P. R. Cantalamessa: OMELIE SULLA PASSIONE DEL SIGNORE


C’ERANO ANCHE ALCUNE DONNE

Predica del Venerdì Santo 2007 nella Basilica di S. Pietro


“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala” (Gv 19, 25). Per una volta lasciamo da parte Maria, sua Madre. La sua presenza sul Calvario non ha bisogno di spiegazioni. Era “sua madre” e questo spiega tutto; le madri non abbandonano un figlio, neppure condannato a morte. Ma perché erano lì le altre donne? Chi erano e quante erano?

I vangeli riferiscono il nome di alcune di esse: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, Salome, madre dei figli di Zebedeo, una certa Giovanna e una certa Susanna (Lc 8, 3). Venute con Gesú dalla Galilea, queste donne lo avevano seguito, piangendo, nel viaggio al Calvario (Lc 23, 27-28), ora sul Golgota osservavano “da lontano” (cioè dalla distanza minima loro consentita) e di lì a poco lo accompagnano, mestamente, al sepolcro, con Giuseppe di Arimatea (Lc 23, 55).

Questo fatto è troppo accertato e troppo straordinario per passarvi sopra in fretta. Le chiamiamo, con una certa condiscendenza maschile, “le pie donne”, ma esse sono ben più che “pie donne”, sono altrettante “Madri Coraggio”! Hanno sfidato il pericolo che c’era nel mostrarsi così apertamente in favore di un condannato a morte. Gesú aveva detto: “Beato chi non si sarà scandalizzato di me” (Lc 7, 23). Queste donne sono le uniche che non si sono scandalizzate di lui.

Si discute animatamente da qualche tempo chi fu a volere la morte di Gesú: se i capi ebrei, o Pilato, o gli uni e l’altro. Una cosa è certa in ogni caso: furono degli uomini, non delle donne. Nessuna donna è coinvolta, neppure indirettamente, nella sua condanna. Anche l’unica donna pagana menzionata nei racconti, la moglie di Pilato, si dissociò dalla sua condanna (Mt 27, 19). Certo, Gesú morì anche per i peccati delle donne, ma storicamente esse solo possono dire: “Noi siamo innocenti del sangue di costui!” (Mt 27, 24).

Questo è uno dei segni più certi dell’onestà e dell’attendibilità storica dei vangeli: la figura meschina che fanno in essi gli autori e gli ispiratori dei vangeli e la figura meravigliosa che vi fanno fare a delle donne. Chi avrebbe permesso che fosse conservata, a imperitura memoria, la storia ignominiosa della propria paura, fuga, rinnegamento, aggravata in più dal confronto con la condotta così diversa di alcune povere donne, chi, ripeto, l’avrebbe permesso, se non vi fosse stato costretto dalla fedeltà a una storia che appariva ormai infinitamente più grande della propria miseria?

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Ci si è sempre chiesti come mai le “pie donne” sono le prime a vedere il Risorto e ad esse viene dato l’incarico di annunciarlo agli apostoli. Questo era il modo più sicuro per rendere la risurrezione poco credibile. La testimonianza di una donna non aveva alcun peso. Forse proprio per questo motivo nessuna donna figura nel lungo elenco di coloro che hanno visto il Risorto redatto da Paolo (cf. 1 Cor 15, 5-8). Gli stessi apostoli sulle prime presero le parole delle donne come “un vaneggiamento” tutto femminile e non credettero ad esse (Lc 24, 11).

Gli autori antichi credettero di conoscere la risposta a questa domanda. Le donne, dice in un suo inno Romano il Melode, sono le prime a vedere il Risorto perché una donna, Eva, era stata la prima a peccare! (1) Ma la risposta vera è un’altra: le donne sono state le prime a vederlo risorto perché erano state le ultime ad abbandonarlo da morto e anche dopo la morte venivano a portare aromi al suo sepolcro (Mc 16,1).

Dobbiamo chiederci il perché di questo fatto: perché le donne hanno resistito allo scandalo della croce? Perché gli sono rimaste vicine quando tutto sembrava finito e anche i suoi discepoli più intimi lo avevano abbandonato e stavano organizzando il ritorno a casa?

La risposta l’ha data in anticipo Gesú, quando rispondendo a Simone, disse, della peccatrice che gli aveva lavato e baciato i piedi: “Ha molto amato!” (Lc 7, 47). Le donne avevano seguito Gesú per lui stesso, per gratitudine del bene da lui ricevuto, non per la speranza di far carriera al suo seguito. Ad esse non erano stati promessi “dodici troni”, né esse avevano chiesto di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel suo regno. Lo seguivano, è scritto, “per servirlo” (Lc 8, 3; Mt 27, 55); erano le uniche, dopo Maria la Madre, ad avere assimilato lo spirito del vangelo. Avevano seguito le ragioni del cuore e queste non le avevano ingannate.

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In ciò la loro presenza accanto al Crocifisso e al Risorto contiene un insegnamento vitale per noi oggi. La nostra civiltà, dominata dalla tecnica, ha bisogno di un cuore perché l’uomo possa sopravvivere in essa, senza disumanizzarsi del tutto. Dobbiamo dare più spazio alle “ragioni del cuore”, se vogliamo evitare che l’umanità ripiombi in un’era glaciale.

In questo, a differenza che in molti altri campi, la tecnica ci è ben poco di aiuto. Si sta lavorando da tempo a un tipo di computer che “pensa” e molti sono convinti che vi si arriverà. Ma nessuno finora ha prospettato la possibilità di un computer che “ama”, che si commuove, che viene incontro all’uomo sul piano affettivo, facilitandogli l’amare, come gli facilita il calcolare le distanze tra le stelle, il movimento degli atomi e memorizzare i dati...

Al potenziamento dell’intelligenza e delle possibilità conoscitive dell’uomo, non va di pari passo, purtroppo, il potenziamento della sua capacità d’amore. Quest’ultima, anzi, sembra che non conti nulla, mentre sappiamo benissimo che la felicità o l’infelicità sulla terra non dipende tanto dal conoscere o non conoscere, quanto dall’amare o non amare, dall’essere amato o non essere amato. Non è difficile capire perché siamo così ansiosi di accrescere le nostre conoscenze e così poco di accrescere la nostra capacità di amare: la conoscenza si traduce automaticamente in potere, l’amore in servizio.

Una delle moderne idolatrie è l’idolatria dell’“IQ”, del “quoziente di intelligenza”. Si sono messi a punto numerosi metodi di misurazione. Ma chi si preoccupa di tener conto anche del “quoziente di cuore”? Eppure solo l’amore redime e salva mentre la scienza e la sete di conoscenza, da sole, possono portare alla dannazione. È la conclusione del Faust di Goethe ed è anche il grido lanciato dal regista che fa inchiodare simbolicamente al pavimento i preziosi volumi di una biblioteca e fa dire al protagonista che “tutti i libri del mondo non valgono una carezza” (2). Prima di tutti loro san Paolo aveva scritto: “La scienza gonfia, l’amore edifica” (1 Cor 8,1).

Dopo tante ere che hanno preso il nome dall’uomo – homo erectus, homo faber, fino all’homo sapiens, cioè sapientissimo, di oggi –, c’è da augurarsi che si apra finalmente, per l’umanità, un’era della donna: un’era del cuore, della compassione, e questa terra cessi finalmente di essere “l’aiola che ci fa tanti feroci” (3).

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Da ogni parte emerge l’esigenza di dare più spazio alla donna. Noi non crediamo che “l’eterno femminino ci salverà” (4). L’esperienza quotidiana dimostra che la donna può “sollevarci in alto”, ma può anche farci precipitare in basso. Anch’essa ha bisogno di essere salvata da Cristo. Ma è certo che, una volta redenta da lui e “liberata”, sul piano umano, da antiche discriminazioni, essa può contribuire a salvare la nostra società da alcuni mali inveterati che la minacciano: violenza, volontà di potenza, aridità spirituale, disprezzo della vita…

Bisogna solo evitare di ripetere l’antico errore gnostico secondo cui la donna, per salvarsi, deve cessare di essere donna e trasformarsi in uomo (5). Il pregiudizio è tanto radicato nella cultura che le stesse donne hanno finito a volte per soccombere ad esso. Per affermare la loro dignità, hanno creduto necessario assumere atteggiamenti maschili, oppure minimizzare la differenza dei sessi, riducendola a un prodotto della cultura. “Donna non si nasce, ma si diventa”, ha detto una loro illustre rappresentante (6).

Come dobbiamo essere grati alle “pie donne”! Lungo il viaggio al Calvario, il loro singhiozzare fu l’unico suono amico che giunse agli orecchi del Salvatore; sulla croce, i loro “sguardi” furono gli unici a posarsi con amore e compassione su di lui.

La liturgia bizantina ha onorato le pie donne dedicando ad esse una domenica dell’anno liturgico, la seconda dopo Pasqua, che prende il nome di “domenica delle Mirofore”, cioè delle portatrici di aromi. Gesù è contento che si onorino nella Chiesa le donne che lo hanno amato e hanno creduto in lui quand’era in vita. Su una di esse – la donna che versò sul suo capo un vasetto di olio profumato – fece questa straordinaria profezia, puntualmente avveratasi nei secoli: “Dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei” (Mt 26,13).

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Le pie donne non sono, però, solo da ammirare e onorare, sono anche da imitare. San Leone Magno dice che “la passione di Cristo si prolunga sino alla fine dei secoli” (7) e Pascal ha scritto che “Cristo sarà in agonia fino alla fine del mondo” (8). La Passione si prolunga nelle membra del corpo di Cristo. Sono eredi delle “pie donne” le tante donne, religiose e laiche, che stanno oggi a fianco dei poveri, dei malati di AIDS, dei carcerati, dei reietti d’ogni specie della società. Ad esse – credenti o non credenti – Cristo ripete: “L’avete fatto a me” (Mt 25, 40).

Non solo per il ruolo svolto nella passione, ma anche per quello svolto nella risurrezione le pie donne sono di esempio alle donne cristiane di oggi. Nella Bibbia si incontrano da un capo all’altro dei “va!” o degli “andate!”, cioè degli invii da parte di Dio. È la parola rivolta ad Abramo, a Mosè (“Va’, Mosè, nella terra d’Egitto”), ai profeti, agli apostoli: “Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura”.

Sono tutti “andate!” indirizzati a degli uomini. C’è un solo “andate!” indirizzato a delle donne, quello rivolto alle mirofore il mattino di Pasqua: “Allora Gesù disse loro: “Andate ed annunziate ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno” (Mt 28, 10). Con queste parole le costituiva prime testimoni della risurrezione, “maestre dei maestri” come le chiama un autore antico (9).

È un peccato che, a causa dell’errata identificazione con la donna peccatrice che lava i piedi di Gesú (Lc 7, 37), Maria Maddalena abbia finito per alimentare infinite leggende antiche e moderne e sia entrata nel culto e nell’arte quasi solo nella veste di “penitente”, anziché in quella di prima testimone della risurrezione, “apostola degli apostoli”, come la definisce san Tommaso d’Aquino (10).

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“Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli” (Mt 28, 8). Donne cristiane, continuate a portare ai successori degli apostoli e a noi sacerdoti loro collaboratori il lieto annuncio: “Il Maestro è vivo! E’ risorto! Vi precede in Galilea, cioè dovunque andiate!” Continuate l’antico cantico che la liturgia pone sulla bocca di Maria Maddalena: Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus regnat vivus: “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto, ma ora è vivo e regna”. La vita ha trionfato, in Cristo, sulla morte e così avverrà un giorno anche in noi. Insieme con tutte le donne di buona volontà, voi siete la speranza di un mondo più umano.

Alla prima delle “pie donne” e loro incomparabile modello, la Madre di Gesú, ripetiamo con un’antica preghiera della Chiesa: “Santa Maria, soccorri i miseri, sostieni i pusillanimi, conforta i deboli: prega per il popolo, intervieni per il clero, intercedi per il devoto sesso femminile”: Ora pro populo, interveni pro clero, intercede pro devoto femineo sexu (11).



(1) Romano il Melode, Inni, 45, 6 (ed. a cura di G. Gharib, Edizioni Paoline 1981, p. 406).
(2) Nel film “Cento chiodi” di Ermanno Olmi.
(3) Dante Alighieri, Paradiso, 22, v.151.
(4) W. Goethe, Faust, finale parte II: “Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan”.
(5) Cf. Vangelo copto di Tommaso, 114; Estratti di Teodoto, 21, 3.
(6) Simone de Beauvoir, Le Deuxième Sexe (1949).
(7) S. Leone Magno, Sermo 70, 5 (PL 54, 383).
(8) B. Pascal, Pensieri, n. 553 Br.
(9) Gregorio Antiocheno, Omelia sulle donne mirofore, 11 (PG 88, 1864 B).
(10) S. Tommaso d’Aquino, Commento al vangelo di Giovanni, XX, 2519.
(11) Antifona al Magnificat, Comune delle feste della Vergine.



Dio dimostra il suo amore per noi


2006-04-14- Venerdì Santo - Basilica di S. Pietro



1. “Siate, cristiani, a muovervi più gravi!”

“Verranno giorni in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa di nuovo, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2 Tim 4,3-4).

Questa parola della Scrittura –soprattutto l’accenno al prurito di udire cose nuove - si sta realizzando in modo nuovo e impressionante ai nostri giorni. Mentre noi celebriamo qui il ricordo della passione e morte del Salvatore, milioni di persone sono indotte da abili rimaneggiatori di leggende antiche a credere che Gesú di Nazareth non è, in realtà, mai stato crocifisso.

“È una costatazione poco lusinghiera per la natura umana, scriveva anni fa il più grande studioso biblico della storia della Passione, Raymond Brown: quanto più fantastico è lo scenario immaginato, tanto più sensazionale è la propaganda che riceve e più forte l’interesse che suscita. Persone che non si darebbero mai la pena di leggere un’analisi seria delle tradizioni storiche sulla passione, morte e risurrezione di Gesú, sono affascinate da ogni nuova teoria secondo cui egli non fu crocifisso e non morì, specialmente se il seguito della storia comprende la sua fuga con Maria Maddalena verso l’India [o verso la Francia, secondo la versione più aggiornata]…Queste teorie dimostrano che quando si tratta della Passione di Gesú, a dispetto della massima popolare, la fantasia supera la realtà, ed è, ahimè, anche più redditizia” [1].

Si fa un gran parlare del tradimento di Giuda e non ci si accorge che lo si sta rinnovando. Cristo viene ancora venduto, non più ai capi del sinedrio per trenta denari, ma a editori e librai per milioni di dollari … Nessuno riuscirà a fermare quest’ondata speculativa, che anzi registrerà presto un’impennata con l’uscita di un certo film, ma essendomi occupato per anni di Storia delle origini cristiane sento il dovere di attirare l’attenzione su un equivoco madornale che è al fondo di tutta questa letteratura pseudo-storica.

I vangeli apocrifi di Tommaso, di Filippo, di Giuda, sui quali ci si appoggia e che vengono presentati come scoperte sensazionali dei nostri giorni sono testi da sempre conosciuti, in tutto o in parte. Sono scritti del II-III secolo con i quali neppure gli storici più critici e più ostili al cristianesimo hanno mai pensato, prima d’oggi, che si potesse fare della storia. Sarebbe come se fra qualche secolo si pretendesse ricostruire la storia attuale basandosi sui romanzi scritti nella nostra epoca.

L’equivoco di cui parlavo consiste nel fatto che si utilizzano questi scritti per far dire loro esattamente il contrario di quello che intendevano. Essi fanno parte della letteratura gnostica. Per la gnosi il mondo materiale è una illusione, opera di un Dio cattivo o inferiore; Cristo non è morto sulla croce, per il semplice motivo che non aveva mai assunto, se non in apparenza, un corpo umano, essendo questo indegno di Dio (docetismo); se in uno di tali scritti, di cui si è fatto gran parlare nei giorni scorsi, egli stesso ordina a Giuda di tradirlo è perché – tipico tema gnostico - alla sua morte, lo spirito divino che è in lui potrà finalmente liberarsi dell’involucro della carne e risalire al cielo. La donna si salverà solo se il “principio femminile” (thelus) da essa impersonato, si trasformerà nel principio maschile, cioè se cesserà di essere donna [2]. La setta dei manichei non si sbagliava nel fare di questi vangeli le proprie scritture canoniche.

La cosa buffa è che oggi c’è chi crede di vedere in questi scritti l’esaltazione del principio femminile, della sessualità, del pieno e disinibito godimento di questo mondo materiale, in polemica con la Chiesa ufficiale che, con spirito manicheo, avrebbe sempre conculcato tutto ciò! Lo stesso equivoco che si nota a proposito della dottrina della reincarnazione. Presente nelle religioni orientali come una punizione dovuta a precedenti colpe e come la cosa a cui si anela a porre fine con tutte le forze, essa è vista in occidente come una meravigliosa possibilità di tornare a vivere e a godere indefinitamente di questo mondo.

Sono cose che non meriterebbero di essere trattate in questo luogo e in questo giorno, ma non possiamo permettere che il silenzio dei credenti venga scambiato per imbarazzo e che la buona fede (o la dabbenaggine?) di milioni di persone venga grossolanamente manipolata dai media, senza alzare un grido di protesta in nome non solo della fede, ma anche del buon senso e della sana ragione. È il momento, credo, di riascoltare l’ammonimento di Dante Alighieri:

“Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogni vento,
e non crediate ch'ogni acqua vi lavi.

Avete il novo e 'l vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento…
Uomini siate, e non pecore matte ” [3].

2. La Passione ha preceduto l’Incarnazione!

Ma lasciamo da parte queste fantasie che hanno tutte una spiegazione comune: siamo nell’era dei media e ai media, più che la verità, interessa la novità. Concentriamoci sul mistero che stiamo celebrando. Il modo migliore di riflettere, quest’anno, sul mistero del Venerdì santo sarebbe di rileggere per intero la prima parte dell’enciclica del papa “Deus caritas est”. Non potendo farlo qui, vorrei almeno commentare alcuni suoi passaggi che più direttamente si riferiscono al mistero di questo giorno. Leggiamo nell’enciclica:

“Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni, è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: ‘Dio è amore‘. È lì che tale verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo sguardo, il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare” [4].

Sì, Dio è amore! Se tutte le Bibbie del mondo, è stato detto, andassero distrutte per qualche cataclisma o furore iconoclasta e ne rimanesse soltanto una copia; e anche questa copia fosse così danneggiata che solo una pagina fosse ancora intera, e anche questa pagina fosse così stropicciata che solo una riga si potesse ancora leggere: se tale riga è la riga della Prima lettera di Giovanni dove è scritto “Dio è amore!”, tutta la Bibbia sarebbe salva, perché tutto è contenuto lì.

L’amore di Dio è luce, è felicità, è pienezza. È il torrente che Ezechiele vide uscire dal tempio che, dove giunge, risana e fa sbocciare la vita; è l’acqua promessa alla Samaritana che estingue ogni sete. Gesú ripete oggi a noi, come a lei: “Se conoscessi il dono di Dio!” Se conoscessi l’amore di Dio!

Io ho vissuto la mia infanzia in una casa di campagna distante pochi metri da una linea elettrica ad alta potenza; ma noi vivevamo al buio o al lume di candela. Tra noi e la linea elettrica c’era la ferrovia e, con la guerra in corso, nessuno pensava a superare il piccolo ostacolo e fare un allacciamento. Così avviene con l’amore di Dio: è lì a portata di mano, capace di illuminare e riscaldare tutto nella nostra vita, ma noi continuaiamo a trascorrrere l’esistenza al buio e al freddo. È l’unico vero motivo di tristezza della vita.

Dio è amore, e la croce di Cristo ne è la prova suprema, la dimostrazione storica. Vi sono due modi di manifestare il proprio amore verso qualcuno, diceva un autore dell’oriente bizantino, Nicola Cabasilas. Il primo consiste nel fare del bene alla persona amata, nel farle doni; il secondo, molto più impegnativo, consiste nel soffrire per essa. Dio ci ha amato nel primo modo, con amore cioè di munificenza, nella creazione, quando ci ha riempito di doni, dentro e fuori di noi; ci ha amati di amore di sofferenza nella redenzione, quando ha inventato il proprio annientamento, soffrendo per noi i più terribili patimenti, al fine di convincerci del suo amore [5]. Per questo è sulla croce che si deve contemplare ormai la verità che “Dio è amore”.

3. Tre ordini di grandezza

L’enciclica “Deus caritas est” ci indica un nuovo modo di fare apologia della fede cristiana, forse l’unico possibile oggi e certamente il più efficace. Non contrappone i valori soprannaturali a quelli naturali, l’amore divino all’amore umano, l‘eros e l’agape, ma ne mostra l’originaria armonia, sempre da riscoprire e da risanare, a causa del peccato e della fragilità umana. “L'eros, scrive il papa, vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni” [6]. Il vangelo è, sì, in concorrenza con gli ideali umani, ma nel senso letterale che con-corre alla loro realizzazione. Non esclude l’eros dalla vita, ma il veleno dell’egoismo dall’eros.

Vi sono tre ordini di grandezza, ha detto Pascal in un celebre pensiero [7]. Il primo è l’ordine materiale o dei corpi: in esso eccelle chi ha molti beni, chi è dotato di forza atletica o bellezza fisica. È un valore da non disprezzare, ma il più basso. Sopra di esso c’è l’ordine del genio e dell’intelligenza in cui si distinguono i pensatori, gli inventori, gli scienziati, gli artisti, i poeti. Questo è un ordine di qualità diversa. Al genio non aggiunge e non toglie nulla l’essere ricco o povero, bello o brutto.

Questo del genio è un valore certamente più alto del precedente, ma non ancora il supremo. Sopra di esso c’è un altro ordine di grandezza, ed è l’ordine dell’amore, della bontà. (Pascal lo chiama l’ordine della santità e della grazia). Una goccia di santità, diceva Gounod, vale più di un oceano di genio. Al santo non aggiunge e non toglie nulla l’essere bello o brutto, dotto o illetterato. La sua grandezza è di un ordine diverso.

Il cristianesimo appartiene a questo terzo livello. Nel romanzo Quo vadis, un pagano chiede all’apostolo Pietro appena giunto a Roma: “Atene ci ha donato la sapienza, Roma la potenza; la vostra religione cosa ci offre? E Pietro risponde: l’amore! [8]. L’amore è la cosa più fragile che esista al mondo; viene rappresentato, ed è, come un bambino. Lo si può uccidere con nulla, come - lo abbiamo visto con orrore in Italia nelle passate settimane -, si può fare con un bambino. Ma sappiamo cosa diventano la potenza e la scienza, la forza e il genio, senza l’amore e la bontà...

4. Amore che perdona

“L’eros di Dio per l’uomo –prosegue l’enciclica – è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona” (nr. 10).

Anche questa qualità rifulge nel massimo grado nel mistero della croce. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, aveva detto Gesú nel cenacolo (Gv 15,13). Verrebbe da esclamare: Sì che esiste, o Cristo, un amore più grande che dare la vita per i propri amici. Il tuo! Tu non hai dato la vita per i tuoi amici, ma per i tuoi nemici! Paolo dice che a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto, però si trova. “Ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito” (Rom 5, 6-8).

Ma non si tarda a scoprire che il contrasto è solo apparente. La parola “amici” in senso attivo indica coloro che ti amano, ma in senso passivo indica coloro che sono amati da te. Gesù chiama Giuda “amico” (Mt 26, 50) non perché Giuda lo amasse, ma perché lui lo amava! Non c’è amore più grande che dare la propria vita per i nemici, considerandoli amici: ecco il senso della frase di Gesù. Gli uomini possono essere, o atteggiarsi, a nemici di Dio, Dio non potrà mai essere nemico dell’uomo. È il terribile vantaggio dei figli sui padri (e sulle madri).

Dobbiamo riflettere in che modo, concretamente, l’amore di Cristo sulla croce può aiutare l’uomo d’oggi a trovare, come dice l’enciclica, “la strada del suo vivere e del suo amare”. Esso è un amore di misericordia, che scusa e perdona, che non vuole distruggere il nemico, ma semmai l’inimicizia (cfr. Ef 2, 16). Geremia, il più vicino tra gli uomini al Cristo della Passione, prega Dio dicendo: “Possa io vedere la tua vendetta su di loro” (Ger 11, 20); Gesú muore dicendo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

È proprio di questa misericordia e capacità di perdono che abbiamo bisogno oggi, per non scivolare sempre più nel baratro di una violenza globalizzata. L'Apostolo scriveva ai Colossesi: “Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti (alla lettera: di viscere!) di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3, 12-13).

Avere misericordia significa impietosirsi (misereor) nel cuore (cordis) a riguardo del proprio nemico, capire di che pasta siamo fatti tutti quanti e quindi perdonare. Quanta verità nel verso del nostro Pascoli: “Uomini, pace! Nella prona terra troppo è il mistero” [9]. Un comune destino di morte incombe su tutti. L’umanità è avvolta da tanta oscurità e piegata (“prona”) sotto tanta sofferenza che dovremmo pure avere un po’ di compassione e di solidarietà gli uni per gli altri!

5. Il dovere di amare

C’è un altro insegnamento che ci viene dall’amore di Dio manifestato nella croce di Cristo. L’amore di Dio per l’uomo è fedele ed eterno: “Ti ho amato di amore eterno”, dice Dio all’uomo nei profeti (Ger 31, 3), e ancora: “Alla mia fedeltà non verrò mai meno” (Sal 89, 34). Dio si è legato ad amare per sempre, si è privato della libertà di tornare indietro. È questo il senso profondo dell’alleanza che in Cristo è divenuta “nuova ed eterna”.

Nell’enciclica papale leggiamo: “Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — ‘solo quest'unica persona’ — e nel senso del ‘per sempre’. L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità” [10].

Nella nostra società ci si domanda sempre più spesso che rapporto ci può essere tra l’amore di due giovani e la legge del matrimonio; che bisogno ha di “vincolarsi” l’amore che è tutto slancio e spontaneità. Così sono sempre più numerosi coloro che rifiutano l’istituzione del matrimonio e scelgono il cosiddetto amore libero o la semplice convivenza di fatto. Solo se si scopre il profondo e vitale rapporto che c’è tra legge e amore, tra decisione e istituzione, si può rispondere correttamente a quelle domande e dare ai giovani un motivo convincente per “legarsi” ad amare per sempre e a non aver paura di fare dell’amore un “dovere”.

“Soltanto quando c’è il dovere di amare, -ha scritto il filosofo che, dopo Platone, ha scritto le cose più belle sull’amore, Kierkegaard -, allora soltanto l’amore è garantito per sempre contro ogni alterazione; eternamente liberato in beata indipendenza; assicurato in eterna beatitudine contro ogni disperazione” [11]. Il senso di queste parole è che la persona che ama, più ama intensamente, più percepisce con angoscia il pericolo che corre il suo amore. Pericolo che non viene da altri, ma da lei stessa. Essa sa bene infatti di essere volubile e che domani, ahimè, potrebbe già stancarsi e non amare più o cambiare l’oggetto del suo amore. E poiché, adesso che è nella luce dell’amore, vede con chiarezza quale perdita irreparabile questo comporterebbe, ecco che si premunisce “legandosi” ad amare con il vincolo del dovere e ancorando, in tal modo all’eternità il suo atto d’amore posto nel tempo.

Ulisse voleva giungere a rivedere la sua patria e la sua sposa, ma doveva passare attraverso il luogo delle Sirene che ammaliavano i naviganti con il loro canto e li portavano a schiantarsi contro gli scogli. Cosa fece? Si fece legare all’albero della nave, dopo aver turato le orecchie con cera ai compagni. Giunto sul luogo, ammaliato, gridava per essere sciolto e raggiungere le Sirene, ma i compagni non potevano udirlo e così poté rivedere la sua patria e riabbracciare la sposa e il figlio [12]. È un mito, ma aiuta a capire il perché, anche umano ed esistenziale, del matrimonio “indissolubile” e, su un piano diverso, dei voti religiosi.

Queste considerazioni non basteranno a mutare la cultura in atto che esalta la libertà di cambiare e la spontaneità del momento, la pratica dell’”usa e getta” applicata anche all’amore. Ma che almeno servano a confermare della bontà e bellezza della propria scelta coloro che hanno deciso di vivere l’amore tra l’uomo e la donna secondo il progetto di Dio e serva a invogliare tanti giovani a fare la stessa scelta.

Non ci resta ormai che intonare con Paolo l’inno all’amore vittorioso di Dio. Egli ci invita a fare con lui una meravigliosa esperienza di guarigione interiore e di liberazione dalle paure. Nella Lettera ai Romani, ripensa a tutte le cose negative e ai momenti critici della sua vita: la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada. Guarda ad essi alla luce della certezza dell’amore di Dio e grida: “In tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati!”.

Dalla sua vita personale passa quindi a considerare il mondo che lo circonda e il destino umano universale, e di nuovo la stessa giubilante certezza: “Io sono persuaso che né morte né vita…, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 37-39).

Seguiamo il suo esempio, in questo Venerdì di passione, e ripetiamo tra noi le sue parole, quando, fra poco, adoreremo la croce di Cristo.


1. R. Brown, The Death of the Messiah, II, New York 1998, pp. 1092-1096.
2. Vedi il logion 114 nello stesso Vangelo di Tommaso (ed. Mayer, p. 63); nel Vangelo degli Egiziani Gesú dice: “Sono venuto a distruggere le opere della donna” (cfr. Clemente Al., Stromati, III, 63).
3. Paradiso, V, 73-80.
4. Benedetto XVI, Enc. “Deus caritas est”,12.
5. Cf. N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI, 2 (PG 150, 645).
6. Enc. “Desu caritas est”, n.5.
7. Cfr. B. Pascal, Pensieri, 793, ed. Brunschvicg.
8. Henryk Sienkiewicz, Quo vadis, cap. 33.
9. Giovanni Pascoli, “I due fanciulli”.
10. Enc. “Deus caritas est”, n. 6.
11. S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, I, 2, 40, ed. a cura di C. Fabro, Milano 1983, p. 177 ss.
12. Cfr. Odissea, canto XII.



Salve, vero corpo nato da Maria vergine

2005-03-25- Venerdì Santo-Basilica di S. Pietro



Venerdì Santo del 2005, anno dell’Eucaristia! Quanta luce, sull’uno e l’altro mistero, da questo accostamento! Ma se l’Eucaristia è “il memoriale della passione”, come mai la Chiesa si astiene dal celebrarla proprio il Venerdì Santo? (Quella a cui stiamo assistendo non è, come sappiamo, una Messa, ma una liturgia della Passione, in cui solo si riceve il corpo di Cristo consacrato il giorno precedente).

C’è una profonda ragione teologica in ciò. Chi si fa presente sull’altare ad ogni Eucaristia è il Cristo risorto e vivo, non un morto. La Chiesa si astiene perciò dal celebrare l’Eucaristia nei due giorni in cui si ricorda il Gesú che giace morto nel sepolcro e la sua anima è separata dal corpo (anche se non dalla divinità). Il fatto che oggi non si celebra la Messa non attenua perciò, ma anzi rafforza, il legame tra il Venerdì Santo e l’Eucaristia. L’Eucaristia sta alla morte di Cristo come il suono e la voce stanno alla parola che fanno risuonare nello spazio e giungere all’orecchio.

C’è un inno latino, non meno caro dell’Adoro te devote alla pietà eucaristica dei cattolici, che mette in luce il legame tra l’Eucaristia e la croce, l’Ave verum. Composto nel secolo XIII per accompagnare l’elevazione dell’Ostia nella Messa, esso si presta altrettanto bene per salutare l’elevazione di Cristo sulla croce. Sono appena cinque versi, carichi però di tanto contenuto:

Ave vero corpo nato da Maria Vergine!
Tu hai veramente patito e ti sei immolato per l’uomo sulla croce.
Dal tuo costato trafitto sgorgò acqua e sangue.
Sii per noi un pegno nel momento della morte.
O Gesú dolce, o Gesú pio, o Gesù figlio di Maria!

Il primo verso fornisce la chiave per comprendere tutto il resto. Berengario di Tours aveva negato la realtà della presenza di Cristo nel segno del pane, riducendola a una presenza simbolica. Per togliere ogni pretesto a questa eresia, si comincia ad affermare l’identità totale tra il Gesú dell’Eucaristia e quello della storia. Il corpo di Cristo presente sull’altare è definito “vero” (verum corpus), per distinguerlo da un corpo puramente “simbolico” e anche dal corpo “mistico” che è la Chiesa.

Tutte le espressioni che seguono si riferiscono al Gesú terreno: nascita da Maria, passione, morte, trafittura del costato. L’autore si arresta a questo punto; si astiene dal menzionare la risurrezione, perché essa potrebbe far pensare, di nuovo, a un corpo glorificato e spirituale, e dunque non abbastanza “reale”.

La teologia è tornata oggi a una visione più equilibrata dell’identità tra il corpo storico e quello eucaristico di Cristo e insiste sul carattere sacramentale, non materiale (sebbene reale e sostanziale) della presenza di Cristo nel sacramento dell’altare.

Ma a parte questa diversa accentuazione, resta intatta la verità di fondo affermata dall’inno. È il Gesú nato da Maria a Betlemme, lo stesso che “passò facendo del bene a tutti” (Atti 10, 38), che morì sulla croce e risorse il terzo giorno, colui che è presente oggi nel mondo, non una sua vaga presenza spirituale, o, come dice qualcuno, la sua “causa”. L’Eucaristia è il modo inventato da Dio per rimanere per sempre l’Emmanuele, il Dio-con-noi.

Tale presenza non è una garanzia e una protezione solo per la Chiesa, ma per tutto il mondo. “Dio è con noi!” Questa frase ci fa ormai paura e non osiamo quasi più pronunciarla. Si è dato a volte ad essa un senso esclusivo: Dio è “con noi”, s’intende non con gli altri, anzi è “contro” gli altri, contro i nostri nemici. Ma con l’avvento di Cristo tutto è diventato universale. “Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe” (2 Cor 5, 19). Il mondo intero, non una sua parte; tutti gli uomini, non un solo popolo.

“Dio è con noi”, cioè dalla parte dell’uomo, suo amico e alleato contro le forze del male. È l’unico che impersona tutto e solo il fronte del bene contro il fronte del male. Questo dava la forza a Dietrich Bonh`ffer, in carcere e in attesa della senteza di morte da parte del “potere cattivo” di Hitler, di affermare la vittoria del potere buono:

Da forze amiche a meraviglia avvolti
andiamo, calmi, incontro all’avvenire.
Dio è con noi di sera e di mattino,
sarà con noi in ogni giorno nuovo.
Von guten Mächten wunderbar geborgen
erwarten wir getrost, was kommen mag.
Gott ist mit uns am Abend und am Morgen
und ganz gewiss an jeden neuen Tag.

“Non sappiamo, scriveva il papa nella Novo millennio ineunte, quali eventi ci riserverà il millennio che sta iniziando, ma abbiamo la certezza che esso resterà saldamente nelle mani di Cristo, il ‘Re dei re e Signore dei signori’ (Ap 19, 16)” .

Dopo il saluto viene, nell’inno, l’invocazione: Esto nobis praegustatum mortis in examine, Sii per noi, o Cristo, caparra e anticipo di vita eterna nell’ora della morte. Già il martire Ignazio di Antiochia chiamava l’Eucaristia “farmaco di immortalità”, cioè rimedio alla nostra mortalità . Nell’Eucaristia abbiamo “il pegno della gloria futura”: “et futurae gloriae nobis pignus datur”.

Alcune inchieste hanno rivelato un fatto strano: ci sono, anche tra i credenti, persone che credono in Dio, ma non in una vita per l’uomo dopo la morte. Ma come si può pensare una cosa del genere? Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, è morto per procurarci “una redenzione eterna” (Ebr 9,12). Non temporanea, ma eterna!

Si obbietta che nessuno è mai tornato dall’aldilà per assicurarci che esso esiste davvero e non è soltanto una pia illusione. Non è vero! C’è uno che ogni giorno torna dall’aldilà per assicurarci e rinnovare le sue promesse, se sappiamo ascoltarlo. Colui verso il quale siamo incamminati ci viene incontro nell’Eucaristia per darci un assaggio (praegustatum!) del banchetto finale del regno.

Dobbiamo gridare al mondo questa speranza per aiutare noi stessi e gli altri a vincere l’orrore che ci fa la morte e reagire al cupo pessimismo che aleggia sulla nostra società. Si moltiplicano le diagnosi disperate sullo stato della terra: “un formicaio che si sgretola”, “un pianeta che agonizza”…La scienza traccia con sempre maggiori dettagli, il possibile scenario della dissoluzione finale del cosmo. Si raffredderà la terra e gli altri pianeti, si raffredderanno il sole e le altre stelle, si raffredderà ogni cosa… Diminuirà la luce e aumenteranno nell’universo i buchi neri…L’espansione un giorno si esaurirà e comincerà la contrazione e alla fine si assisterà al collasso di tutta la materia e di tutta l’energia esistente in una struttura compatta di densità infinita. Sarà allora il “Big Crunch”, o grande implosione, e tutto ritornerà al vuoto e al silenzio che precedette la grande esplosione, o Big Bang, di quindici miliardi di anni fa...

Nessuno sa se le cose si svolgeranno veramente così o in altro modo. La fede però ci assicura che, anche se così fosse, non sarà quella la fine totale. Dio non ha riconciliato il mondo a sé per abbandonarlo poi al nulla; non ha promesso di rimanere con noi fino alla fine del mondo, per poi ritirarsi, da solo, nel suo cielo, nel momento in cui questa fine arriverà. “Ti ho amato di amore eterno”, ha detto Dio all’uomo nella Bibbia (Ger 31, 3), e le promesse di “amore eterno” di Dio non sono come quelle dell’uomo.

Proseguendo idealmente la meditazione dell’Ave verum, l’autore del Dies irae eleva a Cristo una struggente preghiera che mai come in questo giorno possiamo fare nostra: “Recordare, Iesu pie, quod sum causa tuae viae: ne me perdas illa die”: Ricordati, o buon Gesú, che per me salisti sulla croce: non permettere che mi perda in quel giorno. “Quaerens me sedisti lassus, redemisti crucem passus: tantus labor non sit cassus”: “Nel cercarmi, sedesti un giorno stanco al pozzo di Sichem e salisti sulla croce per redimermi: tanto dolore non sia sprecato”.

L’Ave verum si chiude con una esclamazione diretta alla persona di Cristo: “O Iesu dulcis, o Iesu pie”. Queste parole ci prospettano una immagine squisitamente evangelica di Cristo: il Gesù “dolce e pio”, cioè clemente, compassionevole che non spezza la canna incrinata e non spegne il lucignolo fumigante (cf. Mt 12, 20). Il Gesù che un giorno disse: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29). L’Eucaristia prolunga nella storia la presenza di questo Gesú. Essa è il sacramento della non violenza!

La mitezza di Cristo non giustifica però, anzi rende ancora più strana e odiosa, la violenza che si registra oggi nei confronti della sua persona. È stato detto che, con il suo sacrificio, Cristo ha posto fine al perverso meccanismo del capro espiatorio, subendone egli stesso le conseguenze . Bisogna dire con tristezza che tale perverso meccanismo è nuovamente in atto nei confronti di Cristo, in una forma finora sconosciuta.

Contro di lui si sfoga tutto il risentimento di un certo pensiero laico per le recenti manifestazioni di connubio tra la violenza e il sacro. Come è di regola nel meccanismo del capro espiatorio, si sceglie l’elemento più debole per accanirsi contro di esso. “Debole”, qui, nel senso che lo si può dileggiare impunemente, senza correre alcun pericolo di ritorsione, avendo i cristiani da tempo rinunciato a difendere la propria fede con la forza.

Non si tratta solo delle pressioni per rimuovere il crocifisso dai luoghi pubblici e il presepio dal folclore natalizio. Si susseguono senza sosta romanzi, film e spettacoli in cui si manipola a piacimento la figura di Cristo sulla scorta di fantomatici e inesistenti nuovi documenti e scoperte. Sta diventando una moda, una specie di genere letterario.

È sempre esistita la tendenza a rivestire Cristo dei panni della propria epoca o della propria ideologia. Ma almeno in passato, per quanto discutibili, erano cause serie e di grande respiro: il Cristo idealista, socialista, rivoluzionario…La nostra epoca, ossessionata dal sesso, arriva perfino a rappresentarsi Gesú come un gay ante litteram o uno che predica che la salvezza viene dall’unione con il principio femminile e ne da l’esempio sposando la Maddalena.

Ci si presenta come i paladini della scienza contro la religione: una rivendicazione sorprendente a giudicare da come è trattata in questi casi la scienza storica! Le storie più fantasiose e assurde vengono propinate e bevute da molti come si trattasse di storia vera, anzi dell’unica storia libera finalmente da censure ecclesiastiche e tabù. “L’uomo che non crede più in Dio è pronto a credere a tutto”, ha detto qualcuno. I fatti gli stanno dando ragione.

Si specula sulla risonanza vastissima che ha il nome di Gesú e su quello che esso significa per tanta parte dell’umanità, per assicurarsi una popolarità a buon mercato o far sensazione con messaggi pubblicitari che abusano di simboli e immagini evangeliche. (È avvenuto di recente per l’immagine dell’ultima cena). Ma questo è parassitismo letterario!

Gesú è venduto di nuovo per trenta denari, dileggiato e rivestito di vesti da burla come nel pretorio. (In uno spettacolo messo in onda il passato Gennaio da una televisione di stato europea Cristo appariva sulla croce ricoperto con pannolini da bambino!). E poi ci si scandalizza e si grida all’intolleranza e alla censura se i credenti reagiscono inviando lettere e telefonate di protesta ai responsabili. L’intolleranza da tempo ha cambiato di campo in Occidente: da intolleranza religiosa è diventata intolleranza della religione!

“Nessuno, si obbietta, ha il monopolio dei simboli e delle immagini di una religione”. Ma anche i simboli di una nazione –l’inno, la bandiera – sono di tutti e di nessuno; è forse permesso per questo dileggiarli e sfruttarli a proprio piacimento?

Il mistero che celebriamo in questo giorno ci vieta di abbandonarci a complessi di persecuzione e di innalzare di nuovo muri o bastioni tra noi e la cultura (o in-cultura) moderna. Forse dobbiamo imitare il nostro Maestro e dire semplicemente: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Perdona loro e noi, perché è certamente anche a causa dei nostri peccati, presenti e passati, che tutto questo avviene e si sa che è per colpire i cristiani e la Chiesa che si colpisce Cristo.

Ci permettiamo solo di rivolgere ai nostri contemporanei, nell’interesse nostro e loro, l’appello che Tertulliano rivolgeva a suo tempo agli Gnostici nemici dell’umanità di Cristo: “Parce unicae spei totius orbis”: non togliete al mondo la sua unica speranza .

L’ultima invocazione dell’Ave verum evoca la persona della madre: “O Iesu fili Mariae”. Due volte viene ricordata, nel breve inno, la Vergine: all’inizio e alla fine. Del resto tutte le esclamazioni finali dell’inno sono una reminiscenza delle ultime parole della Salve Regina: “O clemens, o pia, o dulcis virgo Maria”: O clemente, o pia, o dolce vergine Maria.

L’insistenza sul legame tra Maria e l’Eucaristia non risponde a un bisogno solo devozionale, ma anche teologico. La nascita da Maria era stata, al tempo dei Padri, l’argomento principale contro il docetismo che negava la realtà del corpo di Cristo. Coerentemente, questa stessa nascita attesta ora la verità e realtà del corpo di Cristo presente nell’Eucaristia.

Giovanni Paolo II conclude la sua lettera apostolica Mane nobiscum Domine, rifacendosi proprio alle parole dell’inno: “Il Pane eucaristico che riceviamo, scrive, è la carne immacolata del Figlio: ‘Ave verum corpus natum de Maria Virgine. In questo anno di grazia, sostenuta da Maria, la Chiesa trovi nuovo slancio per la sua missione e riconosca sempre più nell’Eucaristia la fonte e il vertice di tutta la sua vita” .

Cogliamo l’occasione di queste sue parole per far giungere al Santo Padre il ringraziamento per il dono dell’anno eucaristico e l’augurio di rimettersi presto in salute. Torni presto, Santo Padre, la Pasqua è tanto meno “Pasqua” senza di lei.

Concludiamo tornando al nostro inno. Il segno più chiaro dell’unità tra Eucaristia e mistero della croce, tra l’anno eucaristico e il Venerdì Santo, è che noi possiamo ora usare le parole dell’Ave verum, senza cambiarne una sillaba, per salutare il Cristo che tra poco verrà elevato sulla croce davanti a noi. Umilmente, perciò, invito tutti i presenti (quelli che non conoscono il testo latino lo possono trovare a pagina…del libretto che hanno in mano) a unirsi a me e - possibilmente in piedi - proclamare ad alta voce, con commossa gratitudine e in nome di tutti gli uomini redenti da Cristo:

Ave verum corpus natum de Maria Virgine
Vere passum, immolatum in cruce pro homine
Cuius latus perforatum fluxit aqua et sanguine
Esto nobis praegustatum mortis in examine
O Iesu dulcis, o Iesu pie, o Iesu fili Mariae !


Vincitore perché vittima


2004-04-09- Venerdì Santo-Basilica di S. Pietro



Riflettiamo sul canto del Servo di Jahvé ascoltato nella prima lettura, alla luce della storia della Passione or ora proclamata. Il brano si apre con un prologo celeste in cui è Dio che parla; segue il monologo di una folla che, come fa il coro nella tragedia greca, riflette sui fatti e ne trae le proprie conclusioni; termina con Dio che riprende la parola per emettere il suo verdetto finale.

La vicenda è tale che non può essere compresa rettamente se non partendo dal suo epilogo; per questo Dio ne anticipa fin dall’inizio l’esito finale: “Il mio servo avrà successo; sarà onorato, esaltato e molto innalzato”. Si accenna a qualcosa di mai accaduto prima, a popoli che si meravigliano, a re che si chiudono la bocca: l’orizzonte si dilata a una assolutezza e universalità che nessuna narrazione storica, neppure quella dei vangeli, sarebbe in grado di raggiungere, determinata com’è dal tempo e dallo spazio. È la forza propria della profezia che ce la rende cara e indispensabile anche dopo che ne conosciamo l’inveramento.

Prende ora la parola la folla. Dapprima, quasi a scusare la propria cecità, essa descrive l’irriconoscibilità del servo. “Non aveva splendore né bellezza: come potevamo riconoscere “la mano di Dio” in ciò che vedevamo?

Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Ma ecco il ripensamento, la
“rivelazione”, l’atto di fede nel suo “stato nascente”:

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci
dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Per comprendere quello che avviene in questo momento nella folla, ripensiamo a ciò che accadde quando la profezia divenne realtà. Per un po’ di tempo, in seguito alla morte di Cristo, l’unica certezza su di lui era che era morto e morto in croce; che era “il maledetto da Dio”, perché era scritto nella Legge: “Maledetto chi pende dal legno” (cf. Dt 21, 23; Gal 3, 13). Venne lo Spirito Santo, “convinse il mondo di peccato” ed ecco che sboccia la fede pasquale della Chiesa: “Cristo è morto per i nostri peccati!” (cf. Rom 4, 25); “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1 Pt 2, 24).

Nessuno può essere messo dalla parte del Servo; da una parte c’è lui, dall’altra tutti gli altri.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti.
Il profeta stesso che scrive si mette dentro
quel “noi”.

Non si può pensare che egli parli di sé o di qualche personaggio del passato, senza ridurre tutto il carme a un insieme di pietose esagerazioni. E come credere che il Servo sia una collettività e un popolo, se è proprio per i peccati del “suo” popolo che egli è percosso a morte (Is 53, 8)? L’apostolo Paolo toglierà ogni dubbio al riguardo: “Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato… Non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rom 3,9.22-23).

Riprende ora la parola Dio:

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo
giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.

La cosa più sorprendente di tutto il carme non è che il Servo se ne stia come agnello mansueto e non invochi giustizia e vendetta da Dio, come, in analoghe circostanze, avevano fatto Giobbe, Geremia e diversi salmisti. La novità più grande è che neppure Dio intende vendicare il Servo e fargli giustizia. Meglio, che la giustizia che egli rende al Servo non consiste nel castigare i persecutori, ma nel salvarli, nel renderli giusti! “Il giusto mio servo giustificherà molti”.

Questo è ciò che l’Apostolo Paolo vede realizzato in Cristo e proclama trionfalmente nella Lettera ai Romani: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione” (Rom 3, 24-25).

La “cosa inaudita” è accaduta. Le folle che si meravigliano e si convertono, i re che si chiudono la bocca: tutto questo è da venti secoli sotto gli occhi di tutti. Miliardi di esseri umani hanno detto senza esitazione di Cristo - e lo dico anch’io questa sera -: “E lui la mia salvezza!” “Dalle sue piaghe sono stato guarito!”

Rimane, è vero, un’ombra oscura sull’agire di Dio nella vicenda del Servo: “Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori”. Noi inorridiamo al pensiero di un Dio che “si compiace” di far soffrire il proprio Figlio e, in genere, qualsiasi creatura. Ma, ci domandiamo, gli è “piaciuto” davvero? Che cosa, precisamente, gli è piaciuto? Non gli è piaciuto il mezzo, ma il fine! Non la sofferenza del Servo, ma la salvezza di molti. “Non mors placuit sed voluntas sponte morientis”, spiega san Bernardo[1] ; non gli è piaciuta la morte del Figlio, ma la sua volontà di morire spontaneamente per la salvezza del mondo.

Ciò che a Dio è piaciuto veramente e ha fatto con somma gioia e quello che segue nel testo:

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori.

La passione di Cristo, descritta profeticamente dal Deutero-Isaia e storicamente dai vangeli ha un messaggio speciale per i tempi che stiamo vivendo. Il messaggio è: No alla violenza! Il Servo “non ha commesso violenza”, eppure su di lui si è concentrata tutta la violenza del mondo: è stato percosso, trafitto, maltrattato, schiacciato, condannato, tolto di mezzo e infine gettato in una fossa comune (“gli si diede sepoltura tra gli empi”). In tutto ciò non aprì bocca, si comportò come agnello mansueto condotto al macello, non minacciò vendetta, offrì se stesso in espiazione e “intercedette” per coloro che lo uccidevano, dicendo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). (Così sappiamo che i crocifissori di Cristo si sono salvati e sono anch’essi con lui in paradiso, almeno quelli che agivano veramente per ignoranza, perché il Padre che lo ascoltava sempre non può aver lasciato cadere nel vuoto questa sua ultima preghiera!).

Così Cristo ha vinto la violenza; l’ha vinta non opponendo ad essa una violenza più grande, ma subendola e mettendone a nudo tutta l’ingiustizia e l’inutilità. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che S. Agostino ha racchiuso in tre parole: “Victor quia victima”: vincitore perché vittima[2] .

Il problema della violenza ci assilla, ci scandalizza, oggi che essa ha inventato forme nuove e spaventose di crudeltà e di ottusità e ha invaso perfino i campi che dovevano essere un rimedio contro la violenza: lo sport, l’arte, l’amore. Noi cristiani reagiamo inorriditi all’idea che si possa far violenza e uccidere in nome di Dio. Qualcuno però obbietta: ma la Bibbia non è anch’essa piena di storie di violenza? Non è Dio chiamato “il Dio degli eserciti”? Non è attribuito a lui l’ordine di votare allo sterminio intere città? Non è lui che prescrive, nella Legge mosaica, numerosi casi di pena di morte?

Se avessero rivolto a Gesù, durante la sua vita, la stessa obiezione, egli avrebbe sicuramente risposto ciò che rispose a proposito del divorzio: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19, 8). Anche a proposito della violenza, “al principio non era così”. Il primo capitolo della Genesi ci presenta un mondo dove non è neppure pensabile la violenza, né degli esseri umani tra di loro, né tra gli uomini e gli animali. Neppure per vendicare la morte di Abele è lecito uccidere (cf. Gen 4,15).

Il genuino pensiero di Dio è espresso dal comandamento “Non uccidere”, più che dalle eccezioni fatte ad esso nella Legge, che sono concessioni fatte alla “durezza del cuore” e dei costumi degli uomini. La violenza fa parte ormai della vita, e la Bibbia che riflette la vita cerca almeno, con la sua legislazione e la stessa pena di morte, di incanalare e arginare la violenza perché non degeneri in arbitrio personale e non ci si sbrani a vicenda[3] .

Paolo parla di un tempo caratterizzato dalla “tolleranza” di Dio (Rom 3, 25). Dio tollera la violenza, come tollera la poligamia, il divorzio e altre cose, ma viene educando il popolo verso un tempo in cui il suo piano originario verrà “ricapitolato” e rimesso in onore, come per una nuova creazione. Questo tempo arriva con Gesù che, sul monte, proclama: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra…Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori (Mt 5, 38-39; 43-44).

Cristo pronuncia un definitivo e perentorio “No” alla violenza, opponendo ad essa non semplicemente la non-violenza, ma, di più, il perdono, la mitezza, la dolcezza: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29). Il vero discorso della montagna, però, non è quello che egli pronunciò un giorno su una collina della Galilea; è quello che pronuncia ora sul monte Calvario, silenziosamente, coi fatti.

Se ci sarà ancora violenza, essa non potrà più, neppure remotamente, richiamarsi a Dio e ammantarsi della sua autorità. Farlo significa far regredire l’idea di Dio a stadi primitivi e grossolani, superati dalla coscienza religiosa e civile dell’umanità.

Non si potrà neppure giustificare la violenza in nome del progresso. “La violenza –ha detto qualcuno- è la levatrice della storia” (Marx e Engels). In parte ciò è vero. È vero che ordini sociali nuovi e più giusti sono risultati a volte da rivoluzioni e guerre, come è vero anche il contrario: che ingiustizie e mali peggiori sono risultati da esse.

Ma proprio ciò rivela lo stato di disordine in cui versa il mondo: il fatto che sia necessario ricorrere alla violenza per raddrizzare il male, che non si possa ottenere il bene altrimenti che facendo il male. Anche quelli che un tempo erano convinti che la violenza è la levatrice della storia hanno cambiato parere e oggi sfilano in corteo inneggiando alla pace. La violenza è levatrice solo di altra violenza.

Riflettendo sugli eventi che nel 1989 portarono alla caduta dei regimi totalitari dell’Est europeo senza spargimento di sangue, nell’enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II, vi vedeva il risultato dell’azione di uomini e donne che avevano saputo rendere testimonianza alla verità senza ricorrere alla violenza. Egli concludeva formulando un auspicio che, a distanza di quindici anni, risuona oggi più urgente che mai: “Possano gli uomini imparare a lottare per la giustizia senza violenza”[4] . Questo auspicio vogliamo ora trasformare in preghiera:

“Signore Gesù Cristo, non ti chiediamo di annientare i violenti e quelli che si esaltano nell’incutere terrore, ma di cambiare il loro cuore e convertirli. Aiutaci a dire con te: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Spezza questa frenesia di morte e la catena di violenza e di vendetta che tiene il mondo col fiato sospeso. Tu hai creato la terra nell’armonia e nella pace; che essa cessi di essere “l’aiuola che ci fa tanto feroci”.

Nel mondo ci sono innumerevoli esseri umani che, come te nella Passione, “non hanno apparenza né bellezza, disprezzati e reietti, uomini e donne che ben conoscono il patire”: insegnaci a non coprirci il volto dinanzi ad essi, a non sfuggirli, ma a farci carico del loro dolore e della loro solitudine.

Maria, “soffrendo col Figlio tuo morente sulla croce, tu hai cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità”[5] : ispira agli uomini e alle donne del nostro tempo pensieri di pace, di dolcezza. E di perdono. Così sia.


[1] Bernardo di Chiaravalle, De errore Abelardi, 8, 21 (PL 182, 1070).

[2] S. Agostino, Confessioni, X,43.

[3] Cf. R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, II, L’Ecriture judéo-chrétienne, Paris 1981.

[4] Giovanni Paolo II, Centesimus annus, III, 23.

[5] Lumen gentium, 61.



Egli è la nostra pace


2003-04-18- Predica del Venerdì Santo - Basilica di S. Pietro



“Immagina che non esiste paradiso, / è facile se provi./ Nessun inferno sotto di noi, / nient’altro che il cielo su di noi.

Immagina tutta la gente / vivere per l’oggi, / immagina non ci sono patrie. /Non è difficile, vedrai. / Nulla per cui uccidere o morire / e nessuna religione più. (Imagine all the people / living for today./ Imagine there’s no countries / it isn’t hard to do./ Nothing to kill or die for /and no religion too).

Immagina tutta la gente / vivere la vita in pace. / Ti sembro un sognatore? /Non sono il solo. / Spero che un giorno ti unirai a noi / e il mondo sarà una cosa sola. (Imagine all the people / living life in peace. / You may say I’m a dreamer / But I’m not the only one./ I hope someday you’ll join us / and the world will live as one)” .

Mi pare sia di Platone la massima: “Agli anziani sono maestri i filosofi, ai giovani i poeti”. Oggi, a dire il vero, maestri dei giovani non sono più neppure i poeti, ma i cantautori; non la poesia, ma la musica. Vi sono milioni di giovani la cui visione della vita è ricalcata su quella del cantautore (se non addirittura del canto) preferito.

Nelle settimane agitate che abbiamo vissuto, quella canzone, scritta da uno dei grandi idoli della musica leggera moderna, su una melodia suadente, è risuonata con frequenza nei cortei e nei programmi radiofonici, come una specie di manifesto pacifista. Non possiamo lasciarla senza una risposta. Gesù, una volta, prese lo spunto per un suo insegnamento da quello che cantavano i ragazzi del suo tempo nelle piazze: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto” (Mt 11,16-17). Dobbiamo seguirne l’esempio.

La prima domanda che ci poniamo è questa: Perché sforzarsi di ”immaginare” qualcosa che abbiamo avuto sotto gli occhi fino a ieri? Un mondo senza paradiso e inferno, senza religione, senza patrie, with no possessions, senza proprietà privata, dove si insegnava alla gente a vivere solo “per quaggiù”: non è esattamente la società che si erano proposto di realizzare i regimi totalitari comunisti? Il sogno dunque non è nuovo, ma il risveglio da esso non è stato allegro…

“Non più paradiso, non più inferno”: anche queste parole non è la prima volta che sono risuonate nel mondo. “Se Dio esiste l’uomo è nulla. Dio non esiste! Felicità, lacrime di gioia! Non più cielo. Non più inferno! Nient’altro che la terra”. Sono parole che un noto filosofo e scrittore metteva in bocca a un suo personaggio negli anni ruggenti dell’esistenzialismo ateo .

Lo stesso autore scrisse però anche un altro dramma, intitolato Porte chiuse. In esso si parla di tre persone -un uomo e due donne- introdotte, a brevi intervalli, in una stanza. Non ci sono finestre, la luce è al massimo e non c’è possibilità di spegnerla, fa un caldo soffocante, e non c’è nulla all’infuori di un canapè. La porta è chiusa, il campanello c’è, ma non dà suono. Di chi si tratta? Sono tre persone appena morte, e il luogo dove si trovano è l’inferno.

Dopo che, a forza di frugare uno nella vita dell’altro, le loro anime sono diventate nude davanti a tutti e le colpe di cui più ci si vergogna sono venute a galla e sfruttate dagli altri senza pietà, uno dei personaggi dice agli altri due: “Ricordate: lo zolfo, le fiamme, la graticola Tutte sciocchezze. Non c’è nessun bisogno di graticole: l’inferno sono gli Altri” . Per questa via, l’inferno non viene dunque abolito; è solo trasferito sulla terra.

Ma il canto che ho ricordato, a parte i suggerimenti sbagliati per realizzarlo, contiene un anelito giusto e santo che non si può lasciar cadere nel vuoto. Ascoltiamo un’altra “canzone” sulla pace e l’unità, scritta molto tempo prima:

“Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2, 14-18).

Anche qui viene presentato un mondo in cui si vive “in pace”, come fosse “una cosa sola”; ma la via per realizzarlo è assai diversa. “Ha fatto la pace, distruggendo in se stesso l’inimicizia”. Distruggendo l’inimicizia, non il nemico; distruggendola in se stesso, non negli altri!

In quello stesso tempo un altro grande uomo proclamava al mondo l’avvenuta pace. In Asia Minore è stata ritrovata, tra le pietre di una moschea, copia del famoso “Indice delle proprie imprese” dell’imperatore Augusto. In esso egli celebra la pax Romana da lui stabilita nel mondo, definendola parta victoriis pax, una pace ottenuta mediante vittorie militari .

Gesù non entra nel merito di questa pace, ma rivela che ne esiste un’altra di genere diverso. Dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). Anche la sua è una “pace frutto di vittorie”. Ma vittorie su se stessi, non sugli altri, vittorie spirituali, non militari. “Ha vinto il leone della tribù di Giuda”, vicit leo de tribu Juda, esclama l’Apocalisse (5, 5), ma S. Agostino spiega: “Victor quia victima”, vincitore perché vittima . Gesù ci ha insegnato che non c’è nulla per cui uccidere, ma che c’è qualcosa per cui morire.

La via alla pace del Vangelo non ha senso solo nell’ambito della fede; vale anche nell’ambito politico, per la società. È l’attuale assetto del mondo a esigere che si cambi il metodo di Augusto con quello di Cristo. Non è più accettata dalla coscienza moderna la vocazione che Virgilio additava ai suoi concittadini: “Tu regere imperio populos, Romane, memento” : “il tuo compito, ricordati, Roma, è esercitare l’impero dei popoli”. Ogni popolo rivendica il proprio diritto ad autogovernarsi.

Oggi vediamo chiaramente che l’unica via alla pace è di distruggere l’inimicizia, non il nemico (distruggeremo metà della popolazione del mondo, scontenta del suo assetto? e come individuare il nemico nel terrorismo?). Senza contare che si applica anche ai nemici ciò che Tertulliano diceva del sangue dei cristiani: “Semen est sanguis christianorum”: anche il sangue dei nemici, purtroppo, è seme di altri nemici.

Qualcuno rimproverò un giorno Abramo Lincoln di essere troppo cortese con i propri nemici e gli ricordò che il suo dovere di presidente era piuttosto di distruggerli. Al che egli rispose: “Non distruggo forse i miei nemici quando me li faccio amici?”.

Troverà, il grande presidente degli Stati Uniti, qualcuno che raccolga questa formidabile sfida? I nemici si distruggono con le armi, l’inimicizia con il dialogo. Prima di additarlo alle nazioni, la Chiesa, guidata dal papa, si sta sforzando di realizzare questo programma nel rapporto tra le varie religioni.


Ma non abbiamo raccolto che metà del messaggio cristiano sulla pace. Uno slogan oggi assai di moda dice: “Think globally, act locally”: pensa globalmente, agisci localmente. Esso vale soprattutto per la pace. La pace non si fa come la guerra. Per fare la guerra, occorrono lunghi preparativi: formare grossi eserciti, predisporre strategie, sancire alleanze e poi muovere compatti all’attacco. Guai a chi volesse cominciare per primo, da solo e alla spicciolata: sarebbe votato a sicura disfatta.

La pace si fa esattamente al contrario: alla spicciolata, cominciando subito, per primi, anche uno solo, anche con una semplice stretta di mano. Miliardi di gocce d’acqua sporca non faranno mai un oceano pulito. Miliardi di uomini senza pace nel cuore - e di famiglie senza pace al loro interno - non faranno mai un’umanità in pace. Uno dei messaggi di Giovanni Paolo II per la giornata della pace, quello del 1984, portava come titolo: “La pace nasce da un cuore nuovo”.

Che senso ha sfilare in corteo per le strade gridando “Pace!”, se si alza il pugno minaccioso e si sfondano vetrine? Si può essere dei “pacifisti a mano armata”? Anche esporre il drappo della pace fuori della propria finestra che senso avrebbe, se dentro casa si alza la voce, si impone tirannicamente la propria volontà ed si erigono muri di ostilità o di silenzio? Non sarebbe meglio, in questo caso, ritirare il drappo ed appenderlo dentro casa?

Ma anche noi che siamo qui riuniti dobbiamo fare qualcosa per essere degni di parlare di pace. Gesù è venuto ad annunciare “pace ai lontani e pace ai vicini”. La pace con “i vicini” è spesso più difficile che non la pace con “i lontani”…Gesù ha detto: “Se presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5, 23-24).

Fra poco noi ci accosteremo a baciare il Crocifisso. Se non vogliamo che dall’alto della sua croce Gesù debba ripeterci: “Vai prima a riconciliarti con il tuo fratello!”, il nostro deve essere un bacio dato non solo a Lui che è il capo, ma anche alle membra del suo corpo, specialmente quelle che tendiamo a rifiutare.

Un tempo, al termine della Quaresima o di Missioni popolari, si facevano i falò delle vanità. In un rogo acceso al centro della piazza principale della città, ognuno gettava gli strumenti del vizio o gli oggetti di superstizione che aveva in casa. Essi facevano un falò delle vanità, noi facciamo un falò delle ostilità! Gettiamo tra le braccia del Crocifisso e nella fornace ardente del suo cuore ogni odio, rancore, risentimento, invidia, rivalità, ogni desiderio di farci giustizia da soli.


“Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito”. “Gli uni e gli altri” non sono più solo giudei e gentili; sono anche cristiani e musulmani, latini e greci, cattolici e protestanti, clero e laici, uomini e donne, bianchi e neri.

Ecco la risposta del Vangelo al “sogno” della canzone: “e il mondo sarà una cosa sola”, and the world will live as one. Conosciamo l’obbiezione: “Sono passati duemila anni da allora e cosa è cambiato?” Ma non ci inganniamo. Il mondo riconciliato, divenuto una cosa sola in Cristo, esiste già. È ciò che vede Dio quando guarda questo nostro tormentato pianeta, lui che abbraccia con il suo sguardo passato, presente e futuro insieme.

Vale anche per il mondo ciò che Francesco d’Assisi dice di ogni uomo: “L’uomo, ciò che è davanti a Dio, quello è, e non altro” . Il mondo, ciò che è davanti a Dio, quello è, e non altro. E agli occhi di Dio, già ora, “non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, perché tutti siamo uno in Cristo Gesù”(cf. Gal 3, 28).

Il 13 Aprile 1997, nello stadio di Sarajevo, il Santo Padre Giovanni Paolo II elevò a Dio una preghiera per la pace. Ci uniamo al suo grido accorato, non meno attuale oggi di allora, dopo che una guerra si è appena consumata e altre continuano dimenticate:

“Io, vescovo di Roma, mi inginocchio davanti a te, Signore, per gridare: Liberaci dal flagello della guerra. Venga il tuo regno; regno di giustizia, di pace, di perdono e di amore. Tu non ami la violenza e l’odio, tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano fra loro fratelli e ti riconoscano come loro padre. La tua volontà è la pace”. Sia fatta la tua volontà!


Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me


2002-03-29- Venerdì Santo - Basilica di S. Pietro




Le cronache del tempo descrivono con dovizia di particolari il momento in cui, sotto lo sguardo di Sisto V, fu innalzato l’obelisco in piazza San Pietro. Ogni anno, in questo giorno, noi cristiani riviviamo il momento in cui fu piantato al centro della Chiesa il vero obelisco, l’albero maestro della barca di Pietro che segna il centro di tutto: la croce.

Meditiamo una parola di Cristo sulla sua croce. Giovanni 12,32: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. È una chiave di lettura del mistero dataci in anticipo da Gesù stesso, o –ciò che ha uguale valore per noi- dal suo Spirito che ha ispirato l’evangelista Giovanni nello scriverla.

Ma non si è finito di pronunciare quella frase che affiora subito l’obbiezione. Sono passati venti secoli da quel giorno e non sembra, Signore, che tu abbia attirato tutti a te. Quanta parte dell’umanità non ti conosce ancora! Di qui la preghiera venata di delusione che a volte si sente fare da credenti: “Al presente non vediamo, Signore, che tu attiri tutti a te, perciò ti preghiamo di affrettare il giorno in cui attirerai davvero tutti a te”.

Ma siamo sicuri di aver guardato bene? Quello di Gesù non è stato un pio desiderio che ancora aspetta di essere realizzato. Si è sempre realizzato, dal momento che fu elevato da terra. Chi può conoscere le infinite vie che Cristo crocifisso ha di attirare tutti a sé?

Una via è la sofferenza umana. “Egli ha preso su di sé i nostri dolori”: Vere dolores nostros ipse portavit” (Is 53,4). Dopo che Cristo l’ha preso su di sé e l’ha redento, il dolore è anch’esso, a modo suo, un universale sacramento di salvezza. Universale perché non conosce neppure la distinzione tra primo e terzo mondo, tra emisfero nord e emisfero sud; lo si trova a tutte le latitudini.

Colui che si è calato nelle acque del Giordano santificandole per ogni battesimo, si è calato anche nelle acque della tribolazione e della morte, facendone potenziale strumento di salvezza. Prima lettera di Pietro 4, 1: “Chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato”. “Soffrire –ha scritto il Santo Padre nella lettera apostolica “Salvifici doloris”- significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo…In questa sofferenza redentiva, Cristo si è aperto sin dall’inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza” . Misteriosamente, ogni sofferenza -non solo quella dei credenti-, compie “quello che manca alla passione di Cristo” (Col 1, 24).

Un altro mezzo che Cristo ha di attirare tutti a sé, è di attirare… verso gli altri. Verso chi è affamato, assetato, malato, carcerato, forestiero, perseguitato per la giustizia, indifeso... “L’avete fatto a me” (Mt 25, 40). E neanche questa via è limitata ai soli credenti.

Il Concilio afferma che “lo Spirito Santo da a ogni uomo la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” . Come questo avviene, è noto solo a Dio, ma che avviene è noto anche a noi, se sappiamo leggere le parole di Cristo.



Ma arriviamo alla domanda più attuale. Possiamo ammettere che ci sia un’altra via ancora, con cui Cristo attira tutti a sé, e cioè mediante ciò che vi è di vero e di valido nelle altre religioni? Il concilio e il magistero non hanno escluso questa possibilità che ora viene attivamente esplorata dalla teologia.

La preoccupazione del momento è di riconoscere alle altre religioni un’esistenza non solo di fatto nel piano divino di salvezza, ma anche di diritto, in modo da ritenere che siano non solo tollerate ma anche positivamente volute da Dio, come espressione della inesauribile ricchezza della sua grazia e della sua volontà “che tutti gli uomini siano salvi” (1 Tim 2, 4). Quelli che vivono a contatto diretto con le grandi religioni non cristiane testimoniano infatti il bene che da esse ricevono milioni di persone e la profonda vita spirituale e di preghiera che esse alimentano tra il popolo.

Il punto delicato è sapere se questo riconoscimento ci obbliga a sganciare le altre religioni dal Cristo incarnato e dal suo mistero pasquale. Alcuni lo pensano e mettono in rapporto gli elementi di bene e di vero in esse contenuti con il Verbo eterno e lo Spirito di Dio. Come persone della Trinità - essi affermano - questi operavano nel mondo prima della venuta di Cristo e continuano a operare anche dopo la sua risurrezione; non in dipendenza dal mistero di Cristo, ma parallelamente ad esso, in un rapporto di complementarietà, non di subordinazione. ?Ma ci dobbiamo porre la domanda: per riconoscere alle altre religioni una dignità propria e un’esistenza di diritto nel piano divino di salvezza, è proprio necessario svincolarle dal mistero pasquale di Cristo, o si può invece ottenere lo stesso risultato mantenendole in rapporto con esso? (Teniamo presente che il legame con il Cristo della croce non annulla il legame con il Verbo eterno. Le due cose si sommano, non si elidono a vicenda, né fuori né dentro la Chiesa. Anche per i cristiani, Cristo è “la via”, mentre il Verbo è “la verità e la vita”, cioè la meta).?“Un evento particolare –si fa presente-, limitato nel tempo e nello spazio, come è Cristo, non può esaurire le infinite potenzialità di Dio e del suo Verbo”. È vero, ma può realizzare, di tali potenzialità, quanto basta per la salvezza di un mondo che è anch’esso finito! Se crediamo che il sangue versato sulla croce è il sangue di un Dio fatto uomo, non troviamo esagerata l’affermazione che “una sola stilla di esso può salvare il mondo intero”, cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere.



Pensiamoci bene, dunque, prima di compiere un passo di così incalcolabile portata. Il filosofo che nel secolo scorso proclamò: “Dio è morto. Noi l’abbiamo ucciso!”, quasi rendendosi conto delle conseguenze di questo fatto, scrisse subito dopo: “Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? In che direzione si muove adesso? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all’indietro, di lato, in avanti, da ogni parte?” . Evitiamo di ripetere lo stesso errore, svincolando gran parte dell’umanità dal suo sole che è Cristo.

Durante la controversia giansenista andavano di moda i crocifissi dalle braccia strette, quasi parallele al corpo, che creavano tra loro uno spazio molto limitato. Era per affermare che Cristo non era morto per tutti, ma solo per il piccolo numero degli eletti e dei predestinati. Terribile persuasione che la Chiesa ha faticosamente rigettato. Non torniamo ai crocifissi dalle braccia strette. Conserviamogliele allargate, ad abbracciare tutto il mondo. Conserviamo all’evento del Calvario la sua dimensione cosmica. Quello che si celebrò sul Golgota il primo venerdì santo, e che celebriamo ogni anno in questo giorno, è davvero una “Messa sul mondo”.
Una cosa è certa e da essa deve partire ogni teologia cristiana delle religioni: Cristo ha dato la sua vita per amore di tutti gli uomini, perché tutti sono creature del Padre suo e suoi fratelli. Non ha fatto distinzioni. La sua offerta di salvezza, essa almeno, è sicuro che è universale.
Il torto più grande, a sottrargli tanta parte dell’umanità, non lo si fa a Cristo o alla Chiesa, ma a quell’umanità stessa. Non è possibile partire dall’affermazione che “Cristo è la suprema, definitiva e normativa proposta di salvezza fatta da Dio al mondo”, senza con ciò stesso riconoscere –come cristiani- un’esigenza, un diritto di tutti di appartenere, in qualche modo, a questa via e di beneficiare di questa salvezza.

Come si possono sganciare del tutto da Cristo le altre vie di salvezza, senza con ciò stesso ridurle a vie preparatorie e di seconda serie? Allora sì che Dio farebbe accezione di persone e non offrirebbe a tutti “pari opportunità”! È forse più facile, del resto, per le altre religioni, riconoscere la superiorità del cristianesimo, che la sua unicità? È forse più accettabile per esse farle dipendere dal Verbo eterno e dallo Spirito Santo dei cristiani, cioè dalla Trinità (concetto ad essi tanto estraneo), che farle dipendere dal Cristo e dal suo mistero pasquale?



“Ma è realistico –qualcuno si chiede - continuare a credere in una misteriosa presenza e influenza di Cristo in religioni che esistono da ben prima di lui e che non sentono alcun bisogno, dopo venti secoli, di accogliere il suo vangelo”. C’è, nella Bibbia, un dato che può aiutarci a dare una risposta a questa obbiezione: l’umiltà di Dio, il nascondimento di Dio. “Tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele salvatore”: Vere tu es Deus absconditus (Is 45,15, Volgata).

Dio è umile nel creare. Non mette la sua etichetta su tutto, come fanno gli uomini. Nelle creature non sta scritto che sono fatte da Dio. È lasciato ad esse di scoprirlo. C’è del vero nell’affermazione del poeta Hölderlin: “Dio crea il mondo, come l’oceano fa i continenti: ritirandosi”. Quanto tempo ci è voluto perché l’uomo riconoscesse a chi doveva l’essere, chi aveva creato per lui il cielo e la terra? Quanto ce ne vorrà ancora prima che tutti arrivino a riconoscerlo? Cessa, per questo, Dio di essere lui il creatore di tutto? Cessa di riscaldare con il suo sole chi lo conosce e chi non lo conosce?

Avviene lo stesso nella redenzione. Dio è umile nel creare ed è umile nel salvare. Cristo è più preoccupato che tutti gli uomini siano salvi, che non che sappiano chi è il loro Salvatore. Latens deitas, divinità che si nasconde, è Cristo anche nell’Eucaristia . Lo stupore più grande, al momento di passare dalla fede alla visione, non sarà di scoprire l’onnipotenza di Dio, ma la sua umiltà.



In questo giorno del massimo occultamento di sé di Dio sulla croce, “manteniamo, dunque, ferma la professione della nostra fede”, come ci ha esortato la seconda lettura: teneamus confessionem (Eb 4, 14). Torniamo a proclamare con Giovanni: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,2).

Dopo avere, nei primi tre capitoli della lettera ai Romani, descritto la situazione disperata di Giudei e Greci (cioè di tutta l’umanità) in preda al peccato e all’ira di Dio, al capitolo terzo san Paolo ha il coraggio inaudito di affermare che questa situazione è ora radicalmente cambiata a causa di un singolo uomo che “Dio ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo del suo sangue” (Rom 3, 25). Perché l’Apostolo chiama Cristo “Nuovo Adamo” (Rom 5, 12-19) e Luca sposta l’inizio della sua genealogia da Abramo ad Adamo (Lc 3, 38), se non per affermare che egli non è il capostipite nuovo di questo o quel popolo, ma di tutta l’umanità?

“Uno è morto per tutti" (2 Cor 5, 14); “Per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rom 5,19). Il coraggio che occorre a noi oggi per credere nella universalità della redenzione di Cristo è nulla in confronto al coraggio che occorreva allora.

Un salmo dice di Sion: “Ecco, Filistea, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati... Il Signore scriverà nel libro dei popoli: ‘Là costui è nato’” (Sal 86, 4-6). Tutto questo si è realizzato nell’evento del Calvario: tutti là siamo nati. Di qui il respiro universale che caratterizza i riti del Venerdì Santo. Nella “preghiera universale” pregheremo tra poco per tutti gli uomini del mondo, perché crediamo che per tutti Cristo è morto.

Resta dunque sempre vincolante il mandato di Gesù: “Andate in tutto il mondo, predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15). Rimane aperta la missione alle genti che non avrebbe più ragion d’essere, se il Vangelo non fosse destinato a tutte le genti. Dobbiamo solo passare alla motivazione negativa a quella positiva. Non basarci tanto sul pensiero che, se non arriva a conoscere Cristo, la gente non si salva, quanto sul desiderio di condividere con tutti gli uomini il dono immenso che è Cristo per il mondo.

Il pluralismo religioso non consiste nel ritenere tutte le religioni ugualmente “vere” (questo sarebbe relativismo), ma nel riconoscere a ognuno il diritto di ritenere vera la propria religione e di diffonderla, purché con mezzi pacifici, degni di una religione. “Con dolcezza e rispetto”, raccomanda ai cristiani la Prima lettera di Pietro (1 Pt 3,15). Nello spirito dei due incontri di Assisi, dell’Ottobre 1986 e del Gennaio 2002, possiamo aggiungere noi.
Quello che ci deve preoccupare di più, del resto, non è la salvezza di chi non conosce il Cristo, ma quella di chi lo conosce e vive come se non l’avesse mai conosciuto, dimentico del proprio battesimo, di Dio, di tutto. A costoro la Chiesa fa giungere oggi il suo pressante invito: “Lasciatevi riconciliare con Dio. Tra quelle braccia aperte, fratello lontano, c’è un posto anche per te”.

Concludiamo con una preghiera. Continua, Signore, ad attirare tutti a te, chi ti conosce e chi non ti conosce. Il tuo Spirito continui a mettere ogni uomo e ogni donna, nel modo che solo tu conosci, in contatto con il tuo mistero pasquale di morte e risurrezione. Ascoltaci, Signore! Ascoltaci, Signore!



Ora il principe di questo mondo è gettato fuori


2001-04-13- Venerdì Santo - Basilica di S. Pietro




L’Evangelista san Luca termina il racconto delle tentazioni di Gesù dicendo che “il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato” (Lc 4, 13). Quale fosse questo “tempo fissato”, ce lo fa capire Cristo stesso quando dice, nell’imminenza della sua passione: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12, 31).

Questa è l’interpretazione unanime che hanno dato della morte di Cristo gli autori del Nuovo Testamento. Cristo, dice la Lettera agli Ebrei, “ha ridotto all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2, 14-15).

La Passione di Cristo non si riduce, certo, alla vittoria su Satana. Il suo significato è ben più vasto e positivo; egli “doveva morire per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (cf. Gv 11, 52). Tuttavia si banalizza la passione di Cristo se le si toglie questo aspetto di vittoria sul demonio, oltre che sul peccato e sulla morte.
Questa lotta continua dopo Cristo, nel suo corpo. L’Apocalisse dice che, sconfitto da Cristo, “il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12, 17). Per questo l’apostolo Pietro raccomanda ai cristiani: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8).
?Tutto questo ha dato all'esistenza cristiana di tutti i tempi un carattere drammatico, di lotta, e di lotta “non solo contro creature fatte di carne e di sangue” (cf. Ef 6,12). Il rito del battesimo riflette tutto ciò con quella drastica “scelta di campo” che lo precede: “Rinunci a Satana? -Credi in Cristo?”.
?Nulla, allora, è cambiato con la morte di Cristo? Tutto è come prima? Al contrario! La potenza di Satana non è più libera di agire per i suoi fini. Egli crede di agire per uno scopo e ottiene esattamente il suo contrario; serve involontariamente la causa di Gesù e dei suoi santi. Egli è “quella potenza che sempre vuole il male e opera il bene” . ?Dio fa servire l'azione del demonio alla purificazione e all'umiltà dei suoi eletti. “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi” (2 Cor 12, 7). Un canto spiritual negro lo dice in tono leggero ma teologicamente perfetto: “Il vecchio Satana è matto, è cattivo. Ha sparato un colpo per uccidere la mia anima. Ma ha sbagliato mira e ha colpito il mio peccato”.


Ma ora tutto questo è finito. Il silenzio è calato su Satana; la lotta è diventata solo contro “la carne e il sangue”, cioè contro mali alla portata dell'uomo. L'inventore della demitizzazione ha scritto: “Non si può usare la luce elettrica e la radio, non si può ricorrere in caso di malattia a mezzi medici e clinici e al tempo stesso credere al mondo degli spiriti” . Nessuno è stato mai così contento di essere demitizzato come il demonio, se è vero - come è stato detto - che “la sua più grande astuzia è far credere che egli non esiste” .
?L'uomo moderno manifesta una vera e propria allergia a sentir parlare di questo argomento. Si è finito per accettare una spiegazione tranquillizzante. Il demonio? È la somma del male morale umano, è una personificazione simbolica, un mito, uno spauracchio, è l'inconscio collettivo o l'alienazione collettiva.
?Quando Paolo VI osò ricordare ai cristiani la “verità cattolica” che il demonio esiste (“Il male –disse in un’occasione- non è soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa” ), una parte della cultura reagì stracciandosi le vesti scandalizzata.
?Lo stesso si è ripetuto di recente, quando un vescovo ha richiamato l’attenzione su questo punto della fede cristiana. “Abbiamo dimenticato che in passato ci si è serviti del demonio per perseguitare streghe, eretici e altra gente simile?”. No, non lo abbiamo dimenticato; ma, per questi e altri scopi simili, ci si è serviti –e purtroppo ci si serve - di Dio ancor più che del demonio. Aboliamo anche Dio?
?Perfino molti credenti e alcuni teologi si lasciano intimidire: “Sì, ma potrebbe, effettivamente, bastare l'ipotesi simbolica, la spiegazione mitica o quella psicanalitica ...”. Qualcuno pensa che la Chiesa stessa stia rinunciando a questa credenza, dal momento che ne parla sempre meno.
?Ma qual è il risultato di questo silenzio? Un cosa stranissima. Satana, scacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra; scacciato dalla fede è rientrato dalla superstizione. Il mondo moderno, tecnologico e industrializzato, pullula di maghi, di spiritisti, di dicitori di oroscopi, di venditori di fatture e di amuleti e di sètte sataniche vere e proprie.
?La nostra situazione non è molto diversa da quella dei secoli XIV-XVI, tristemente famosi per l’importanza accordata in essi ai fenomeni diabolici. Non ci sono più roghi di indemoniati, caccia alle streghe e cose simili; ma le pratiche che hanno al centro il demonio, come pure le vittime fisiche o morali di tali pratiche, non sono meno numerose di allora, e non solo tra i ceti poveri e popolari. È divenuto un fenomeno sociale -e commerciale!- di ingenti proporzioni.
?Un settimanale americano a diffusione mondiale ha dedicato qualche tempo fa tutto un servizio alla credenza del demonio ai giorni nostri. Mi colpì la conclusione tirata da uno degli intellettuali intervistati. L’oblio del demonio, diceva, non ha reso più serena e razionale la vita degli uomini sul pianeta, ma al contrario ci ha reso più ottusi e assuefatti di fronte agli orrori del male. Niente ci fa più rabbrividire.



Quelli che negano l’esistenza del demonio, una scusa, a dir vero, ce l’hanno. Quello che conoscono al riguardo -casi di possessione diabolica, storie e film di esorcismi- ha quasi sempre una spiegazione patologica, facilmente riconoscibile. Se c’è un appunto che si può loro muovere è di fermarsi qui, di ignorare tutto un altro livello in cui la spiegazione patologica non basta più.
?Si ripete l’equivoco in cui è caduto Freud e tanti dopo di lui: a forza di occuparsi di casi di nevrosi religiosa (perché per questo si ricorreva a lui) egli finì per credere che la religione in sé non è che una nevrosi. Come se uno volesse stabilire il livello di sanità mentale di una città, dopo aver visitato il locale manicomio!
?La prova più forte dell’esistenza di Satana non si ha nei peccatori o negli ossessi, ma nei santi. È vero che il demonio è presente e operante in certe forme estreme e “disumane” di male, sia individuale che collettivo, ma qui egli è di casa e può celarsi dietro mille sosia e controfigure. Avviene come con certi insetti, la cui tattica consiste nel mimetizzarsi, posandosi su un fondo del loro stesso colore.
?Al contrario, nella vita dei santi egli è costretto a venire allo scoperto, a mettersi “contro luce”; la sua azione si staglia nero su bianco. Nel vangelo stesso la prova più convincente dell’esistenza dei demoni non si ha nelle storie di liberazione di ossessi (a volte è difficile distinguere in esse la parte che svolgono le credenze del tempo sull’origine di certe malattie), ma si ha nell’episodio delle tentazioni di Gesù.
?Chi più chi meno, tutti i santi e i grandi credenti (alcuni dei quali, come san Giovanni della Croce, intellettuali di prim’ordine), testimoniano della loro lotta con questa oscura realtà. San Francesco d’Assisi un giorno confidò a un suo intimo compagno: “Se sapessero i frati quante e che gravi tribolazioni e afflizioni mi danno i demoni, non ci sarebbe alcuno di loro che non si muoverebbe a compassione e pietà di me” .
?Il Francesco che compone il sereno Cantico delle creature è lo stesso che lotta con i demoni; Caterina da Siena che incide nella storia anche politica del suo tempo, è la stessa che il confessore dichiara “martirizzata” dai demoni ; il Padre Pio che progetta la Casa sollievo della sofferenza è lo stesso che di notte sostiene lotte furibonde con i demoni. Non si può vivisezionare la loro personalità e prenderne solo una parte. Non lo permette l’onestà e neppure una sana psicologia. Questa gente non ha lottato contro i mulini a vento! Quello che san Giovanni della Croce dice, descrivendo la notte oscura dello spirito, non è campato in aria.
?Si ripete la vicenda di Giobbe (cf. Gb 1, 6 ss). Dio “consegna” nelle mani di Satana i suoi amici più cari per dare ad essi l’occasione di dimostrare che non lo servono solo per i suoi benefici e per potersi “vantare” di loro di fronte al suo nemico. Gli dà potere non solo sul loro corpo, ma a volte, misteriosamente, anche sulla loro anima, o almeno su una parte di essa. Nel 1983 fu beatificata una carmelitana, Maria di Gesù Crocifisso, detta la Piccola Araba perché di origine palestinese. Nella sua vita, quando era già molto avanti nella santità, vi furono due periodi di vera e propria possessione diabolica, documentata negli atti del processo . E il caso è tutt’altro che isolato...



Perché allora, anche tra i credenti, alcuni sembrano non accorgersi di questa tremenda battaglia sotterranea in atto nella Chiesa? Perché così pochi mostrano di sentire i sinistri ruggiti del “leone” che gira cercando chi divorare? È semplice! Essi cercano il demonio nei libri, mentre al demonio non interessano i libri, ma le anime e non si incontra frequentando gli istituti universitari, le biblioteche, ma le anime.
?Un altro equivoco regna a volte tra i credenti. Ci si lascia impressionare da quello che pensano, dell’esistenza del demonio, gli uomini di cultura “laici”, come se vi fosse una base comune di dialogo con loro. Non si tiene conto che una cultura che si dichiara atea non può credere nell’esistenza del demonio; è bene, anzi, che non vi creda. Sarebbe tragico se si credesse nell’esistenza del demonio, quando non si crede nell’esistenza di Dio. Allora sì che sarebbe da disperarsi.
?Che cosa può sapere di Satana chi ha avuto a che fare sempre e solo, non con la sua realtà, ma con l’idea, le rappresentazioni e le tradizioni etnologiche su di lui? Quelli che passano in rassegna i fenomeni che la cronaca presenta come diabolici (possessione, patti con il diavolo, caccia alle streghe...), per poi concludere trionfalmente che è tutta superstizione e che il demonio non esiste, somigliano a quell’astronauta sovietico che concludeva che Dio non esiste, perché lui aveva girato in lungo e in largo per i cieli e non lo aveva incontrato da nessuna parte. In tutti e due i casi, si è cercato dalla parte sbagliata.



Detto questo, possiamo e dobbiamo anche ridimensionare il demonio. Nessuno è pronto a farlo più del credente. Satana non ha, nel cristianesimo, un'importanza pari e contraria a quella di Cristo. Dio e il demonio non sono due principi paralleli, eterni e indipendenti tra di loro, come in certe religioni dualistiche. Per la Bibbia, il demonio non è che una creatura di Dio “andata a male”; tutto ciò che esso è di positivo viene da Dio, solo che egli lo corrompe e lo svia, usandolo contro di lui. Abbiamo, con ciò, spiegato tutto? No. L’esistenza del Maligno rimane un mistero, come è quella del male in genere, ma non è l’unico mistero della vita...
?Non è neppure giusto dire che noi crediamo “nel” demonio. Noi crediamo “in” Dio e “in” Gesù Cristo, ma non crediamo “nel” demonio, se credere significa fidarsi di qualcuno e affidarsi a qualcuno. Crediamo “il” demonio, non nel demonio; egli è un oggetto e, per giunta, negativo della nostra fede, non il movente o il termine di essa. ?Non c’è da avere eccessiva paura di lui. Dopo la venuta di Cristo, dice un antico autore, “il demonio è legato, come un cane alla catena; non può mordere nessuno, se non chi, sfidando il pericolo, gli va vicino...Può latrare, può sollecitare, ma non può mordere, se non chi lo vuole. Non è infatti costringendo, ma persuadendo, che nuoce; non estorce da noi il consenso, ma lo sollecita” . ?La credenza del demonio non sminuisce la libertà umana. Bisogna solo stare attenti a non addossare su di lui la responsabilità di ogni nostro sbaglio o di ogni malanno che ci capita addosso. Vedere il demonio dappertutto non è meno fuorviante che non vederlo da nessuna parte. “Quando viene accusato, il diavolo ne gode. Addirittura, vuole che tu lo accusi, accoglie volentieri ogni tua recriminazione, se questo serve a non farti fare la tua confessione!” .

Concludiamo tornando alla nostra liturgia. Un Padre della Chiesa descrive così ciò che avvenne sul Calvario il Venerdì Santo. Immagina, dice, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno della città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, semplice spettatore; non hai combattuto, non hai faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore . ?Ricordiamoci di queste parole, quando, fra poco, sarà elevato in mezzo a noi il Crocifisso e noi ci accosteremo per baciargli i piedi.


Tutto è compiuto


2000-03-25- Venerdì Santo - Basilica di S. Pietro




Recentemente una notizia ha scosso il mondo. Un istituto privato di ricerca ha completato la mappa del genoma umano. Ha individuato tutti i frammenti di DNA che formano il bagaglio genetico di una persona, i due miliardi di lettere, chiamate geni, che compongono l’alfabeto chimico con cui è scritta la storia di ogni essere che viene al mondo.

“La scienza – è stato scritto - ha scoperto il programma di fondo della vita umana, il codice dei codici, il santo Graal, il modello base dell’Homo sapiens. Sapremo finalmente cosa vuol dire essere uomo”. E ancora: “Dopo milioni di dollari e milioni di ore di lavoro, il sipario si alza su ciò che i nostri figli, guardando indietro, designeranno come il secolo del genoma” .

La notizia è caduta su un terreno già saturo di attesa e di eccitazione per le continue novità in campo di bioetica e ha accresciuto la sensazione diffusa di trovarci a una svolta dell’evoluzione umana, sulla dirittura di arrivo di traguardi nuovi e impensabili.

In questo contesto cade, quest’anno, la celebrazione della Passione del Signore, la Pasqua del Grande Giubileo, la prima Pasqua del millennio. Da duemila anni essa si è confrontata con gli avvenimenti e le situazioni del momento; non si è mai tirata indietro. E neppure lo fa questa volta.

“Gesù –ha scritto un poeta credente- non ci ha dato parole morte, che dobbiamo chiudere in piccole scatole (o in grandi) e che dobbiamo conservare in olio rancido…Le parole vive non si possono conservare che vive…È da noi che dipende, infermi e carnali, di far vivere e di nutrire e mantenere vive nel tempo quelle parole pronunciate vive nel tempo…È a noi che appartiene, è da noi che dipende, di fare intendere nei secoli dei secoli la parola del Figlio di Dio “.

I riti e i testi del Venerdì Santo si ripetono immutabili da un anno all’altro, ma non diventeranno mai delle “scatole di conserva”, perché sono essi l’ambiente vitale che mantiene viva la parola di Dio.

Cosa ha da dire, sulla situazione appena evocata, il mistero che stiamo celebrando? Rifacciamoci alla parola ascoltata per scoprirlo. “Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E, chinato il capo, spirò” (Gv 19, 30).

“Tutto è compiuto!”. Basta questa parola per illuminare tutto il mistero del Calvario. Che cosa è compiuto? Anzitutto, la vita terrena di Gesù, l’opera che il Padre gli ha dato da compiere (cf. Gv 4,34; 5,36; 17,4). “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). “Fine” in greco suona telos: la parola che ritorna, sotto forma di verbo, nel grido di Cristo: Tetelestai, tutto è compiuto. È portata a termine la prova suprema del suo amore.

Sono compiute anche le Scritture. Quella sul Servo sofferente, sull’agnello pasquale, sull’innocente trafitto, sul nuovo tempio visto da Ezechiele, dal cui fianco sgorga un fiume di acqua viva (cf. Ez 47,1ss). Ma non è solo questo o quel punto della Scrittura che è compiuto; tutto l’Antico Testamento, in blocco, è compiuto. Non analiticamente, ma sinteticamente, nella sostanza. Morendo, l’Agnello apre il libro sigillato con sette sigilli (cf. Ap 5, 1 ss.), rivela il senso ultimo del piano di Dio. “Ecco la pagina che, voltata, illumina tutto, come quel grande foglio illustrato sul Messale, all’inizio del Canone. Eccola, sfolgorante e dipinta di rosso, la grande pagina che separa i due Testamenti. Tutte le porte si aprono insieme, tutte le opposizioni di dissipano, tutte le contraddizioni si risolvono”.

La pagina che divide i due Testamenti e anche quella che li unisce; li illumina l’uno con l’altro. Nulla è abolito, tutto è compiuto.

Nel portare a compimento le cose, Cristo opera un superamento, fa fare ad esse un salto di qualità. Avviene come nella consacrazione eucaristica: a partire da quell’istante, il pane non è più solo pane, è diventato altra cosa. Anche l’antico Patto, a partire dall’istante della morte di Cristo, è diventato la “nuova ed eterna alleanza”; la lettera è divenuta Spirito.

“All’antico è subentrato il nuovo,?alla legge la grazia,?alla figura la realtà, ?all’agnello il Figlio,?all’uomo Dio” .?
Ma non è neppure solo questo che è compiuto. Il mistero pasquale di Cristo si situa nella linea della storia d’Israele, ma la supera, la dilata a dismisura. Non compie le attese di un solo popolo, ma, attraverso queste, le attese di tutti i popoli e di ogni uomo.

Volendo essere indipendenti da Dio, gli uomini si sono imprigionati nell’odio e nella morte. Sono in una situazione nella quale l’amore del Padre non può più abitare in essi. Per raggiungerli in questa situazione, il Figlio di Dio si fa uomo. Soffre in maniera atroce e muore di morte violenta, affinché la sofferenza e la morte degli esseri umani siano anch’esse abitate, d’ora in poi, dall’amore del Padre. Tanti sono morti prima e dopo di Cristo, ma nessuno ha mai dato alla propria morte quel valore di adesione assoluta all’amore del Padre che le dato lui.
Con questa offerta di amore filiale e di sereno consenso, egli ha rovesciato il senso della morte in direzione della vera vita. Essa è un ponte, non più un baratro. Quando cade nel peccato e nella morte, l’uomo troverà ad attenderlo, anche lì, colui che lo ha creato. Si capisce l’inno intonato da Paolo all’amore vittorioso di Dio: “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcuna creatura potrà più separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8, 38-39).

Cristo ha completato un’altra “mappa”: quella del destino umano! Senza saperlo, Pilato enunciò una grande verità quando, indicando Gesù, disse: Ecce homo!, “Ecco l’uomo!
?Del destino umano, Gesù non ha esplorato solo i due abissi del peccato e della morte, ma anche quello della sconfitta, dello scacco, del fallimento. Quel Venerdì di parasceve, il Calvario somigliava a un palcoscenico sul quale ci si affretta a far calare il sipario dopo un clamoroso insuccesso. Il suono dello Shofar sta per annunciare l’inizio del riposo festivo. In fretta, sotto gli occhi della Madre, Giuseppe d’Arimatea e i suoi uomini staccano le mani di Gesù dalla trave, ungono con oli il corpo, lo avvolgono in un lenzuolo e, portandolo su una barella, scompaiono nel buio, con le donne che seguono piangendo. La collina è tornata vuota e silenziosa, come saranno questa sera gli altari delle nostre chiese.

Così si concluse la prima liturgia del Venerdì Santo. Ma da quando il più grande scacco della storia si è tramutato nella vittoria più bella, più pura, più ricordata tra gli uomini, la sconfitta stessa ha cambiato segno. Essa può essere il luogo privilegiato in cui si scopre il vero senso della vita, la vera grandezza della persona umana e soprattutto l’amore del Padre per i piccoli e i poveri. Parlando ai giovani ai piedi del Monte delle Beatitudini nel suo viaggio in Terra Santa, il Santo Padre diceva: “Gesù esalta coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori”.

Quale riscatto per l’immensa schiera dei perdenti, dei lasciati indietro, dei poveri, dei travolti dalla vita e dagli eventi; di quelli cui non è arrivata nessuna notizia sul genoma umano e, se è arrivata, li ha trovati alle prese con ben altri problemi per interessarsi di essa. Quale speranza per tutti noi, dal momento che, presto o tardi, saremo tutti della categoria dei perdenti!

Non c’è contraddizione tra le due mappe, quella degli scienziati e quella di Cristo. Esse si riferiscono a due piani diversi dello stesso edificio L’una non invalida l’altra. I credenti non possono che rallegrarsi con tutti gli uomini per ogni scoperta che promette di migliorare le condizioni di vita sulla terra. Questo è ciò che Dio intendeva quando disse: “Moltiplicatevi e dominate la terra” (cf. Gen 1,28). Dominate, plasmate il mondo e voi stessi. Io sono l’Ens a se, l’Essere che si fa da sé, e voglio che anche voi partecipiate di questa mia dignità, facendovi da voi, plasmando e perfezionando, con l’intelligenza che vi ho dato, la vostra stessa natura, nel rispetto della mia volontà e nella riverenza del mio nome. Questo significa essere “a mia immagine e somiglianza”.

E tuttavia non possiamo abbandonarci all’euforia del momento. Le scoperte recenti nel campo della vita umana si presentano ambigue e aperte a sviluppi contraddittori. Aprono possibilità nuove di conoscere la causa di molte malattie e di prevenirle; ma pongono anche degli “inquietanti interrogativi morali” che neppure i più accesi fautori della scienza si nascondono. L’uomo non rinuncerà facilmente a giocare a fare Dio e decidere lui tutto: chi deve nascere e chi no, perfino il colore dei capelli dei nascituri, per non parlare del resto. Già si verifica il caso di persone che vengono licenziate dal lavoro, o a cui non viene rinnovata l’assicurazione sulla vita, perché si è scoperto che, tra i loro geni, ce n’è uno che potrebbe sviluppare una grave malattia. E non è che una avvisaglia di quello che potrebbe accadere.

Ma ignoriamo pure le delusioni del passato, ignoriamo i pericoli del presente. Crediamo che, per una volta, l’umanità sarà abbastanza saggia da gestire bene le proprie scoperte. L’uomo conosce le cause delle sue malattie e le previene, conosce le leggi biologiche e le sfrutta a sua vantaggio... E poi? Basterà tutto ciò per essere felici? Allora perché tanti suicidi tra gente che ha già tutto questo, che è sana, bella, ricca? Che cosa potrà impedire ai due spettri della “noia” e della “nausea”, ben noti agli uomini di cultura, di aggirarsi sempre più spesso nel mondo? Gli antichi ritenevano massima stoltezza propter vitam rationes perdere vivendi, perdere, per amore della vita, le ragioni del vivere. “A che serve vivere bene, se non è dato di vivere sempre? Quid prodest bene vivere cui non datur semper vivere?” .

?Nella sua vita, morte e risurrezione Cristo ha svelato il senso ultimo della vita umana. L’ha svelato non in laboratorio, o con formule a tavolino, ma vivendolo, realizzandolo. E il senso ultimo è questo: accogliere in sé l’amore del Padre, come l’ha accolto Gesù, e far circolare questo amore nel mondo, donandolo ai fratelli.
?Padri, fratelli, sorelle: oso gridare a voi quello che ho gridato prima a me stesso. Basta con le mezze misure! Non perdiamo più tempo. Diamoci a realizzare lo scopo per cui Cristo è morto. Viviamo in modo da poter dire anche noi alla fine: “Tutto è compiuto”. Accettiamo la sofferenza. È l’unica porta per entrare dentro la croce di Cristo e non rimanerne fuori, spettatori. Tutte le altre vie -arte, teologia, ragionamento, sentimento - sono come osservare dall’oblò di un batiscafo la vita che si svolge nei fondali marini. Non è come esservi immersi dentro, farne parte…?Un’altra conclusione sgorga da tutto ciò: non possiamo rinunciare a Cristo; non possiamo relativizzare la portata della sua redenzione; non possiamo sottrargli nessuna parte dell’umanità, passata, presente o futura. Semplicemente, non abbiamo il diritto di farlo. Non possiamo smettere di annunciare il vangelo a ogni creatura. “Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!”.

Quello che si deve abbandonare non è l’annuncio della croce, ma, semmai, certi modi sbagliati del passato di farlo. Presentarci al mondo come crocifissi, non come crociati. Nessuno, anche nelle altre fedi, si sente minacciato da Gesù Cristo, quando egli viene annunciato come è stato annunciato dal papa, sotto gli occhi di tutto il mondo, nella settimana dal 20 al 26 marzo dell’Anno santo, nei luoghi della sua vita e della sua morte.

A volte non è necessario dire nulla, ma solo esserci, soffrire e amare, mostrandoci pieni di rispetto per chi ancora non riesce a credere. La forma più essenziale di evangelizzazione è permettere all’amore che Cristo è venuto a impiantare nel mondo di circolare. Coi fatti più che con le parole.

Questo vale anzitutto per gli Ebrei. Abbiamo perso il diritto di annunciare ad essi apertamente il vangelo. Non resta che permettere a Cristo di farsi strada da solo verso il cuore del suo popolo. Ma rinunciare perfino a desiderare e pregare che il popolo ebraico riconosca in Gesù di Nazareth “la gloria del suo popolo Israele” (Lc 2, 32), significherebbe non amare veramente né Gesù, né gli ebrei.

Tra i racconti brevi dello scrittore ceco Franz Kafka, ce n’è uno intitolato “Un messaggio imperiale”. Comincia così: “L’imperatore, dicono, ha mandato a te, singolarmente a te, miserabile suddito nella lontananza più remota, proprio a te l’imperatore, dal suo letto di morte, ha mandato un messaggio. Fece inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli sussurrò il messaggio nell’orecchio; tanto gli stava a cuore il contenuto, che se lo fece ripetere, a sua volta, nell’orecchio. Confermò l’esattezza con un cenno del capo e congedò il messaggero”.

Il seguito del racconto è amaro e pessimistico, come tutto ciò che è uscito dalla penna di questo scrittore. Il messaggero lotta invano per farsi strada e uscire dal castello, tanto esso è ingombro di folla e di detriti. Il racconto si chiude con il riflettore sull’anonimo destinatario che, in lontananza, “siede al davanzale della finestra e sogna di quel messaggio mentre scende la sera”. L’attesa di un messaggio è tutto quello che, alla fine, resta della storia.
Io non posso leggere questo racconto senza vedervi un simbolo potente del mistero che stiamo celebrando. Cristo è il re morente, il vangelo è il messaggio, gli apostoli sono i messaggeri, l’uomo alla finestra è l’umanità che sogna di un messaggio come quello di Gesù Cristo.

Uno di questi uomini, che da novant’anni sta a quella finestra, ha fatto sentire di recente il suo grido: “Ho sempre cercato Dio e non l’ho trovato. L’ho sempre cercato, perché credo che la fede possa dare una forza straordinaria. Ma non mi sento responsabile o colpevole del fatto che a me questa forza sia mancata. E se Dio lo trovassi gli chiederei: Perché non mi hai dato la fede?”.

Vorrei rispondere a questa persona e ai tanti che sono nella sua stessa situazione: forse Dio non ti ha dato la fede perché lo aiutassi a purificare la fede di chi doveva annunciartela e a fargli sentire la responsabilità e l’urgenza di farlo. Tu sai però quello che si sono sentiti rispondere uomini come Agostino e Pascal che avevano posto a Dio la stessa domanda: “Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato” . “Se io non ti avessi già trovato!” Desiderare senza credere può essere una fede più pura che credere senza desiderare, dando per scontato tutto.

Che giunga a questa umanità in attesa, per i canali misteriosi che solo lo Spirito conosce, il grido che abbiamo ascoltato questa sera: Tutto è compiuto. Tetelestai. Consummatum est.


Per redimere il servo hai dato il Figlio

1999-02-04- Venerdì Santo - Basilica di S. Pietro.

Questo anno che precede immediatamente il Grande giubileo del Duemila è dedicato alla persona di Dio Padre ed è di lui, perciò, che dobbiamo parlare.

Ma che rapporto c’è tra la persona del Padre e la liturgia del Venerdì Santo? Non è, il Venerdì Santo, piuttosto una prova a carico del Padre, un avvenimento da tacere quando si parla di lui? Dobbiamo ammetterlo: contro le intenzioni della liturgia, questo giorno ha contribuito talvolta in passato ad offuscare l’immagine di Dio Padre. Per accentuare i patimenti di Cristo sulla croce, si dava un’immagine del Padre che non poteva non incutere spavento. In un discorso tenuto davanti alla corte del re di Francia, il Venerdì Santo del 1662, uno dei più grandi oratori sacri della storia presenta Gesù che cerca conforto nel Padre, mentre “il Padre, sordo, lo respinge, gli torce la faccia, lasciandolo in preda al furore della sua giustizia irritata” .

La presente liturgia è l’occasione propizia per porre fine a questo stato di cose e chiarire l’equivoco che l’ha prodotto.

Fino a qualche tempo fa si usava definire lo Spirito Santo “il grande sconosciuto” tra le Persone divine. Oggi non possiamo onestamente continuare a dirlo. Nel secolo appena trascorso lo Spirito Santo si è imposto “di prepotenza” all’attenzione della Chiesa. Si è rinnovata la Pneumatologia, ma soprattutto si è rinnovata la Pentecoste, grazie all’esperienza che di lui hanno fatto centinaia di milioni di credenti di tutte le Chiese cristiane.

Oggi dobbiamo dire che il grande sconosciuto è il Padre. Più che sconosciuto: rifiutato!?Le cause dell’oscuramento della figura di Dio Padre nella cultura moderna sono molteplici. Al fondo c’è la rivendicazione di autonomia assoluta dell’uomo. E siccome Dio Padre si presenta come il principio stesso e la fonte di ogni autorità, non restava che negarlo, e così è avvenuto. “La radice dell’uomo è l’uomo stesso” . “Se Dio esiste, l’uomo è nulla” : sono alcune delle voci levatesi dal nostro mondo occidentale negli ultimi due secoli.

Freud ha pensato di poter dare una giustificazione psicologica a questo rifiuto, dicendo che il culto del padre celeste non è che una proiezione del complesso parentale che porta il bambino a idealizzare il proprio padre terreno dopo avere desiderato di ucciderlo.

Parlando dell’epoca che precedette la rivelazione evangelica, un autore del II secolo diceva: “L’ignoranza del Padre era causa di angoscia e di paura” . Succede lo stesso anche oggi: l’ignoranza del Padre è fonte di angoscia e di paura. Se il padre è, a tutti i livelli, spirituale e materiale, “la radice ultima dell’essere”, senza di lui, non possiamo che sentirci “sradicati”.

E’ urgente dunque riportare alla luce il vero volto di Dio Padre. Non occorrono, per questo, anni di lavoro, come ne sono occorsi per togliere la patina oscura che ricopriva l’immagine di del Padre nella Cappella Sistina. Basta un lampo, un’illuminazione del cuore, una rivelazione dello Spirito. Perché il vero volto di Dio Padre è lì, consegnato per sempre nella Scrittura. E’ contenuto in una parola: “Dio è amore!”. La parola “Dio”, senza altre aggiunte, nel Nuovo Testamento, significa sempre Dio Padre. Dunque Dio Padre è amore. “Così Dio ha amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unigenito”(Gv 3, 14), significa: Così Dio Padre ha amato il mondo? “Perché ci ha creati Dio?”. A questa domanda il catechismo ci insegnava a rispondere: “Per conoscerlo, servirlo e amarlo in questa vita e goderlo poi nell’altra in paradiso”. Risposta perfetta, che però, a guardare bene, risponde solo alla domanda: “per quale fine, a quale scopo ci ha creato” (per servirlo, amarlo, goderlo); non risponde alla domanda: “per quale causa ci ha creato, che cosa l’ha spinto a crearci”. A questa domanda non si deve rispondere: “perché lo amassimo”, ma: “perché ci amava”. “Hai dato origine all’universo, dice una delle Preghiere eucaristiche, per effondere il tuo amore su tutte le creature e allietarle con gli splendori della tua gloria” .

Qui sta tutta la differenza tra il Dio dei filosofi e il Dio del vangelo. Il Dio dei filosofi è un Dio che può essere amato, che deve essere amato, ma che non ama, non può amare gli uomini, si squalificherebbe se lo facesse. “Dio, scrive Aristotele, muove il mondo in quanto è amato” (non in quanto ama!). La rivelazione dice esattamente il contrario: “In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi....Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo (1 Gv 4, 10.19).

E’ questo il vero mistero del cristianesimo. Uno scrittore cristiano tra i più letti nel mondo anglosassone, Clive Staples Lewis, ha scritto un romanzo intitolato Le lettere di Berlicche (The Screwtape Letters) . Il suo intreccio è singolare. Un giovane diavolo è impegnato sulla terra a sedurre un bravo ragazzo da poco convertito. Ma inesperto com’è, si tiene in contatto con il vecchio zio, il diavolo Berlicche, che gli dà istruzioni come riuscire nel suo intento. (Un finissimo trattato sui vizi e le virtù, se letto in senso contrario). L’autore ci trasporta così nell’infermo e ci fa sentire i discorsi che si fanno laggiù. Quello che fa impazzire i demoni, che essi non capiscono e non capiranno mai, è l’amore di Dio per delle miserabili creature come gli uomini. Sulla terra, dicono, si crede che la Trinità, o altre cose del genere, siano i più grandi misteri; non capiscono, gli stolti, che è questo il vero mistero inspiegabile. E io credo che, una volta tanto, i demoni hanno ragione.

Ma è ora che raccogliamo l’obbiezione che si addensa nell’aria, come una tempesta, quando si parla dell’amore del Padre. “E il dolore del mondo? E’ questo immenso fiume di lacrime e di sangue che attraversa la storia”? Questa obbiezione ha assunto toni nuovi, dopo l’ultima guerra e dopo Auschwitz. E’ nata una letteratura che si può definire “dei processi a Dio”. Dov’era Dio allora?, quante volte è risuonata questa domanda, in romanzi e opere di teatro, in questi ultimi cinquant’anni?

La forma che la negazione di Dio ha assunto nel positivismo linguistico di questo secolo partiva da qui. Se la frase “Dio è amore”, diceva, non è messa in crisi neppure dalla costatazione del dolore atroce che c’è nel mondo, allora vuole dire che è senza senso e si deve tacere. Per ritenere vera una affermazione, bisogna che esista, almeno in linea di principio, la possibilità di “falsificarla”, cioè di dimostrare, mediante un’osservazione empirica, la sua verità o falsità. Qui essa non esiste? Ma non si tratta di proteste che si levano solo dalla filosofia e dalla letteratura, o in occasioni di grandi calamità, E’ tutta l’umanità che, da ogni angolo della terra, grida quotidianamente il suo dolore.

Leggevo recentemente la testimonianza di una giovane donna. Diceva: “Signore, perché mi hai condannato a morire? (Si era scoperta con un brutto male). Ho un marito che, dopo dieci anni di matrimonio, mi ama ancora e me lo dice; due bambini meravigliosi. Perché non posso vederli crescere?” Essendo una donna di fede, si riprendeva subito e aggiungeva frasi di altro tenore: “Lo so, Signore, che la vita e la morte non le possiamo programmare come piace a noi, che la riuscita di una vita non si misura dal numero degli anni. Ma se vuoi che tutto questo ci passi dal cervello al cuore, devi darti da fare. Da soli non ce la facciamo”.

Che ha da rispondere a tutto questo, l’imputato che è la fede? Credo che, di fronte al dolore, noi credenti dobbiamo anzitutto metterci in un atteggiamento di umiltà. Non imitare gli amici di Giobbe, che alla fine sono sconfessati da Dio stesso, di cui si erano fatti i difensori. Non sciorinare delle dotte spiegazioni, come se il dolore non racchiudesse per noi alcun mistero. Del dolore si deve dire ciò che Agostino dice di Dio stesso: “Se credi di averlo capito, non è lui ciò che hai capito” .

Gesù, che di spiegazioni da dare ne aveva più di noi, di fronte al dolore della vedova di Naim, si mise a piangere e lo stesso fece di fonte al dolore delle sorelle di Lazzaro. Dopo aver pianto, fece anche dell’altro; disse “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se morto, vivrà” (cf Gv 11, 25). ?Anche noi, dopo le lacrime, o tra le lacrime, possiamo dire alcune parole sul dolore. Che cosa? Non è vero che l’uomo soffre e Dio no, che Dio sta a guardare. Anche Dio soffre! Un’affermazione così insolita non l’abbiamo inventata ora, giusto per avere qualcosa da rispondere all’uomo d’oggi. E’ scritta a lettere cubitali nella Bibbia, dall’inizio alla fine. “Ho allevato e fatto crescere dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me” (Is 1, 2). I padri terreni che hanno fatto la tristissima esperienza di essere rinnegati e disprezzati dai figli capiscono il dolore che c’è dietro queste parole di Dio. “Popolo mio, che male ti ho fatto?”, sentiremo ripetere in questa liturgia; “in che cosa ti ho contristato? Rispondimi” (cf. Mi 6,3). Anche queste sono parole che esprimono dolore.

Dio non si affligge tanto per l’offesa recata a lui (chi potrebbe fargli veramente del male?), quanto per l’offesa che l’uomo reca a se stesso o ad altri uomini. A essere ferito non è il suo orgoglio, ma il suo amore. E’ scritto: “Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi” (Sap 1, 12-14). Non solo egli “non gode”, ma “soffre” della rovina dei viventi.

Se questa affermazione che Dio soffre ci suona nuova e ad alcuni fa anche un po’ paura, è perché per secoli l’idea di Dio con cui spesso, nella pratica, si ragionava era tornata ad essere quella filosofica del Dio impassibile che è al di sopra e al di fuori dei mutamenti e delle vicende umane.?Ma il Dio cristiano non può essere “impassibile” nel senso che lo intendono i filosofi. Non lo può perché è amore. L’amore, lo sappiamo bene, è la cosa più vulnerabile che esista al mondo. E’ vulnerabile a causa della libertà che sempre lascia all’amato”. “Non si vive in amore senza dolore”: questa massima vale per Dio, non meno che per gli uomini. “Dio Padre soffre una passione d’amore”, diceva Origene .?E’ una riscoperta, questa della sofferenza di Dio, che i maggiori teologi di questo secolo hanno accolto e che il papa stesso, nell’enciclica Dominum et vivificantem, ha fatto sua, pur con tutte le dovute sfumature. Egli parla di un “imperscrutabile e indicibile dolore di padre”, che trova nella passione redentiva di Cristo la sua manifestazione storica e il suo “inveramento”.

Certo la sofferenza di Dio non è come la nostra. E’ sommamente libera, non contraddice le altre sue perfezioni, ma le esalta. E’ “la passione dell’impassibile” , diceva un antico Padre . E’ pura “con-passione”. ?In tutta la liturgia pasquale, l’immagine del Padre più vicina a questo modello è quella dell’Exultet della notte di Pasqua: “O meravigliosa condiscendenza della tua bontà per noi! O inestimabile tenerezza di carità: per redimere il servo, hai dato il Figlio!”.

Alla domanda: “Dov’era Dio Padre sul Calvario, quando il Figlio agonizzava?”, bisogna dunque rispondere: era con lui sulla croce. La pietà popolare e l’arte hanno trovato la risposta prima della teologia. Dal medio evo ad oggi, da un estremo all’altro del mondo occidentale, questa è la rappresentazione classica della Trinità: Dio Padre che, con le braccia distese, regge la croce del Figlio, o lo accoglie in grembo con infinita tenerezza appena deposto da essa, e tra i due la colomba dello Spirito Santo. Nel mondo bizantino, la Trinità sono tre angeli intorno a una mensa, nel mondo latino sono le tre divine persone sul Calvario. Non si contano le rappresentazioni di questo tipo, dalle più semplici e popolari ai grandi capolavori, come “la Trinità” di Masaccio nell’affresco di Santa Maria Novella.


Ma, a questo punto, l’obiezione rispunta, più pericolosa, sotto altra forma. Allora, anche Dio è impotente a fronteggiare il male. Diciamo pure, nella professione di fede: “Credo in Dio Padre”; ma fermiamoci qui, non aggiungiamo “onnipotente”. Il male, non Dio, è onnipotente. Torniamo all’antica credenza pagana che, al di sopra della stessa divinità, regna il Fato, la dura Ananke, la necessità di tutte le cose. Questo è ciò che Satana cerca di far credere agli uomini, ma è una menzogna.

L’argomento spesso ripetuto dall’antichità ai nostri giorni è: “O Dio può vincere il male, ma non lo vuole, e allora non è un padre; o vuole vincerlo ma non può, e allora non è onnipotente”. Ad esso rispondiamo: Dio vuole vincere il male, può vincerlo, lo vincerà. Il male fisico e il male morale. Ma ha scelto di farlo in un modo che noi non avremmo mai immaginato. (Cerchiamo di capire bene, perché credo sia l’affermazione con cui arriviamo più vicino a quella che si potrebbe chiamare la risposta cristiana all’obiezione del male). Dio ha scelto di vincere il male, non evitandolo, oppure sbaragliandolo con la sua onnipotenza e respingendolo fuori dei confini del suo regno, ma prendendolo su di sé e trasformandolo dall’interno in bene; trasformando l’odio in amore, la violenza in mitezza, l’ingiustizia in giustizia, l’angoscia in speranza. Ha fatto quello che chiede a noi di fare, quando dice nella Scrittura: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rom 12, 21).

Questo è ciò che è avvenuto sulla croce. II Padri avevano un bel simbolo per esprimere tutto ciò: le acque amare di Mara trasformate in acque dolci da Mosè (cf. Es 15, 23 ss.). Gesù ha bevuto le acque amare della ribellione e le ha trasformate nelle acque dolci della grazia, simboleggiate dall’acqua uscita dal suo costato. Ha preso su di sé l’immenso “No” del mondo a Dio e lo ha trasformato in un filiale “Sì”.

Anche così, la nostra risposta non è completa, manca la parola risurrezione! Se Dio Padre “sopporta” che vi sia il dolore, è perché sa quello che sta per fare al “terzo giorno”. Sulla croce, il Padre era impaziente che gli uomini finissero la loro parte, per cominciare a fare la sua: “Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato e l’ha costituito Signore e Cristo” (cf. At 2, 23-24.36). “Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2, 9-10).?Altro che una prova a carico, il Venerdì Santo è il luogo della piena rivelazione del Padre. Il vero volto di Dio Padre, o lo si conosce in questo giorno, o non lo si conoscerà mai.

Questo non è predicare la rassegnazione passiva di fronte al male del mondo o il disimpegno dalla lotta. Prendere su di sé il male del mondo, può significare a volte prendere su di sé la lotta contro il male del mondo e rimetterci la vita, come avvenne in Gesù. Uno dei compiti assegnati al Giubileo del Duemila è anche quello di fare memoria dei nuovi martiri. Proprio essi sono la dimostrazione che è possibile vincere il male col bene e che è questa, anche oggi, la vera vittoria.

Quante cose si imparano da una meditazione sul Padre, fatta il Venerdì Santo! La prima riguarda proprio il prossimo Giubileo. Il Giubileo deve essere la grande occasione per riconciliare l’umanità con il Padre. All’origine, l’anno giubilare era il tempo in cui la terra veniva restituita al suo legittimo proprietario (cf. Lev 25, 13); oggi deve essere il tempo in cui la creatura viene restituita al suo Creatore.

Non predichiamo, in questo anno, un Dio irato e in procinto di colpire il mondo con chissà quali castighi. Basta con le discutibili rappresentazioni della Madonna che non ce la fa più a trattenere il braccio del Padre adirato. Contribuiscono anch’esse, senza volerlo, a offuscare l’immagine del Padre e fanno torto alla Vergine stessa che, nel Magnificat, ha cantato per prima la misericordia di Dio. Basta con l’abuso del “terzo segreto di Fatima” con cui degli spiriti esaltati terrorizzano la gente semplice. Nessuno lo conosce, ma tutti sembrano sapere perfettamente di che parla.

C’è un tempo per predicare il castigo e un tempo per predicare la misericordia. Il Giubileo è il tempo di predicare la misericordia. Esso deve essere, come fu quello proclamato da Gesù, “un anno di grazia del Signore” (cf. Lc 4, 19). “L’anno santo -diceva ai sacerdoti il Papa nella Messa del Crisma- chiama tutti noi, ministri ordinati, a renderci totalmente disponibili al dono di misericordia che Dio Padre vuole elargire con abbondanza ad ogni essere umano”.

L’anno del Padre può avere una “ricaduta” benefica anche sul piano umano. Può servire a “ricondurre il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri” (cf. Lc 1, 17 e Ml 3, 23-24) come avvenne, per opera di Giovanni Battista, nel primo avvento. Se Dio Padre è colui “dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3,14), allora i padri terreni possono apprendere da lui il difficile mestiere di padre: la pazienza, il rispetto della libertà dei figli, la speranza nei loro confronti, la gioia per ogni loro piccola riuscita.

Quando a un uomo nasce il primo bambino, di solito egli l’annuncia con gioia agli amici dicendo: “Sono diventato padre!”. In un senso più profondo, queste parole si possono dire solo più tardi nella vita, dopo che si è dato prova di molta sollecitudine, pazienza, longanimità, dopo che si è imparato a soffrire per i figli. Allora sì che si può dire con ragione: “Sono diventato padre”. Anche Dio è diventato pienamente Padre per noi sulla croce.

Questo vale a maggior ragione per i padri spirituali. Molti sacerdoti preferiscono oggi stare tra il popolo “come fratello tra fratelli”. E’ più semplice, meno impegnativo; ma la gente ha bisogno di padri, li cerca disperatamente e quando ne trova uno benedice Dio. “Nell’anno dedicato al Padre -diceva nella stessa omelia il papa- la paternità di ogni sacerdote si faccia maggiormente evidente”.

Concludiamo in preghiera. Padre di misericordia e Dio di ogni consolazione, noi ti supplichiamo: Tu che sul Calvario hai sostenuto le braccia del tuo Cristo, che lo hai accolto deposto dalla croce e lo hai risuscitato il terzo giorno, sii vicino a tutti quelli che soffrono. Accogli nella tua pace le vittime delle guerre, sostieni la speranza dei sopravvissuti, moltiplica le forze dei soccorritori e la tenacia dei mediatori, non permettere che siamo vinti dal male, ma aiutaci a vincere il male col bene. Per Gesù Cristo Nostro Signore.








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