III DOMENICA DI QUARESIMA (Anno C). Commenti Patristici

S. Agostino

Durante il periodo della nostra miseria – o, come si esprime la Scrittura, nei giorni della nostra vanità – dobbiamo conoscere bene da quali cause deve procedere la nostra tristezza. La tristezza infatti può somigliarsi al letame: se sta in un posto dove non dovrebbe stare è una sporcizia; se sta in un luogo dove non dovrebbe stare, ad esempio, in casa, la rende sudicia. Se invece sta dove deve stare, metti in un campo, lo rende fruttuoso: sicché voi vedete i contadini sistemare il letame in un posto a ciò destinato. Ebbene, così dice l’Apostolo: Chi mai mi arrecherà gioia se non colui che da me è rattristato? (2 Cor 2, 2). E altrove: La tristezza che è secondo Dio produce un pentimento salutare non suscettibile di ripensamenti (2 Cor 7, 10). La persona che si rattrista secondo Dio si rattrista dei suoi peccati con il pentimento, per cui la tristezza causata dalla propria colpa produce la giustificazione. Ti dispiaccia quindi d’essere quello che sei, per poter essere quello che non sei. Dice: La tristezza che è secondo Dio produce un pentimento salutare non suscettibile di ripensamenti. Un pentimento salutare, dice. Perché salutare? Perché non suscettibile di ripensamenti? In che senso non suscettibile di ripensamenti? Nel senso che mai dovrai pentirtene. Abbiamo condotto una vita di cui è stato necessario pentircene, abbiamo condotto una vita suscettibile di pentimento; e alla vita esente da pentimento non possiamo arrivare se non attraverso il pentimento della vita cattiva. Forse che, o fratelli (per seguitare l’immagine usata all’inizio), forse che nel mucchio di grano vagliato si potrà trovare del letame? Tuttavia è con l’uso del letame che si arriva a quella pulitezza, a quel luccichio, a quella beltà. Il sudiciume è stato la via per giungere alla bellezza.
A proposito di una pianta sterile diceva con ragione il Signore nel Vangelo: Ecco, sono ormai tre anni che vengo da questa pianta e non vi trovo mai alcun frutto; la taglierò, quindi, perché non mi occupi inutilmente il terreno. Il contadino lo supplica: lo supplica quando la scure sta per cadere su quelle radici infruttuose ed è sul punto di reciderle. Quel contadino intercede come aveva fatto Mosè con Dio; intercede e dice: Signore, lasciala stare anche per quest’anno, io la zapperò all’intorno e verserò nella buca un cesto di letame. Se produrrà frutto, bene; altrimenti verrai e la taglierai. L’albero in parola è il genere umano. Il Signore venne a visitare quest’albero al tempo dei patriarchi, e questo si potrebbe considerare come primo anno; venne a visitarlo al tempo della legge e dei profeti, e questo potrebbe essere il secondo anno. Col Vangelo ecco spuntato il terzo anno: a questo punto lo si sarebbe dovuto quasi tagliare. Ma un uomo compassionevole intercede presso colui che è compassionevole. Difatti colui che voleva porre in risalto la sua misericordia si mette dinanzi quell’altro che fa da intercessore. Dice: Lo si lasci sopravvivere anche quest’anno; gli si zappi attorno – la buca è un richiamo all’umiltà -; gli si getti sulle radici un cesto di letame, e speriamo che rechi del frutto. Anzi, siccome per una parte darà frutto mentre per un’altra non ne darà, verrà il suo padrone e lo dividerà. Che significa: Lo dividerà? È in relazione al fatto che ci sono i buoni e i cattivi, i quali adesso sono tutti insieme, come costituiti in un unico corpo.
Come ho già detto, fratelli miei, il letame gettato in luogo adatto produce frutti, gettato in luogo non adatto sporca. Ecco un tale che si trova nella tristezza, m’imbatto in uno che vedo triste: è letame ciò che vedo e mi metto a indagare il posto: Amico, dimmi perché sei triste. Mi risponde: Perché ho perso del danaro. È un posto insudiciato: non verrà fuori alcun frutto. Ascolti l’Apostolo: La tristezza di questo mondo causa la morte. Non solo quindi, niente frutto, ma al contrario grande danno. E lo stesso si dica delle altre cose che producono gioie di carattere mondano: cose che sarebbe lungo elencare. ... Mi volsi poi verso un altro che parimenti gemeva, piangeva e pregava; e anche lì, vedendo del letame, volli ricercare il posto. Feci attenzione alla sua preghiera e sentii che diceva: Io ho detto: Signore, abbi pietà di me; guarisci la mia anima poiché ho peccato contro di te (Sal 40, 5). Geme deplorando il peccato. Vedo il terreno; aspetto il frutto. Grazie a Dio! Il letame si trova in un posto adatto: non resterà infruttuoso ma produrrà il frumento.
Adesso è veramente il tempo della tristezza: la quale sarà fruttuosa se il nostro dolore sarà motivato dalla condizione di mortalità in cui ci troviamo, dalle tentazioni che abbondano, dal peccato che s’infiltra dovunque, dalle passioni che oppongono resistenza, dall’attrattiva malsana che ci muove guerra e sta sempre in tumulto contro i buoni pensieri. Per tutti questi motivi dobbiamo essere nella tristezza.
Segno di questo tempo in cui si vive nella miseria e nel gemito – se c’è qualcuno che abbia una speranza degna di gemito – sono i quaranta giorni che precedono la Pasqua. Il tempo invece della gioia futura, della quiete, della felicità, della vita eterna del regno senza fine che ancora non c’è, è figurata nei cinquanta giorni in cui cantiamo lodi a Dio. Esiste infatti una simbologia che rappresenta i due periodi di tempo: il periodo prima della resurrezione del Signore e il periodo dopo la resurrezione; il periodo in cui viviamo adesso e l’altro in cui speriamo di vivere in avvenire. Il periodo dell’afflizione, raffigurato nel tempo quaresimale l’abbiamo e nel simbolo e nella realtà; viceversa il periodo della gioia, della quiete, del regno lo rappresentiamo col canto dell’Alleluia, ma queste lodi non le possediamo ancora: verso quest’Alleluia rivolgi ora i sospiri.

(Dal Discorso 254, 2-4)

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L’albero di fico simboleggia il genere umano, mentre i tre anni raffigurano le tre epoche: la prima precedente la legge, la seconda sotto la legge, la terza sotto la grazia. Quanto all’albero di fico, non è fuor di luogo vedervi il genere umano. In effetti il primo uomo, quando peccò, coprì con foglie di fico le parti vergognose, quelle parti per cui siamo nati, quelle membra che, degne d’onore prima del peccato, divennero dopo il peccato parti vergognose. Insomma: Erano nudi e non ne sentivano vergogna (Gn 2, 25); non avevano motivo d’arrossire, perché non era stato ancora commesso il peccato e quindi non potevano vergognarsi delle opere del Creatore in quanto non avevano mescolato ancora nessuna azione cattiva alle opere buone del Creatore. Da lì dunque nacque il genere umano: uomini da un uomo, colpevoli da un debitore, mortali da un mortale, peccatori da un peccatore. Mediante dunque quest’albero egli indica coloro che per tutto il tempo non vollero dar frutto: e sulle radici di quest’albero infruttuoso era sospesa la scure.
Intercede il contadino: viene differito il castigo perché venga applicato il rimedio. Intercede il contadino, cioè ogni fedele dentro la Chiesa prega per coloro che sono fuori della Chiesa. Che cosa chiede? Signore, lascialo ancora per quest’anno. Cioè: in questo tempo, che è sotto il regno della grazia, risparmia i peccatori, risparmia gli infedeli, risparmia gli sterili, risparmia coloro che non portano frutto. Scavo un solco intorno ad esso e ci metto una cesta di concime: se darà frutto, bene; altrimenti verrai e lo taglierai. Verrai: quando? Nel giudizio. Verrai: quando? Di lì verrà a giudicare i vivi e i morti (1 Pt 4, 5). Adesso frattanto viene accordato il perdono.
Ma che significa scavare un solco se non insegnare l’umiltà della penitenza? Il solco infatti è una parte bassa della terra.
La cesta di concime deve intendersi in senso buono. Esso è sporco, ma produce frutto. La sporcizia del contadino significa il dolore del peccatore. Chi fa penitenza, la fa nello squallore; naturalmente se la fa con intelligenza e con sincerità. A quest’albero dunque viene detto: Fate penitenza, poiché è vicino il regno dei cieli (Mt 3, 2).

(Dal Discorso 110, 1)

S. Ambrogio

Adamo ed Eva, i nostri famosi progenitori sia nella discendenza che nel peccato, i quali si ricoprirono delle foglie di quest’albero [di fico], meritarono di essere proscritti dal paradiso, quando, consci della loro trasgressione, cercavano di sfuggire alla presenza del Signore, il quale stava passeggiando; essi dovevano simboleggiare quanto doveva avvenire, che cioè negli ultimi tempi il popolo dei Giudei, ormai nell’imminenza della venuta del Signore della salvezza, il quale discese quaggiù per chiamarli, riconoscendosi nudo di ogni virtù per le tentazioni del diavolo e pieno di paura per le turpitudini scoperte della coscienza, avendo smarrito la strada della religione, si vergognò per la propria prevaricazione; egli doveva fuggire lontano da Dio, con le vergogne delle sue azioni coperte direi dal velo di parole inutili, come da altrettante foglie.
Ecco allora che essi, i quali avevano spiccato dal fico non frutti, ma foglie, furono radiati dal Regno di Dio; ed erano un’anima vivente. Venne il secondo Adamo, e andava non più in cerca di fogliame, ma di frutti; ed era spirito vivificante (1 Cor 15, 45). Ma nello spirito si consegue il frutto della virtù, e si adora il Signore. Eppure il Signore cercava il frutto, non perché ignorasse che l’albero di fico ne era privo, ma perché voleva far vedere in un simbolo che la Sinagoga doveva ormai produrre frutto. Del resto, in ciò che vien dopo, Egli dimostra di non esser giunto anzi tempo, perché venne per un periodo di tre anni: così infatti trovi: Ecco sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo dunque; perché sta a occupare la terra?
Egli venne ad Abramo, venne a Mosè, venne a Maria, venne nel segno, venne nella Legge, venne nel corpo. Ne riconosciamo la venuta dai suoi benefici: in una vi è la purificazione, nell’altra la santificazione, nell’altra ancora la giustificazione. La circoncisione purificò, la Legge santificò, la grazia giustificò: Egli solo è tutte queste cose, e tutte queste cose sono una sola. Infatti nessuno può diventar mondo se non colui che teme il Signore. Nessuno merita di ricevere la Legge se non è stato purificato dalla colpa e nessuno si accosta alla grazia se non conosce la Legge. Perciò il popolo dei Giudei non poté essere purificato, perché ebbe la circoncisione del corpo, ma non quella dell’anima; né poté essere santificato, perché la potenza della Legge gli fu sconosciuta, dato che seguiva le prescrizioni carnali piuttosto che quelle spirituali – invece la Legge è spirituale – né poté essere giustificato, perché non si pentiva dei suoi peccati e perciò ignorava la grazia. Giustamente, dunque, non si è trovato alcun frutto nella sinagoga e si comanda di reciderla.
Ma il buon agricoltore, e direi colui nel quale è posto il fondamento della Chiesa, avendo il presentimento che un altro doveva essere inviato alle Genti, lui invece al popolo della circoncisione, si interpone chiedendo piamente che esso non sia tagliato, perché era sicuro in base alla propria vocazione che anche il popolo dei Giudei poteva essere salvato mediante la Chiesa; e per questo motivo dice: Lascialo anche quest’anno, perché gli zappi intorno e metta un cesto di concime.
Come ha fatto presto a riconoscere che le cause della sterilità sono l’indurimento e la superbia dei Giudei! E perciò sa bene come coltivare perché sa bene come scoprire le deficienze. Egli assicura che le dure zolle del loro cuore debbono essere zappate con le marre degli apostoli, affinché la parola, acuminata da una parte e dall’altra, rovesci la terra incolta dello spirito, screpolata per il lungo abbandono, e aprendo il cuore ne stimoli la sensibilità ormai viva per lo spiraglio spirituale che si è aperto, affinché il peso enorme della terra non seppellisca e nasconda alla vista la radice della sapienza. Afferma pure che bisogna spargere un cesto di concime: ed è tanto grande la forza del concime, che rende feconde le piantagioni infeconde, verdeggianti quelle secche, fruttuose quelle sterili. Su di esso sedeva Giobbe quando fu tentato, e non poté esser vinto; e Paolo giudica il resto concime, al fine di guadagnare Cristo. In fin dei conti Giobbe prima aveva subito moltissime perdite, ma dopo che sedette sul concime, non ebbe più proprietà alcuna che il diavolo potesse portargli via. Dunque è una terra buona quella che vien zappata, efficace il concime che vi si sparge. Del resto, il Signore solleva dalla polvere l’indigente, rialza dal concime il povero (Sal 112, 7).
Pertanto, quel bravo agricoltore pensa che, mediante l’assiduo lavoro dell’intelletto spirituale e il sentimento dell’umiltà, anche i Giudei diventarono fecondi nei confronti del Vangelo di Cristo. ...
Ma da ciò che è detto dei Giudei io giudico che anche tutti debbano guardarsi, e specialmente noi, perché, vuoti di ogni merito, non ci accada di sfruttare il terreno fertile della Chiesa; mentre invece, benedetti come melograni, dobbiamo produrre frutti interiori, frutti di pudicizia, frutti di buona armonia, frutti di carità e d’amore, restando racchiusi entro l’unico grembo della madre Chiesa, affinché il vento non ci danneggi, la grandine non ci abbatta, l’arsura della passione non ci bruci, l’acqua delle tempeste non ci sconquassi.

(Dall’Esposizione del Vangelo secondo Luca, VII, 164-171 passim)

1 commento:

Filomena Malacrinis ha detto...

Preghiamo il Padrone della vigna affinchè ci faccia dono della perseveranza. Non ci faccia arrendere mai difronte alla sterilità della pianta...!!