S. Agostino. Commenti a Gv 21,1-19


OMELIA 122 - L'apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade Jn 20,30,31; 21,1-11.

(Jn 20,30)

La pesca miracolosa adombra il mistero della Chiesa, quale sarà dopo la risurrezione dei morti.

1. Dopo averci raccontato come il discepolo Tommaso, attraverso le cicatrici delle ferite che Cristo gli offri da toccare nella sua carne, vide ciò che non voleva credere e credette, l'evangelista Giovanni inserisce questa osservazione: Molti altri prodigi fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi invece sono stati scritti, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio e, credendo, abbiate vita nel suo nome (Jn 20,215). Questa è come l'annotazione conclusiva di questo libro; tuttavia si narra ancora come il Signore si manifesto presso il mare di Tiberiade, e come nella pesca adombro il mistero della Chiesa quale sarà nella futura risurrezione dei morti. Credo che sia per sottolineare maggiormente questo mistero che Giovanni pose le parole succitate come a conclusione del libro, in quanto servono anche di introduzione alla successiva narrazione, alla quale, in questo modo, dà maggiore risalto. Così comincia la narrazione: Dopo questi fatti, Gesù si manifesto di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade; e si manifesto cosi. Si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, e i figli di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli. Dice loro Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono: Veniamo anche noi con te (Jn 21,1-3).

2. 2. Si è soliti chiedersi, a proposito di questa pesca dei discepoli, perché Pietro e i figli di Zebedeo siano tornati all'occupazione che avevano prima che il Signore disse loro: Seguitemi e vi faro pescatori di uomini (Mt 4,19). Allora essi lo seguirono, lasciando tutto, per diventare suoi discepoli. Al punto che, quando quel giovane, al quale aveva detto: Va', vendi ciò che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi, si allontano triste, Pietro poté dirgli: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19,21-22 Mt 27). Perché, dunque, essi ora lasciano l'apostolato e ritornano a essere ciò che erano prima tornando a fare ciò cui avevano rinunciato, quasi non tenendo conto dell'ammonimento che avevano ascoltato dalle labbra del Maestro: Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno dei cieli (Lc 9,62)? Se gli Apostoli avessero fatto questo dopo la morte di Gesù e prima della sua risurrezione, potremmo pensare che essi fossero stati spinti a ciò dallo scoraggiamento che si era impadronito del loro animo. Del resto essi non avrebbero potuto tornare a pescare il giorno in cui Gesù fu crocifisso, perché in quel giorno rimasero totalmente impegnati fino al momento della sepoltura, che avvenne sul far della sera; il giorno seguente era sabato e, secondo la tradizione dei padri, dovevano osservare il riposo; e finalmente nel terzo giorno, il Signore risorto riaccese in loro la speranza che avevano cominciato a perdere. Ora pero, dopo che lo hanno riavuto vivo dal sepolcro, dopo che egli ha offerto ai loro occhi e alle loro mani la realtà evidente della sua carne rediviva, che essi non solo hanno potuto vedere ma anche toccare e palpare; dopo che essi hanno guardato i segni delle sue ferite, e dopo che perfino l'apostolo Tommaso, che aveva detto che non avrebbe creduto se non avesse veduto e toccato, anch'egli ha confessato; dopo che hanno ricevuto lo Spirito Santo, da lui alitato su di essi, e hanno ascoltato le parole: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti (Jn 20,21 Jn 23), essi tornano a fare i pescatori, non di uomini ma di pesci.

3. 3. A quanti dunque rimangono perplessi di fronte a questo fatto, si può fare osservare che non era affatto proibito agli Apostoli procurarsi di che vivere con il loro mestiere onesto, legittimo e compatibile con l'impegno apostolico, qualora non avessero avuto altra possibilità per vivere. Nessuno, certo, vorrà pensare o dire che l'apostolo Paolo era meno perfetto di coloro che avevano seguito Cristo lasciando tutto, per il fatto che egli, per non essere di aggravio a quelli che evangelizzava, si guadagnava da vivere con il lavoro delle sue mani (2Th 3,8). Anzi, proprio in questo si nota la verità di quanto asseriva: Ho lavorato più di tutti costoro. E aggiungeva: non già io, bensi la grazia di Dio con me (1Co 15,10), affinché risultasse evidente che doveva alla grazia di Dio se aveva potuto lavorare più degli altri spiritualmente e materialmente, predicando il Vangelo senza sosta. Egli tuttavia, a differenza degli altri, non si servi del Vangelo per vivere, mentre lo andava seminando più largamente e con più frutto attraverso tante popolazioni in mezzo alle quali il nome di Cristo non era stato ancora annunziato; dimostrando così che vivere del Vangelo, cioè trarre sostentamento dalla predicazione, non era per gli Apostoli un obbligo ma una facoltà. E' di questa facoltà che parla l'Apostolo quando dice: Se abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse una cosa straordinaria se mietiamo i vostri beni materiali? Se altri si valgono di questo potere su di voi, quanto maggiormente non lo potremmo noi? Ma noi - aggiunge -non abbiamo fatto uso di questo potere. E poco più avanti: Quelli che servono all'altare - dice -partecipano dell'altare. Alla stessa maniera anche il Signore ordino a quelli che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo; quanto a me non ho usato alcuno di questi diritti (1Co 9,11-15). Risulta dunque abbastanza chiaro che il vivere unicamente del Vangelo e mietere beni materiali in compenso dei beni spirituali che seminavano annunziando il Vangelo, era per gli Apostoli non un precetto ma una facoltà: cioè essi potevano accettare il sostentamento materiale e, quali soldati di Cristo, ricevere dai Cristiani il dovuto stipendio, come i soldati lo ricevevano dai Governatori delle province. E' a questo proposito che il medesimo generoso soldato di Cristo poco prima aveva detto: Chi mai si arruola a proprie spese? (1Co 9,7). Tuttavia, proprio questo egli faceva, e perciò lavorava più di tutti gli altri. Se dunque il beato Paolo non volendo usare del diritto che aveva in comune con gli altri predicatori del Vangelo, e volendo militare a sue spese, onde evitare presso i non credenti in Cristo qualsiasi sospetto che il suo insegnamento fosse interessato, imparo un mestiere non confacente alla sua educazione, per potersi guadagnare il pane con le sue mani e non esser di peso a nessuno dei suoi ascoltatori; perché dobbiamo meravigliarci se il beato Pietro, che già era stato pescatore, torno al suo lavoro, non avendo per il momento altra possibilità per vivere?

4. 4. Ma qualcuno osserverà: E come mai non aveva altra possibilità per vivere, se il Signore aveva promesso: Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saran date in più (Mt 6,33)? Questo episodio sta a dimostrare che il Signore mantiene la sua promessa. Chi altri infatti fece affluire i pesci nella rete perché fossero presi? E' da credere che non per altro motivo li ridusse al bisogno, costringendoli a tornare alla pesca, se non perché voleva che fossero testimoni del miracolo che aveva predisposto per sfamare i predicatori del suo Vangelo, mentre mediante il misterioso significato del numero dei pesci, si proponeva di far crescere il prestigio del Vangelo stesso. E a proposito, vediamo ora che cosa il Signore ha riservato a noi.

5. 5. Dice Simon Pietro: Io vado a pescare. Gli rispondono - quelli che erano con lui -: Veniamo anche noi con te. Uscirono, e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla. Era ormai l'alba quando Gesù si presento sulla riva; i discepoli tuttavia non si erano accorti che era Gesù. E Gesù disse loro: Figlioli, non avete qualcosa da mangiare? Gli risposero: No. Ed egli disse loro: Gettate la rete a destra della barca, e ne troverete. La gettarono, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: E' il Signore! Simon Pietro all'udire "è il Signore!" si cinse la veste, poiché era nudo, e si butto in mare. Gli altri discepoli vennero con la barca, perché non erano lontani da terra se non duecento cubiti circa, tirando la rete con i pesci. Appena messo piede a terra, videro della brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: Portate dei pesci che avete preso adesso. Allora Simon Pietro sali nella barca, e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si strappo (Jn 21,3-11).

6. E' un grande mistero questo, nel grande Vangelo di Giovanni; e, per metterlo maggiormente in risalto, l'evangelista lo ha collocato alla conclusione. Siccome erano sette i discepoli che presero parte a questa pesca: Pietro, Tommaso, Natanaele, i due figli di Zebedeo e altri due di cui si tace il nome; mediante il numero sette stanno ad indicare la fine del tempo. Si, perché tutto il tempo si svolge in sette giorni. A questo si riferisce il fatto che sul far del giorno Gesù si presento sulla riva: la riva segna la fine del mare, e rappresenta perciò la fine del tempo, la quale è rappresentata anche dal fatto che Pietro trasse la rete a terra, cioè sulla riva. Il Signore stesso, quando espose una parabola della rete gettata in mare, dette questa spiegazione: Una volta piena - disse -i pescatori l'hanno tirata a riva. E spiego che cosa fosse la riva, dicendo: così sarà alla fine del mondo (Mt 13,48-49).

(Il mistero della Chiesa adombrato nelle due scene di pesca.)

2. 7. Ma quella parabola consisteva nell'enunciazione di un pensiero, non veniva espressa mediante un fatto. Qui, invece, è mediante un fatto che il Signore ci presenta la Chiesa quale sarà alla fine del tempo, così come con un'altra pesca ha presentato la Chiesa quale è nel tempo presente. Il fatto che egli abbia compiuto la prima pesca all'inizio della sua predicazione, questa seconda, invece, dopo la sua risurrezione, dimostra che quella retata di pesci rappresentava i buoni e i cattivi di cui ora la Chiesa è formata; questa invece rappresenta soltanto i buoni che formeranno definitivamente la Chiesa, quando, alla fine del mondo, sarà compiuta la risurrezione dei morti. Inoltre, nella prima pesca, Gesù non stava, come ora, sulla riva del mare, quando ordino di gettare le reti per la pesca; ma salito in una delle barche, quella che apparteneva a Simone, prego costui di scostarsi un po' da terra, poi, sedutosi, dalla barca istruiva le folle. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: Va' al largo e calate le reti per la pesca (Lc 5,3-4). E il pesce che allora pescarono fu raccolto nelle barche, perché non furono tirate le reti a terra come avviene ora. Per questi segni, e per altri che si potrebbero trovare, in quella pesca fu raffigurata la Chiesa nel tempo presente; in questa, invece, è raffigurata la Chiesa quale sarà alla fine dei tempi. E' per questo motivo che la prima pesca fu compiuta prima della risurrezione del Signore, mentre questa seconda è avvenuta dopo; perché nel primo caso Cristo raffiguro la nostra vocazione, nel secondo la nostra risurrezione. Nella prima pesca le reti non vengono gettate solo a destra della barca, a significare solo i buoni, e neppure solo a sinistra, a significare solo i cattivi. Gesù dice semplicemente: Calate le reti per la pesca, per farci intendere che i buoni e i cattivi sono mescolati. Qui invece precisa: Gettate la rete alla destra della barca, per indicare quelli che stavano a destra, cioè soltanto i buoni. Nel primo caso la rete si strappava per indicare le scissioni; nel secondo caso, invece, siccome nella suprema pace dei santi non ci saranno più scissioni, l'evangelista ha potuto rilevare: e benché i pesci fossero tanti -cioè così grossi -la rete non si strappo. Egli sembra alludere alla prima pesca, quando la rete si strappo, per far risaltar meglio, dal confronto con quella, il risultato positivo di questa pesca. Nel primo caso presero tale quantità di pesce che le due barche, stracariche, affondavano (Lc 5,3-7), cioè minacciavano di affondare: non affondarono, ma poco ci manco. Donde provengono alla Chiesa tutti i mali che deploriamo, se non dal fatto che non si riesce a tener testa all'enorme massa che entra nella Chiesa con dei costumi del tutto estranei alla vita dei santi e che minacciano di sommergere ogni disciplina? Nel secondo caso, invece, gettarono la rete a destra della barca, e non potevano più tirarla per la grande quantità di pesci. Che significa: non riuscivano più a tirarla? Significa che coloro che appartengono alla risurrezione della vita, cioè alla destra, e finiscono la loro vita nelle reti del cristianesimo, appariranno soltanto sulla riva, cioè alla fine del mondo, quando risorgeranno. Per questo i discepoli non riuscivano a tirare la rete per rovesciare nella barca i pesci che avevano presi, come invece avvenne di quelli per il cui peso la rete si strappo e le barche rischiarono di affondare. La Chiesa possiede tutti questi pesci che sono a destra della barca, ma che rimangono nascosti nel sonno della pace, come nel profondo del mare, sino alla fine della vita, allorché la rete, trascinata per un tratto di circa duecento cubiti, giungerà finalmente alla riva. Il popolo dei circoncisi e dei gentili, che nella prima pesca era raffigurato dalle due barche, qui è raffigurato dai duecento cubiti - cento e cento quanti sono gli eletti di ciascuna provenienza -, poiché facendo la somma, il numero cento passa a destra. Infine, nella prima pesca, non si precisa il numero dei pesci, e noi possiamo vedere in ciò la realizzazione della profezia che dice: Voglio annunziarli e parlarne, ma sono tanti da non potersi contare (Ps 39,6); qui invece si possono contare: il numero preciso è centocinquantatré. Dobbiamo, con l'aiuto del Signore, spiegare il significato di questo numero.

(Significato del numero 153.)

8. Volendo esprimere la legge mediante un numero, qual è questo numero se non dieci? Sappiamo con certezza che il Decalogo, cioè i dieci comandamenti furono per la prima volta scritti col dito di Dio su due tavole di pietra (Dt 9,10). Ma la legge, senza l'aiuto della grazia, ci rende prevaricatori, e rimane lettera morta. E' per questo che l'Apostolo dice: La lettera uccide, lo Spirito vivifica (2Co 3,6). Si unisca dunque lo spirito alla lettera, affinché la lettera non uccida coloro che non sono vivificati dallo spirito; ma siccome per poter adempiere i comandamenti della legge, le nostre forze non bastano, è necessario l'aiuto del Salvatore. Quando alla legge si unisce la grazia, cioè quando alla lettera si unisce lo spirito, al dieci si aggiunge il numero sette. Il numero sette, come attestano i venerabili documenti della sacra Scrittura, è il simbolo dello Spirito Santo. Infatti, la santità o santificazione è attribuita propriamente allo Spirito Santo; per cui, anche se il Padre è spirito e il Figlio è spirito (in quanto Dio è spirito: Jn 4,24) ed anche se il Padre è santo e il Figlio è santo, tuttavia lo Spirito di ambedue si chiama con suo proprio nome Spirito Santo. E dov'è che per la prima volta nella legge si parla di santificazione, se non a proposito del settimo giorno? Dio infatti non santifico il primo giorno in cui creo la luce, né il secondo in cui creo il firmamento, né il terzo in cui separo il mare dalla terra e la terra produsse alberi e piante, né il quarto in cui furono create le stelle, né il quinto in cui Dio fece gli animali che si muovono nelle acque e che volano nell'aria, e neppure il sesto in cui creo gli animali che popolano la terra e l'uomo stesso; santifico, invece, il settimo giorno, in cui egli riposo dalle sue opere (Gn 2,3). Giustamente, quindi, il numero sette è il simbolo dello Spirito Santo. Anche il profeta Isaia dice: Riposerà in lui lo Spirito di Dio; passando poi ad esaltarne l'attività e i suoi sette doni, dice: Spirito di sapienza e d'intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà dello spirito del timore di Dio (Is 11,2-3). E nell'Apocalisse non si parla forse dei sette spiriti di Dio (Ap 3,1), pur essendo unico e identico lo Spirito che distribuisce i suoi doni a ciascuno come vuole (1Co 12,11)? Ma l'idea dei sette doni dell'unico Spirito è venuta dallo stesso Spirito, che ha assistito lo scrittore sacro perché dicesse che sette sono gli spiriti. Ora, se al numero dieci, proprio della legge, aggiungiamo il numero sette, proprio dello Spirito Santo, abbiamo diciassette. Se si scompone questo numero in tutti i numeri che lo formano, e si sommano tutti questi numeri, si ha come risultato centocinquantatré: se infatti a uno aggiungi due ottieni tre, se aggiungi ancora tre e poi quattro ottieni dieci, se poi aggiungi tutti i numeri che seguono fino al diciassette otterrai il risultato sopraddetto; cioè se al dieci, che hai ottenuto sommando tutti i numeri dall'uno al quattro, aggiungi il cinque, ottieni quindici; aggiungi ancora sei e ottieni ventuno; aggiungi il sette e avrai ventotto; se al ventotto aggiungi l'otto, il nove e il dieci, avrai cinquantacinque; aggiungi ancora undici, dodici e tredici, e sei a novantuno; aggiungi ancora quattordici, quindici e sedici, e avrai centotrentasei; e se a questo numero aggiungi quello che resta, cioè quello che abbiamo trovato all'inizio, il diciassette, avrai finalmente il numero dei pesci che erano nella rete. Non si vuol dunque indicare, col centocinquantatré, che tale è il numero dei santi che risorgeranno per la vita eterna, ma le migliaia di santi partecipi della grazia dello Spirito Santo. Questa grazia si accorda con la legge di Dio come con un avversario, affinché la lettera non uccida ciò che lo Spirito vivifica, e in tal modo, con l'aiuto dello Spirito, si possa compiere ciò che per mezzo della lettera viene comandato, e sia perdonato quanto non si riesce a compiere. Quanti partecipano di questa grazia sono indicati da questo numero, cioè vengono rappresentati in figura. Questo numero è, per di più, formato da tre volte il numero cinquanta con l'aggiunta di tre, che significa il mistero della Trinità; il cinquanta poi è formato da sette per sette più uno, dato che sette volte sette fa quarantanove. Vi si aggiunge uno per indicare che è uno solo lo Spirito che si manifesta attraverso l'operazione settenaria; e sappiamo che lo Spirito Santo fu mandato sui discepoli, che lo aspettavano secondo la promessa che loro era stata fatta, cinquanta giorni dopo la risurrezione del Signore (cf. Ac 2,2-4 Ac 1,4).

9. Con ragione dunque l'evangelista dice che i pesci erano grossi e tanti, e precisamente centocinquantatré. Egli dice infatti: e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. Il Signore, dopo aver detto: Non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento (Mt 5,17), con l'intenzione di dare lo Spirito Santo che consentisse di adempiere la legge (come aggiungendo il sette al dieci), poco dopo dice: Chi, dunque, violerà uno solo di questi comandamenti, anche i minimi, e insegnerà agli uomini a far lo stesso, sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi, invece, li avrà praticati e insegnati, sarà considerato grande nel regno dei cieli (Mt 5,19). Quest'ultimo potrà far parte del numero dei grossi pesci. Il minimo invece, che distrugge con i fatti ciò che insegna con le parole, potrà far parte di quella Chiesa che viene raffigurata nella prima pesca, fatta di buoni e di cattivi, perché anch'essa viene chiamata regno dei cieli. Il regno dei cieli - dice il Signore -è simile a una gran rete gettata in mare e che raccoglie ogni genere di pesci (Mt 13,47). Con questo vuole intendere tanto i buoni quanto i cattivi, che dovranno essere separati sulla riva, cioè alla fine del mondo. Inoltre, per far vedere che quelli che chiama minimi, cioè coloro che vivendo male distruggono il bene che insegnano con le parole, sono dei reprobi e quindi saranno completamente esclusi dal regno dei cieli, dopo aver detto: sarà considerato minimo nel regno dei cieli, immediatamente aggiunge: poiché vi dico che, se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20). Scribi e farisei sono quelli che siedono sulla cattedra di Mosè, e a proposito dei quali egli dice: Fate quello che vi dicono, non vi regolate sulle loro opere: dicono, infatti, e non fanno (Mt 23,2-3); distruggono con i costumi quanto insegnano con le parole. Di conseguenza, chi è minimo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa del tempo presente, non entrerà nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa futura, perché, insegnando ciò che poi trasgredisce, non potrà far parte della società di coloro che fanno ciò che insegnano. Costui, perciò, non farà parte del numero dei grossi pesci, in quanto solo chi farà e insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. E siccome sarà stato grande qui in terra, potrà essere anche là dove l'altro, il minimo, non potrà essere. La grandezza di coloro che qui sono grandi, lassù sarà tale, che il più piccolo di loro è maggiore di chi sulla terra è più grande di tutti (Mt 11,11). Tuttavia, coloro che qui sono grandi, coloro cioè che nel regno dei cieli, dove la rete raccoglie buoni e cattivi, compiono il bene che insegnano, saranno ancora più grandi nel regno eterno dei cieli; essi, che sono destinati alla risurrezione della vita, sono raffigurati nei pesci pescati dal lato destro della barca. Segue il racconto della colazione che il Signore consumo con questi sette discepoli, e di cio che egli disse subito dopo, e infine della conclusione di questo Vangelo. Di tutto questo parleremo, se Dio vorrà; ma non possiamo farlo entrare in questo discorso.

123

OMELIA 123

(Jn 21,12-19)

Jn 21,12-19@)


La triplice confessione di Pietro.

Alla triplice negazione corrisponde la triplice confessione. Sia prova d'amore pascere il gregge del Signore, come fu indizio di timore rinnegare il Pastore.

1. Il Vangelo dell'apostolo Giovanni si conclude con la terza apparizione del Signore ai suoi discepoli dopo la risurrezione. Ci siamo soffermati, come abbiamo potuto, sulla prima parte, fino al momento in cui l'evangelista racconta che furono pescati centocinquantatré pesci da parte dei discepoli ai quali Gesù si manifesto, e che la rete, sebbene i pesci fossero grossi, non si strappo. Dobbiamo ora esaminare ciò che segue, e spiegare, con l'aiuto del Signore, quanto esige una attenzione maggiore. Terminata dunque la pesca, dice loro Gesù: Venite a far colazione. E nessuno dei discepoli osava domandargli: Chi sei? sapendo che era il Signore (Jn 21,12). Se lo sapevano, che bisogno c'era di domandarglielo? E se non c'era bisogno, perché l'evangelista dice: non osavano, come se avessero bisogno di farlo ma non osassero per timore di qualche cosa? Ecco il senso di queste parole: tanta era l'evidenza della verità nella quale Gesù si manifestava ai discepoli, che nessuno di loro osava, nonché negarla, neppure metterla in dubbio. Se qualcuno infatti avesse avuto qualche dubbio, avrebbe dovuto fargli delle domande. L'evangelista dicendo: nessuno osava domandargli: Chi sei?, è come se dicesse: nessuno osava dubitare che fosse lui.

(Il pesce simbolo di Cristo.)

2. 2. Gesù si avvicina, prende il pane, lo porge ad essi, e così il pesce (Jn 21,13). Ecco che l'evangelista ci dice in che cosa consisteva la loro colazione, della quale vogliamo dire qualcosa di soave e salutare, se egli si degnerà ammettere anche noi a questo banchetto. Nella narrazione precedente Giovanni dice che i discepoli, scesi a terra, vedono della brace con del pesce sopra, e del pane (Jn 21,9). Non si deve pensare che anche il pane stesse sopra la brace, ma vi si deve sottintendere solo il verbo vedono. Se ripetiamo il verbo dov'è sottinteso, l'intera frase suona cosi: Vedono della brace con del pesce sopra, e vedono del pane; o meglio: Vedono preparata della brace con sopra del pesce, e vedono anche del pane. Su invito del Signore, portano anche del pesce che essi hanno preso; e quantunque l'evangelista non dica che essi lo abbiano fatto, tuttavia dice espressamente che il Signore dette loro quest'ordine. Il Signore infatti disse: Portate qua di quei pesci che avete preso adesso (Jn 21,10). Chi può pensare che i discepoli non abbiano obbedito al suo ordine? La colazione che il Signore preparo ai sette discepoli, si componeva dunque del pesce che essi avevano visto sopra la brace, e al quale egli aggiunse alcuni pesci di quelli che essi avevano preso, e del pane che, come narra l'evangelista, essi avevano veduto sulla riva. Il pesce arrostito è il Cristo sacrificato; egli è anche il pane disceso dal cielo (Jn 6,41); a lui viene incorporata la Chiesa per partecipare della sua eterna beatitudine. E' per questo che il Signore aveva detto: Portate qua di quei pesci che avete preso adesso, affinché quanti nutriamo questa speranza, per mezzo di sette discepoli, nei quali in questo passo si può ravvisare l'universalità dei fedeli, prendessimo coscienza di essere in comunione con così grande sacramento e di essere partecipi della medesima beatitudine. E' con questa colazione del Signore con i suoi discepoli che Giovanni, sebbene avesse da dire molte altre cose di Cristo, conclude il suo Vangelo, rapito, credo, nella contemplazione di sublimi realtà. Qui infatti, nella pesca dei centocinquantatré pesci, viene adombrata la Chiesa quale essa si manifesterà quando sarà formata soltanto dai buoni; e questa colazione è l'annuncio, per quanti credono, sperano e amano, della loro partecipazione a così grande beatitudine.

3. Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli, dopo la sua risurrezione dai morti (Jn 21,14). Questo tre non si deve riferire tanto al numero delle apparizioni di Gesù, quanto ai giorni in cui esse ebbero luogo. La prima ebbe luogo il primo giorno in cui Gesù risuscito; la seconda otto giorni dopo, quando il discepolo Tommaso vide e credette; la terza è oggi in cui opera questo miracolo dei pesci. L'evangelista pero non dice quanti giorni dopo ebbe luogo questa apparizione. Se contiamo il numero delle apparizioni, vediamo che nel primo giorno non si manifesto una sola volta, come attestano concordemente tutti e quattro gli evangelisti; ma, come si è detto, Giovanni non conta il numero delle apparizioni, ma i giorni in cui egli apparve, per cui risulta che il terzo giorno è quello della pesca. Come prima apparizione dobbiamo considerare, quasi un tutt'uno, quelle avvenute nel giorno della risurrezione, anche se il Signore è apparso più volte, e a più persone; la seconda otto giorni dopo; e questa è la terza. Successivamente si manifesto tutte le volte che volle sino al quarantesimo giorno nel quale ascese al cielo, anche se non sono state registrate tutte.

(Conclusione della vicenda di Pietro.)

2. 4. Quand'ebbero fatto colazione, Gesù dice a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi ami più di questi? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice di nuovo: Simone di Giovanni, mi ami tu? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice per la terza volta: Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Pietro si rattristo che per la terza volta Gesù gli dicesse: Mi vuoi bene? E rispose: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi da te stesso, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio (Jn 21,15-19). Così chiuse la vita terrena l'apostolo che lo aveva rinnegato e lo amava. La presunzione lo aveva innalzato, il rinnegamento lo aveva umiliato, le lacrime lo avevano purificato; supero la prova della confessione, ottenne la corona del martirio. E così ottenne, nel suo perfetto amore, di poter morire per il nome del Signore, insieme al quale, con disordinata impazienza, si era ripromesso di morire. Sostenuto dalla risurrezione del Signore, egli farà quanto nella sua debolezza aveva prematuramente promesso. Bisognava infatti che prima Cristo morisse per la salvezza di Pietro, perché Pietro a sua volta potesse morire per la predicazione di Cristo. Del tutto intempestivo fu quanto aveva intrapreso l'umana presunzione, dato che questo ordine era stato stabilito dalla stessa verità. Pietro credeva di poter dare la sua vita per Cristo (Jn 13,37): colui che doveva essere liberato sperava di poter dare la sua vita per il suo liberatore, mentre Cristo era venuto per dare la sua vita per tutti i suoi, tra i quali era anche Pietro. Ed ecco che questo è avvenuto. Ora ci è consentito di affrontare per il nome del Signore anche la morte con fermezza d'animo, con quella vera che egli stesso dona, non con quella falsa che nasce dalla nostra vana presunzione. Noi non dobbiamo più temere la perdita di questa vita, dal momento che il Signore, risorgendo, ci ha offerto in se stesso la prova dell'altra vita. Ora è il momento, Pietro, in cui non devi temere più la morte, perché è vivo colui del quale piangevi la morte, colui al quale, nel tuo amore istintivo, volevi impedire di morire per noi (Mt 16,21-22). Tu hai preteso di precedere il condottiero, e hai avuto paura del suo persecutore; ora che egli ha pagato il prezzo per te, è il momento in cui puoi seguire il redentore, e seguirlo senza riserva fino alla morte di croce. Hai udito la parola di colui che ormai hai riconosciuto verace; predisse che lo avresti rinnegato, ora predice la tua passione.

3. 5. Ma prima il Signore domanda a Pietro ciò che già sapeva. Domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza, se Pietro gli vuol bene; e altrettante volte niente altro gli affida che il compito di pascere le sue pecore. così alla sua triplice negazione corrisponde la triplice confessione d'amore, in modo che la sua lingua non abbia a servire all'amore meno di quanto ha servito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu di fronte alla minaccia della morte. Sia dunque impegno di amore pascere il gregge del Signore, come fu indice di timore negare il pastore. Coloro che pascono le pecore di Cristo con l'intenzione di volerle legare a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l'obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio. Contro costoro, ai quali l'Apostolo rimprovera, gemendo, di cercare i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cf. Ph 2,21), si leva forte e insistente la voce di Cristo. Che altro è dire: Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non dire: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d'ogni male. L'Apostolo infatti, dopo aver detto: Vi saranno uomini amanti di se stessi, così prosegue: saranno amanti del denaro, vanagloriosi, arroganti, bestemmiatori, disobbedienti ai genitori, ingrati, scellerati, empi, senz'amore, calunniatori, incontinenti, spietati, non amanti del bene, traditori, protervi, accecati dai fumi dell'orgoglio, amanti del piacere più che di Dio; gente che ha l'apparenza di pietà, ma che ne ha rinnegato la forza (2Tm 3,1-5). Tutti questi mali derivano, come da loro fonte, da quello che per primo l'Apostolo ha citato: saranno amanti di se stessi. Giustamente il Signore chiede a Pietro: Mi ami tu?, e alla sua risposta: Certo che ti amo, egli replica: Pasci i miei agnelli; e questo, una seconda e una terza volta. Dove anche si dimostra che amare (diligere) è lo stesso che voler bene (amare); l'ultima volta, infatti, il Signore non dice: Mi ami?, ma: Mi vuoi bene? Non amiamo dunque noi stessi, ma il Signore, e nel pascere le sue, pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi. Non so in quale inesplicabile modo avvenga che chi ama se stesso e non Dio, non ama se stesso, mentre chi ama Dio e non se stesso, questi ama se stesso. Poiché chi non può vivere di se stesso, non può non morire amando se stesso: non ama dunque se stesso, chi si ama in modo da non vivere. Quando invece si ama colui da cui si ha la vita, non amando se stesso uno si ama di più, appunto perché invece di amare se stesso ama colui dal quale attinge la vita. Non siano dunque amanti di se stessi coloro che pascono le pecore di Cristo, per non pascerle come proprie, ma come di Cristo. E non cerchino di trarre profitto da esse, come fanno gli amanti del denaro; né di dominarle come i vanagloriosi o vantarsi degli onori che da esse possono ottenere, come gli arroganti; né come i bestemmiatori presumere di sé al punto da creare eresie; né, come i disobbedienti ai genitori, siano indocili ai santi padri; né, come gli ingrati, rendano male per bene a quanti vogliono correggerli per salvarli; né, come gli scellerati, uccidano l'anima propria e quella degli altri; né come gli empi, strazino le viscere materne della Chiesa; né, come i disamorati, disprezzino i deboli; né, come i calunniatori, attentino alla fama dei fratelli; né, come gli incontinenti, si dimostrino incapaci di tenere a freno le loro perverse passioni; né, come gli spietati, siano portati a litigare; né, come chi è senza benignità, si dimostrino incapaci a soccorrere; né, come fanno i traditori, rivelino agli empi ciò che si deve tenere segreto; né, come i procaci, turbino il pudore con invereconde esibizioni; né, come chi è accecato dai fumi dell'orgoglio, si rendano incapaci d'intendere quanto dicono e sostengono (1Tm 1,7); né, come gli amanti del piacere più che di Dio, antepongano i piaceri della carne alle gioie dello spirito. Tutti questi e altri simili vizi, sia che si trovino riuniti in uno stesso uomo, sia che si trovino sparsi qua e là, pullulano tutti dalla stessa radice, cioè dall'amore egoistico di sé. Il male che più d'ogni altro debbono evitare coloro che pascono le pecore di Cristo, è quello di cercare i propri interessi, invece di quelli di Gesù Cristo, asservendo alle proprie cupidigie coloro per i quali fu versato il sangue di Cristo. L'amore per

Cristo deve, in colui che pasce le sue pecore, crescere e raggiungere tale ardore spirituale da fargli vincere quel naturale timore della morte a causa del quale non vogliamo morire anche quando vogliamo vivere con Cristo. Lo stesso Apostolo ci dice infatti che brama essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (cf. Ph 1,23). Egli geme sotto il peso del corpo, ma non vuol essere spogliato, ma piuttosto sopravvestito, affinché ciò che è mortale in lui sia assorbito dalla vita (2Co 5,4). E il Signore a Pietro che lo amava predisse: quando sarai vecchio stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio. Stenderai le tue mani, dice il Signore, cioè sarai crocifisso; ma per giungervi un altro ti cingerà e ti porterà non dove tu vuoi, ma dove tu non vorresti. Prima predice il fatto, poi il modo. Non è dopo la crocifissione, ma quando lo portano alla croce che Pietro è condotto dove non vorrebbe; perché una volta crocifisso, non è più condotto dove non vorrebbe, ma al contrario, va dove desidera andare. Egli desiderava essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, ma, se fosse stato possibile, avrebbe voluto entrare nella vita eterna evitando le angosce della morte. E' contro il suo volere che lo costringono a subire queste angosce, mentre è secondo il suo desiderio che ne viene liberato. Egli va alla morte con ripugnanza, e la vince secondo il suo desiderio, e si libera dal timore della morte, talmente naturale che neppure la vecchiaia vale a liberarne Pietro, tanto che di lui dice il Signore: Quando sarai vecchio, verrai portato dove tu non vorresti. Per nostra consolazione il Salvatore stesso volle provare in sé anche questo sentimento, dicendo: Padre, se è possibile passi da me questo calice (Mt 26,39), lui che era venuto proprio per morire, e per il quale la morte non era una necessità, ma un atto della sua volontà, e in suo potere era dare la sua vita e riprenderla di nuovo. Ma per quanto grande sia l'orrore per la morte, deve essere vinto dalla forza dell'amore verso colui che, essendo la nostra vita, ha voluto sopportare per noi anche la morte. Del resto, se la morte non comportasse alcun orrore, non sarebbe grande, com'è, la gloria dei martiri. Se il buon pastore, che offri la sua vita per le sue pecore (Jn 10,18 Jn 11), ha potuto suscitare per sé tanti martiri da queste medesime pecore, con quanto maggiore ardore devono lottare per la verità fino alla morte, e fino a versare il proprio sangue combattendo contro il peccato, coloro ai quali il Signore affido le sue pecore da pascere, cioè da formare e da guidare? E, di fronte all'esempio della sua passione, chi non vede che i pastori debbono stringersi maggiormente al Pastore e imitarlo, proprio perché già tante pecore hanno seguito l'esempio di lui, cioè dell'unico Pastore sotto il quale non c'è che un solo gregge, e nel quale anche i pastori sono pecore? Egli ha fatto sue pecore tutti coloro per i quali accetto di patire, e al fine di patire per tutti si è fatto egli stesso pecora.

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