Paolo VI. Il Fariseo e il pubblicano

Il primo pensiero è questo: l’uomo ha bisogno di redenzione. Dire questo e dire la somma della filosofia dell’uomo e della teologia della vita è la stessa cosa. L’uomo ha bisogno di redenzione; il che significa non solo che manca di un complemento alla sua perfezione e alla sua felicità, ma che egli ha bisogno d’una riparazione, d’una liberazione, d’una rigenerazione. Ha bisogno d’una guarigione, d’un ricupero, d’una riabilitazione. Ha bisogno d’un perdono. Ha bisogno di ritornare uomo; di riacquistare la sua dignità, la sua vera personalità. E poi riavrà pace, gioia, voglia sana di vivere, speranza. Poi riacquisterà la visione chiara sul mondo, sugli uomini, sulla storia, sulla morte, su l’al di là. Ma ora, di per sé, la sorte umana si trova in una condizione imperfetta, infelice. Gli stessi sforzi, che l’uomo fa per dare normalità, forma, progresso, coscienza alla sua vita, finiscono per denunciare ancora più palesemente lo stato di insufficienza e di degradazione, in cui egli si trova. E se non bastasse la complicata esperienza umana a dimostrare che nel complesso delle nostre sorti v’è qualche cosa che radicalmente non va, la parola del Signore, enucleata dall’insegnamento della Chiesa, ci persuade che noi ci troviamo nella necessità di una redenzione, d’una salvezza.

Se noi abbiamo la sapienza, umile e penetrante, di riconoscere questa necessità, noi siamo sulle soglie del tempio, come il Pubblicano del Vangelo (Cfr. Lc 18,10 ss.), dove la prima, la fondamentale, l’indispensabile riparazione della nostra miseria si compie.

L’altro pensiero, complementare del primo, ci fa riflettere sulla impossibilità delle forze umane a procurarsi la redenzione di cui l’uomo ha bisogno. Bisogno e autonoma impossibilità di redenzione, è la duplice persuasione, con la quale noi ci dobbiamo accostare alla celebrazione dei riti liturgici, i quali rievocano e interiormente rinnovano il mistero pasquale. Questo senso d’impossibilità è anch’esso indispensabile nella economia della nostra pedagogia religiosa, della nostra mentalità cristiana. (Ricordiamo, fra le tante, la voce del Manzoni nel celebre inno sacro: «qual masso che dal vertice», ecc.). Si connette questa dottrina alla natura del peccato e delle sue conseguenze: la rottura delle relazioni con Dio, ch’è appunto il peccato, paragonabile alla rottura del cavo d’una teleferica, o alla rottura d’un cristallo, chi la può da sé riparare? Ad un morto (perché rispetto al rapporto con la vita di Dio tale è un uomo nello stato di peccato mortale), chi può mai dire le inverosimili parole: «verrò io, e lo guarirò»? (Mt 8,7 cfr. He 10,6-7)

Eppure queste sono le parole di Gesù. Questo è il messaggio, e, ancor più che messaggio, la impensabile realtà portata da Cristo all’umanità. Egli è venuto, ed ha riparato l’irreparabile. Questa è la Redenzione; questo è il mistero pasquale compiuto da nostro Signor Gesù Cristo, «il quale, come scrive S. Paolo, fu immolato per i nostri falli, e fu risuscitato per motivo della nostra giustificazione» (Rom. 4, 25), cioè della nostra salvezza.

Capito questo, vogliamo dire, creduto questo, noi comprendiamo qualche cosa del sacrificio di Gesù, vittima per ciascuno di noi (Ga 2,20), e qualche cosa del disegno di misericordia e di amore, che governa tutta la nostra religione cristiana (Cfr. L. BOUYER,Le rite et l’homme, c. 8).

E comprendiamo parimente qualche cosa, quanto forse ci basta per la nostra fortuna e la nostra felicità, che cosa valga, prima di assiderci alla cena pasquale, accostarci al sacramento della Penitenza, ch’è il sacramento per le anime morte, o comunque bisognose di vita divina, l’applicazione cioè della virtù della passione e della risurrezione di Cristo alle singole nostre persone; è la nostra Pasqua, che trova poi nella santa comunione con Lui la sua pienezza nel nostro pellegrinaggio terreno, la sua promessa per l’eternità (Jn 6,51).

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