua sposa; ma, poiché era uomo giusto, non voleva certamente coabitare con lei a motivo di questo sospetto, né tuttavia (dal momento che era anche uomo pio) voleva esperia all'infamia come sospetta: perciò egli aveva deciso di lasciarla segretamente».

Rispondo in poche parole che anche questo dubbio di Giuseppe era necessario, per avere da Dio l'opportuna chiarificatrice assicurazione: «Mentre egli stava pensando a queste cose», di lasciarla cioè segretamente, «gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20).

Per queste ragioni, dunque, Maria andò sposa a Giuseppe o, come dice l'evangelista, «di un uomo chiamato Giuseppe» (Le 1,27).L'evangelista lo dice un uomo, non perché sposo di una donna, ma perché uomo di virtù; ossia perché, come nota un altro evangelista(Mt 1,19), egli non era semplicemente un uomo, ma lo sposo di lei: chiamato dunque così perché tale appunto la gente lo considerava.

Dovette, perciò, essere detto lo sposo di lei, perché necessariamente così doveva essere ritenuto; come anche meritò di essere reputato il padre del Salvatore, pur non essendolo in realtà: «Gesù aveva circa trent'anni quando cominciò il suo ministero; ed era figlio, come si credeva di Giuseppe» (Le 3,23).

Giuseppe, dunque, non fu né il marito della madre, né il padre del figlio, sebbene, come abbiamo spiegato, data la situazione in cui necessariamente si trovava, per un certo tempo egli come tale fosse chiamato e reputato. Da tutto ciò deduciamo: Giuseppe meritò da Dio di essere detto e creduto padre di Dio; Giuseppe fu un uomo assolutamente straordinario. Nessun dubbio che sia stato sempre un uomo buono e fedele questo Giuseppe, la cui sposa era la Madre del Salvatore.

Servo fedele e saggio, scelto dal Signore per confortare la Madre sua e provvedere al di lei sostentamento; il solo coadiutore fedelissimo, sulla terra, del grande disegno di Dio.





Giotto, Lo sposalizio della Vergine
Cappella degli Scrovegni, Padova.



Giovanni Paolo II
Redemptoris custos, 25-26

Il primato della vita interiore, in san Giuseppe


Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E' un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli» (Col 1,26), che «prese dimora» (Gv 1,14) sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale.

Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» (Papa Paolo VI).

Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l'esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr. San Tommaso d’Aquino).




"Il dubbio di Giuseppe "

"Antiphonarium de Sanctis", Min. di Scuola Bolognese, Cod. G, f. 119v,
‘Santa Maria dei Servi’ a Bologna.




San Pedro Crisólogo (hacia 406-450), obispo de Rávena, doctor de la Iglesia
Sermón 146, sobre Mateo 1,18; PL 52, 591

«María, la madre de Jesús estaba desposada con José»

«María, su madre, estaba desposada». Hubiera sido suficiente con decir: María estaba desposada. ¿Qué significa una madre desposada? Si ya es madre, ya no es desposada; si es desposada, no es todavía madre. «María, su madre, estaba desposada»: desposada por la virginidad, madre por la fecundidad. Era una madre que no había conocido varón, y sin embargo conoció la maternidad. ¿Cómo no será madre antes de concebir, ella que, después del nacimiento, es virgen y madre? ¿Cuándo no era ella ya madre la que engendró al fundador de los tiempos y ha dado un principio a todas las cosas?...

¿Por qué el misterio de la inocencia celestial va destinado a una desposada y no a una virgen todavía libre? ¿Por qué los celos de un desposado deben poner en peligro a la desposada? ¿Por qué tanta virtud parece pecado y la salvación eterna peligro?... ¿Cuál es el misterio que abrazamos aquí, hermanos? Ningún rasgo de pluma, ni una letra, ni una sílaba, ni una palabra, ni un nombre, ni un personaje del Evangelio deja de tener sentido divino. Se ha escogido a una desposada para que sea ya representada la Iglesia, esposa de Cristo, según lo dice el profeta Oseas: «Yo te desposaré conmigo para siempre; te desposaré conmigo en justicia y en derecho, en amor y en compasión, te desposaré conmigo en fidelidad» (2,21-22). Por eso dice Juan: «El que tiene a la novia es el novio» (Jn 3,29). Y san Pablo: «Quise desposaros con un solo marido, presentándoos a Cristo como una virgen fiel» (2C 11,2). ¡Oh verdadera esposa, la Iglesia, que por el nacimiento virginal [del bautismo] engendra nuevos hijos en Cristo!




[Joseph+dream+by+Philippe+Champaigne.jpg]

III Domenica di Avvento. Anno A






Mt 11, 2-11

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?». Gesù rispose: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me».
Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re!
E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te.
In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui.



IL COMMENTO

Giovanni, colui che ha sussultato nel grembo di sua madre all'udire la voce di Maria incinta di Gesù, vede sorgere nel cuore la domanda che riassume il dilemma dell'esistenza. "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?". In carcere per la Verità, Giovanni non è sicuro della stessa Verità. Incatenato per un annuncio, chiede conferme su Colui che ha annunciato. Giovanni, come ciascuno di noi che abbiamo annunciato tante volte il Vangelo, ha bisogno di ascoltare di nuovo l'annuncio. Anche per Giovanni «la fede nasce dall’ascolto» (fides ex auditu: Rm 10,17). Giovanni, l'inviato, il messaggero, l'angelo del deserto come è raffigurato da tanta iconografia, il precursore, il predicatore ha bisogno di ascoltare la predicazione. Giovanni ha consegnato la propria vita ad una missione, ogni centimetro calcato dai suoi piedi, ogni istante della sua esistenza si è fatto annuncio. Le sue vesti, il suo cibo, le sue parole, il luogo stesso della sua vita, tutto è stato afferrato e trasformato in profezia. Come la vita di ogni profeta, di un apostolo coincide completamente con l'oggetto della profezia e dell'annuncio.

Ma Giovanni si trova in carcere a causa delle parole profetiche di verità che aveva annunciato. Il carcere è una metafora della sua stessa vita. Incatenato alla Parola è separato dal mondo. Come San Paolo sperimenta che se anche la propria vita è spogliata d'ogni libertà, la Parola non è incatenata, e le catene ne sono la prova. E' l'esperienza di ogni apostolo, di ogni cristiano, martire della Parola fatta carne, Cristo Gesù. Separato dal mondo, a volte incatenato, crocifisso, impossibilitato a vivere come gli altri. Nemico del mondo ne è rifiutato, condannato, gettato in prigione. Nessuna alleanza tra Cristo e Belial, tra Dio ed il mondo.

E' l'esperienza dei giovani cristiani, che certo hanno vinto il maligno e sono forti, ma sentono premere sulla pelle e sulle ossa il peso delle catene, guardano il cielo attraverso le sbarre, e il mondo sembra correre di fuori lasciando inesorabilmente le proprie vite a marcire in prigione. Spesso la Verità sembra aver incatenato le gioie, le passioni, la poesia della vita, e l'esistenza afferrata da un annuncio di libertà sembra condannata a spegnersi in una cella. Le catene stringono le pulsioni sessuali che il mondo spinge a seguire, la porta sbarra la strada a discoteche e concerti affollati di ragazzi, queste quattro mura tolgono l'aria. E la grata che questa vita sembra un convento di clausura, anche le cose semplici a volte sembrano sottratte, le amicizie, lo sport, gli svaghi, tutto ritagliato e circoscritto come il cielo a quadratini che appare dietro la finestra sbarrata. Il mondo fuori corre libero e spensierato, ed io, cristiano, affogato tra preghiere e celebrazioni, e tutto sfugge di mano in una vita troppo diversa, così grigia e insignificante, dimenticata in una cella che opprime e sembra rubare gli anni più belli.

Così è la vita di ogni cristiano, identica a quella di Giovanni Battista. E la domanda che sale prepotente dal cuore. E' questa la Verità? E' davvero Lui, Gesù, il Salvatore, il Messia? E' Lui la gioia, la pace, il senso, la pienezza della mia vita? E' Lui la mia giustizia, Colui che riscatta e rinnova i miei sentimenti, i pensieri, le parole, le azioni? E' Lui che attende il mio cuore impaziente di libertà e felicità? E' Lui o devo aspettare qualcun altro, qualcosa d'altro? E se così fosse, se non fosse Lui, se tutto fosse un inganno, un sogno, un'illusione, oppio a drogare il popolo? Se così fosse questa prigione sarebbe una mostruosità, avrei dato la mia vita alla persona sbagliata, avrei seguito una chimera perversa.

Sei tu l'Amato del mio cuore, sei tu o devo aspettare ancora? Ci sono momenti che non ce la faccio proprio, tutto sembra crollarmi addosso, il peso di questa vita incarcerata si fa insopportabile, non vedo il cielo, e la speranza se l'è portata via il vento. Ho pregato, annunciato, ma ora sono qui, tra queste quattro mura, e nulla ha più senso. E questa vita da profeta non l'ho scelta io, la famiglia, le circostanze, qualcuno me l'ha incollata addosso e, comunque, nulla potrà essere diversamente. Anche scegliendo di vivere diversamente, anche seguendo carne e mondo, porterò sempre nell'intimo il segno di questa vita, delle Parole che ho ascoltato, dei segni che ho visto. Sono segnato, non sono e non sarò mai libero, la zavorra di questa elezione non mi lascerà più! E non ho voglia assolutamente di questa vita, evangelizzare, vivere cristianamente controcorrente, perdere la vita per chi forse è indifferente a tutto, solo desidero una vita tranquilla, magari anche secondo il Vangelo, ma sconvolta al punto di finire in carcere e, come accaduto a San Pietro, un altro a condurmi dove non voglio, no! non ce la faccio. Ho bisogno di sapere se sei Tu o se devo aspettare qualcun altro!

Il Signore risponde a questa domanda decisiva esattamente come ha risposto a Giovanni. Invia la sua Chiesa, i testimoni che hanno visto la Parola incarnarsi nei segni da Lui compiuti. Nella Scrittura l'avvento del Messia è annunziato da segni che, compiuti, ne identificheranno la presenza. Vi sono dei segni di riconoscimento, le impronte digitali del Messia. Sono le sue stesse opere, perchè "alla Sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere". Segni convenzionali, indiscutibili e inconfondibili, e sono i segni compiuti da Gesù. Essi indicano il Cielo, un potere che scavalca il muro delle possibilità umane: "I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano". Nella prigione della carne splende il potere dello Spirito. Nel deserto l'acqua, nelle tenebre la luce, nella morte la vita. Un amore più forte del peccato, della carne, del mondo. La pace, la gioia, il senso, la pienezza in un'angusta cella di prigione.

Scopriamo allora, come Giovanni, che quei segni sono gli stessi operati in ciascuno di noi. Scopriamo che l'amore infinito di Dio ci ha accompagnato sin dalla fondazione del mondo, sin dentro il seno di nostra madre. Scopriamo che la misericordia ci ha allevato nel deserto per prepararci ad una missione ineludibile. Scopriamo che il perdono ci ha strappato dalla dura legge di schiavitù cui ci aveva soggiogato la carne con le sue concupiscenze. Scopriamo d'essere stati salvati mille volte giusto quando ci trovavamo dinnanzi al plotone d'esecuzione con i fucili carichi e pronti a sparare. Scopriamo d'essere stati graziati e riconsegnati alla vita vera. Scopriamo di aver gustato cosa significhi non vivere per se stessi e la gioia infinita di donare la propria vita. Scopriamo le sue impronte digitali imprese nelle nostre storie.

Ma spesso anche questo non basta. I miracoli e i segni sono un annuncio, un passaggio a qualcosa di infinitamente più grande. Fermarsi ai segni è rallegrarsi per la carta di un regalo e dimenticare il regalo. I segni ci saziano, ma per avere ancora fame. Per questo non è raro che dopo aver accolto i segni del Messia, ne rifiutiamo il cuore, l'opera essenziale e decisiva. Ci scandalizziamo. Della Croce. Della carne crocifissa, di un amore che sconvolge. I segni preparano l'avvento crocifisso del Signore, la concretissima Sua Croce nella nostra concretissima vita.

Ed è il momento dell'esperienza di Pietro, degli apostoli, di Giona e di Elia, e la domanda ritorna prepotente a visitarci. Sbattendo sulla Croce ritorna il dubbio, e con esso l'angoscia di aver sbagliato persona. E' lo scandalo che Gesù aveva profetizzato a tutti discepoli la notte in cui fu consegnato. Scandalizzati e dispersi. E' questa la ragione profonda di ogni nostra sofferenza. Il carcere in cui sembra precipitata la nostra vita è il liquido di contrasto che evidenzia con certezza il focolaio del cancro che ci divora: lo scandalo della Croce. Il veleno che infetta pensieri e parole è l'incapacità di accettare il cammino del Calvario, il rifiuto, la sofferenza, la morte. E, come Pietro, scandalizzati ci trasformiamo in scandalo, inciampo per l'opera di Gesù. Pietro capirà dopo, conoscendo il proprio cuore riconoscerà di che pasta sia fatto il cuore di Dio. Gesù lo cerca e lo ama laddove lo incontra. Cristo risorto, il suo volto, le sue mani ed il suo fianco ferito sono i segni di un amore senza limiti. Un amore da schiantare cuore e mente. Un amore che scandalizza.

Per questo, come Giovanni, abbiamo bisogno di chi ci annunci e riannunci questo amore, la Croce e la risurrezione del Signore, l'unica password capace di aprirci il cuore e colmarlo di gioia, pace, senso e speranza. Abbiamo bisogno della predicazione che schiude il Cielo e ne fa discendere lo Spirito che sigilla il perdono dei peccati, la vittoria di Cristo, il suo sguardo di misericordia puntato diritto al mio cuore. "Proprio perché evangelizza e perché possa evangelizzare, il sacerdote, come la chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato" (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica (1992), Pastores dabo vobis 26.47).

Nell'incontro con questo amore scopriamo allora il senso profondo della nostra vita.E' Lui che stiamo aspettando. E' Lui, non abbiamo sbagliato. E' Lui la password capace di aprire il nostro cuore ad accogliere la pace e la gioia. E' Lui che ci conosce sino in fondo, che ci ama laddove e come siamo; è Lui che scende sino agli afratti nascosti del nostro cuore, laddove si annidano i pensieri e le concupiscenze peggiori, quelle che se venissero alla luce saremmo rifiutati da tutti come cani rognosi. E' Lui che non si scandalizza di noi, che perdona, che ci accoglie e trasforma. E' Lui che fa della nostra vita una profezia vivente della vita più forte della morte. E' Lui che ci fa segno del Cielo nella notte. E' Lui che illumina il carcere d'una luce purissima che illumina ogni catena, ogni angoscia, ogni dubbio, ogni solitudine, e, come un reperto archeologico sepolto da millenni, ne riporta alla luce le forme e il senso segreti. E' Lui che ci apre gli occhi, e il carcere diviene il luogo più bello, il letto d'amore dove ci sposa il suo amore, la città sopra il monte, la Croce Gloriosa, il luogo dove risplende la vita nella morte. Non dobbiamo aspettare nessun altro. Lui, il più piccolo tra i piccoli, ha fatto della piccolezza il luogo della Gloria di Dio. In Lui, piccoli e indifesi, incatenati e oppressi, siamo liberi e lieti, i più grandi nel Regno dei Cieli, più grandi della grandezza del Battista. Più grandi della Profezia fermatasi sulla soglia del compimento. Giovanni annunciava Cristo, noi lo incarniamo annunciando il Cielo disceso sulla Terra, il Regno aperto ad ogni uomo.

Un bambino deposto nello squallore d'una mangiatoia. A questo ci stiamo preparando in questo tempo, ad incontrare l'inimmaginabile, un carcere come una reggia, perchè abitato dal Re dei re. Un Re bambino che è la salvezza, un bambino nato per la Croce. La Sua mangiatoia e la Sua Croce sono lì, nel nostro carcere, nelle nostre ore difficili, dove si gioca la nostra felicità. Beati se non ci scandalizziamo d'un Dio che ci ama fin dentro il nostro pianto più amaro. Beati noi se lo accogliamo lì dove arriva, lì dove forse vorremmo cancellare tutto. Con Lui non si butta nulla, tutto è santo. E beati i nostri occhi che anche oggi incontrano il suo amore. Questo Avvento è una beatitudine: prepararci alla Croce.




Evangelio según San Mateo 11,2-11.
Juan el Bautista oyó hablar en la cárcel de las obras de Cristo, y mandó a dos de sus discípulos para preguntarle:
"¿Eres tú el que ha de venir o debemos esperar a otro?".
Jesús les respondió: "Vayan a contar a Juan lo que ustedes oyen y ven:
los ciegos ven y los paralíticos caminan; los leprosos son purificados y los sordos oyen; los muertos resucitan y la Buena Noticia es anunciada a los pobres.
¡Y feliz aquel para quien yo no sea motivo de tropiezo!".
Mientras los enviados de Juan se retiraban, Jesús empezó a hablar de él a la multitud, diciendo: "¿Qué fueron a ver al desierto? ¿Una caña agitada por el viento?
¿Qué fueron a ver? ¿Un hombre vestido con refinamiento? Los que se visten de esa manera viven en los palacios de los reyes.
¿Qué fueron a ver entonces? ¿Un profeta? Les aseguro que sí, y más que un profeta.
El es aquel de quien está escrito: Yo envío a mi mensajero delante de ti, para prepararte el camino.
Les aseguro que no ha nacido ningún hombre más grande que Juan el Bautista; y sin embargo, el más pequeño en el Reino de los Cielos es más grande que él.


COMENTARIO


Juan, el que ha saltò en el regazo de su madre al oír la voz de Maria embarazada de Jesús, ve surgir en el corazón la pregunta que resume el dilema de la existencia. "¿Eres tú el que ha de venir o debemos esperar a otro?". En la cárcel por la Verdad, Juan no está seguro de la misma Verdad. Atado por un anuncio, pregunta confirmaciones sobre El que ha anunciado. Juan, como cada uno de nosotros que hemos anunciado muchas veces el Evangelio, necesita escuchar de nuevo el anuncio. También para Juan la fe nace de la "escucha", ("fides ex auditu": Rm 10,17). Giovanni, el enviado, el mensajero, el ángel del desierto como es representado por mucha iconografía, el precursor, el predicador necesita escuchar la predicación. Juan ha entregado su vida a una misión, cada centímetro pisado por sus pies, cada instante de su existencia se ha hecho anuncio. Sus vestidos, su comida, sus palabras, el lugar mismo de su vida, todo ha sido agarrado y transformado en profecía. La vida de un profeta, de un apóstol coincide completamente con el objeto de la profecía y el anuncio.

Pero Juan se encuentra en la cárcel a causa de las palabras proféticas de verdad que anunció. La cárcel es una metáfora de su misma vida. Encadenado a la Palabra está separado del mundo. Cómo San Pablo experimenta que aun que su vida es desvestida de cada libertad, la Palabra no es encadenada. Es la experiencia de cada apóstol, de cada cristiano, mártir de la Palabra hecha carne, Cristo Jesús. Separado del mundo, a veces atado, crucifijcado, imposibilitado a vivir como los otros. Enemigo del mundo es rechazado de ello, condenado, echado en prisión. Ninguna alianza entre Cristo y Belial, entre Dios y el mundo.

Es la experiencia de los jóvenes cristianos, que han vencido el maligno y son fuertes, pero sienten comprimir sobre la piel y sobre los huesos el peso de las cadenas, miran el cielo por las barras, y el mundo semeja correr por fuera dejando inexorablemente sus vidas a podrir en prisión. A menudo la Verdad parece haber encadenado las alegrías, las pasiones, la poesía de la vida, y la existencia agarradas por un anuncio de libertad parece condenada a apagarse en una celda. Las cadenas aprietan los impulsos sexuales que el mundo empuja a seguir, la puerta acordona el camino a las discotecas y conciertos abarrotados de chicos, estas cuatro paredes sacan el aire. Y la rejilla - que esta vida parece un convento de clausura - también a veces las cosas simples parecen sustraídas, las amistades, el deporte, las diversiones, todo recortado y circunscrito como el cielo a cuadratines que aparece tras la ventana atrancada. Fuera el mundo corre libre y descuidado, y yo, cristiano, ahogado entre oraciones y celebraciones y todo se escapa de las manos en una vida demasiado diferente, así gris e insignificante, olvidada en una celda que oprime y parece robarse los años más bellos.

Así es la vida de cada cristiano, idéntica a la de Juan el Bautista. Y la pregunta que sube prepotente del corazón. ¿Es esta la Verdad? ¿Es de veras Él, Jesús, el Salvador, el Mesías? ¿Es Él la alegría, la paz, el sentido, la plenitud de mi vida? ¿Es Él mi justicia, El que rescata y renueva mis sentimientos, pensamientos, palabras, acciones? ¿Es Él que espera mi corazón impaciente de libertad y felicidad? ¿Es Él o tengo que esperar alguien más, algo de otro? ¿Y si fuera así, si no fuera Él, si todo fuera un engaño, un sueño, una ilusión, opio a drogar el pueblo? Si fuera así, esta prisión sería una monstruosidad, habría dado mi vida a la persona equivocada, habría seguido una quimera perversa.

¿Eres tú él Amado de mi corazón, eres tú o tengo todavía que esperar? Hay momentos que no puedo mas, todo parece derrumbarse arriba, el peso de esta vida encarcelada se hace insoportable, no veo el cielo y la esperanza se la ha llevada el viento. He rogado, anunciado, pero ahora estoy aquí, entre estas cuatro paredes, y nada tiene sentido. Y esta vida de profeta no la he eligida yo; la familia, las circunstancias, alguien me la ha pegada encima y, en todo caso, nada podrá ser de otra manera. También elegiendo de vivir de otra manera, también siguiendo carne y mundo, siempre llevaré en el íntimo la señal de esta vida, de las Palabras que he escuchado, de las señales que he visto. ¡Soy señalado, no soy y seré nunca libre, el lastre de esta elección ya no me dejará! Y no tengo absolutamente ganas de esta vida, evangelizar, vivir cristianamente contracorriente, perder la vida por quién quizás sea indiferente a todo, sólo deseo una vida tranquila, a lo mejor también según el Evangelio, pero trastornada al punto de acabar en cárcel y, como San Pedro, ir dónde no quiero, y otro a conducirme no, no lo quiero. ¡Tengo de saber si eres Tú o si tengo que esperar alguien más!

El Señor contesta a esta pregunta decisiva exactamente como le ha contestado a Juan. Manda su Iglesia, los testigos que han visto la Palabra encarnarse en las señales cumplidas por Él. En la Escritura la llegada del Mesías es anunciada por señales que, cumplidos, identificarán de ello la presencia. Hay señales de reconocimiento, las huellas digitales del Mesías. Son sus mismas obras, porque "a la Sabiduría ha sido devuelta justicia por sus obras." Señales convencionales, indiscutibles e inconfundibles, y son las señales cumplidas por Jesús. Ellas indican el Cielo, un poder que supera el muro de las posibilidades humanas: "Los ciegos recobran la vista, los lisiados caminan, los leprosos son curados, los sordos recobran el oído, los muertos resucitan." En la prisión de la carne resplandece el poder del Espíritu. En el desierto el agua, en las tinieblas la luz, en la muerte la vida. Un amor más fuerte del pecado, de la carne, del mundo. La paz, la alegría, el sentido, la plenitud en una estrecha celda de prisión.

Descubrimos entonces, como Juan, que aquellas señales son las mismas obradas en cada uno de nosotros. Descubrimos que el amor infinito de Dios no nos ha acompañado ya desde la fundación del mundo, hasta dentro del seno de nuestra madre. Descubrimos que la misericordia nos ha criado en el desierto para prepararnos a una misión ineludible. Descubrimos que el perdón nos ha arrancado de la dura ley de esclavitud a la cual nos subyugó la carne con sus concupiscencias. Descubrimos de haber sido salvados mil veces justo cuando nos encontramos delante al pelotón de ejecución con los fusiles cargados y listos a disparar. Descubrimos de haber sido amnistiados y recobrados a la vida verdadera. Descubrimos de haber gustado lo que significa no vivir para nosotros mismos y la alegría infinita de entregar nuestra vida. Descubrimos sus huellas digitales empresas en nuestras historias.

Pero a menudo también esto no es suficiente. Los milagros y las señales son un anuncio, un paso a algo de infinitamente más grande. Pararse a las señales es alegrarse por el papel de un regalo y olvidar el regalo. Las señales nos sacian, pero para tener todavía hambre. Por eso no es raro que, después de haber acogido las señales del Mesías, rechazamos de ellas el corazón, la obra esencial y decisiva. Nos escandalizamos. De la Cruz. De la carne crucificada, de un amor que revuelve. Las señales preparan la llegada crucificada del Señor, Su concreta Cruz en nuestra concreta vida. Su Cruz en nuestra vida. Y es el momento de la experiencia de Pedro, de los apóstoles, de Giona y de Elia, y la pregunta vuelve prepotente a visitarnos. Sacudiendo sobre la Cruz vuelve la duda, y con ella la angustia de haberse equivocado de persona. Es el escándalo que Jesús les profetizó a todos los discípulos la noche en que fue entregado. Escandalizados y extraviados.

Esta es la razón profunda de cada nuestro sufrimiento. La cárcel en que parece precipitada nuestra vida es el líquido de contraste que evidencia con certeza el foco del cáncer que nos devora: el escándalo de la Cruz. El veneno que infecta pensamientos y palabras es la incapacidad de aceptar el camino del Calvario, el rechazo, el sufrimiento, la muerte. Y, como Pedro, escandalizados nos transformamos en escándalo, tropiezo por la obra de Jesús. Pedro entenderá después, conociendo el propio corazón reconocerá de qué pasta sea hecho el corazón de Dios. Jesús lo busca y lo quiere donde lo encuentra. Cristo resucitado, su rostro, sus manos y su cadera herida son las señales de un amor sin límites. Un amor de destrozar corazón y mente. Un amor que escandaliza.

Por eso como Juan, necesitamos de quien nos anuncie este amor, la Cruz y la resurrección del Señor, la única password capaz de abrirnos el corazón y llenarlo de alegría, paz, sentido y esperanza. Necesitamos de la predicación que abre el Cielo y hace descender de ello el Espíritu que sella el perdón de los pecados, la victoria de Cristo, su mirada de misericordia apuntada derecho a mi corazón.

En el encuentro con este amor descubrimos entonces el sentido profundo de nuestra vida. Es Él que estamos esperando. Es Él, no me he equivocado. Es Él que nos conoce hasta el fondo, que nos quiere donde y como somos; es Él que baja hasta a los lugares escondidos de nuestro corazón, donde se aniden los pensamientos y las concupiscencias peores, aquéllas que si vinieran a la luz seríamos rechazados por todos como perros peliagudos. E Él que no se escandaliza de nosotros, que perdona, que nos acoge y transforma. Es Él que hace nuestra de vida una profecía viviente de la vida más fuerte de la muerte. Es Él que nos hace señal del Cielo en la noche. Es Él que ilumina la cárcel de una luz refina que ilumina cada cadena, cada angustia, cada duda, cada soledad, y, como un resto arqueológico enterrado de milenios, de ello reconduce a la luz las formas y el sentido secretos. Es Él que nos abre los ojos, y la cárcel se vuelve el lugar más bonito, la cama de amor dónde nos casa su amor, la ciudad sobre el monte, la Cruz Gloriosa, el lugar dónde resplandece la vida en la muerte. No tenemos que esperar ningún otro. Él, el más pequeño entre los pequeños, ha hecho de la pequeñez el lugar de la Gloria de Dios. En Él, pequeños e indefensos, atados y oprimidos, somos los más grandes, estamos libres y bienaventurados en el Reino de los Cielos, hasta más grandes que el Bautista. Más grandes que la Profecía parada sobre el umbral del cumplimiento. Juan anunció Cristo, nosostros lo encarnamos anunciando el Cielo descendido sobre la Tierra, el Reino abierto a cada hombre.

Un niño depuesto en la sordidez de un pesebre. A esto estamos preparándonos en este tiempo, a encontrar lo inimaginable, una cárcel como un palacio real, porque habitado por el Rey de los reyes. Un Rey niño que es la salvación, un niño nato por la Cruz. Su pesebre y Su Cruz están allí, en nuestra cárcel, en nuestras horas difíciles, dónde se juega nuestra felicidad. Bienaventurados nosotros si no nos escandalizamos de un Dios que nos quiere hasta dentro nuestro llanto más amargo. Bienaventurados nosotros si lo acogemos allí dónde llega, allí dónde quizás queramos borrar todo. Con Él no se tira nada, todo es santo. Y bienaventurados nuestros ojos que también hoy encuentran su amor.



San Cirillo d'Alessandria (380-444), vescovo e dottore della Chiesa
Primo dialogo cristologico, 706 ; SC 97, 27

« I ciechi vedono…, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella »


« Colui che viene dopo di me è più potente di me ; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco » (Mt 3, 11). Diremo forse che l’opera di battezzare in Spirito Santo e fuoco è di un’umanità simile alla nostra ? Come potrebbe esserlo ? Eppure, parlando di un uomo che non si è ancora fato conoscere, Giovanni dichiara che egli battezza « in Spirito Santo e fuoco ». Non trasmettendo ai battezzati uno spirito che non sarebbe suo, come avrebbe potuto farlo un servo qualsiasi, bensì come uno che è Dio per natura, e dona con una sovrana potenza quello che viene da lui e a lui appartiene in proprio. Per questa grazia, l’impronta divina si imprime in noi.

Infatti, in Cristo Gesù, siamo trasformati, fatti simili all’immagine divina ; non perché il nostro corpo fosse plasmato nuovamente, ma perché ricevendo lo Spirito Santo, potessimo entrare proprio in possesso di Cristo, al punto di poter gridare ormai, nella nostra gioia : « La mia anima esulta nel Signore, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza » (Is 61,10). Infatti, dice l’apostolo Paolo : « Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo » (Ga 3,27).

Siete forse stati battezzati in un uomo ? Silenzio, tu che sei soltanto uomo ; vuoi forse abbassare fino a terra la nostra speranza ? Siamo stati battezzati in un Dio fatto uomo ; egli libera dalle loro pene e dalle loro colpe, quanti credono in lui. « Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo… Dopo riceverete il dono dello Spirito Santo » (At 2,38). Slega coloro che si legano a lui ; … Fa sgorgare in noi la sua stessa natura… Lo Spirito appartiene in proprio al Figlio, che è divenuto un uomo simile a noi. Infatti egli è la vita di tutto quanto esiste.



Homilía atribuida a San Hipólito de Roma (? –hacia 235), presbítero y mártir
Sermón sobre la santa Teofanía; PG 10, 852

«No ha nacido de mujer uno más grande que Juan el Bautista, aunque el más pequeño en el Reino de los cielos es más grande que él»

Reverenciemos la compasión de un Dios que ha venido a salvar y no a juzgar al mundo. Juan, el precursor del Maestro, que hasta entonces había ignorado este misterio, cuando supo que Jesús era verdaderamente el Señor, a voz en grito dijo a los que venían a hacerse bautizar: «'Raza de víboras' (Mt 3,6), ¿por qué me miráis con tanta insistencia? Yo no soy el Cristo. Soy un servidor y no el Señor. Soy un simple sujeto, no el rey. Soy una oveja, no el pastor. Soy un hombre, no un Dios. Al venir al mundo he curado la esterilidad de mi madre, no he hecho fecunda su virginidad; he sido sacado de lo bajo, no he descendido desde las alturas. He atado la lengua de mi padre (Lc 1,20), no he desplegado la gracia divina... Soy vil y pequeño, pero después de mí viene el que es anterior a mí (Jn 1,30). Viene después en el tiempo; pero antes, estaba en la luz inaccesible e inefable de la divinidad. 'Viene el que puede más que yo, y no merezco ni llevarle las sandalias. Él os bautizará con el Espíritu Santo y fuego' (Mt 3,11). Yo soy un subordinado; él es libre. Yo estoy sujeto al pecado, él destruye el pecado. Yo enseño la Ley, él lleva la luz de la gracia. Yo predico como esclavo, el legisla como maestro. Tengo por capa el sol, él los cielos. Yo bautizo con el bautismo de penitencia, él da la gracia de la adopción. 'Él os bautizará con el Espíritu Santo y fuego'. ¿Por qué me queréis reverenciar? Yo no soy el Cristo.»