Le Beatitudini e i Comandamenti

Autore: Oliosi, Gino
Fonte: CulturaCattolica.it
martedì 8 maggio 2007

«Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l’etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell’Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (Mc 10,19; Lc 16,17), il Discorso della Montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure in iota o un segno, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5,17). Su questa frase, che solo in apparenza è in contraddizione con il messaggio paolino dovremo tornare dopo il dialogo tra Gesù e il rabbino. Intanto è sufficiente notare che Gesù non pensa di abolire il Decalogo, al contrario: lo rafforza» [Joseph Ratzinger Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, pp. 93-94].
Ma allora - si chiede Joseph Ratzinger Benedetto XVI - che cosa sono le Beatitudini? Le singole affermazioni delle Beatitudini nascono dallo sguardo di Gesù verso i discepoli; descrivono lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (Lc 6,20ss). Sono da intendere come qualificazioni pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli - di coloro che hanno seguito Gesù e sono diventati la sua famiglia.
Ma questa situazione empiricamente verificabile di minaccia incombente in cui Gesù vede i suoi si fa promessa, quando lo sguardo su di essa si illumina a partire dal Padre. Riferite alla comunità dei discepoli di Gesù, le Beatitudini rappresentano dei paradossi: i criteri mondani vengono capovolti non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo.
Le Beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che Gesù inaugura, il “rovesciamento dei valori”. Sono promesse escatologiche; questa espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente nell’aldilà. Se l’uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora un po’ di éschaton, di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire da Gesù entra la gioia nella tribolazione.
Lo sguardo su Paolo e Giovanni ci rende evidenti due verità. Le Beatitudini esprimono ciò che significa discepolato, lasciarsi assimilare a Cristo. Esse diventano tanto più concrete e reali quanto più completa è la dedizione al servizio da parte del discepolo, come possiamo esperimentare in Paolo: il loro significato non può essere spiegato in modo solo teorico: viene proclamato nella vita, nella sofferenza e nella gioia del discepolo, che si è donato interamente al seguito del Signore. In questo modo si palesa una seconda evidenza: il carattere cristologico delle Beatitudini: Il discepolo è legato al mistero di Cristo. La sua vita è immersa nella comunione con Lui: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Le Beatitudini sono la trasposizione della croce e della risurrezione nell’esistenza dei discepoli. La perfezione o tensione per giusti comportamenti in ogni ambito cioè l’essere santi come Dio è santo (Lev. 19,2; 11,44), richiesta dalla Torah, adesso consiste nel seguire, nel lasciarsi assimilare a Gesù. E’ l’equiparazione tra Gesù e Dio che si compie nei diversi passaggi del Discorso della Montagna. Il comandamento fondamentale di Israele (“Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto” (Mt 4,10; Dt 6,13) è anche il comandamento fondamentale dei cristiani: si deve adorare Dio solo e Gesù ci ha portato Dio, Dio nel suo volto umano, che rivela contemporaneamente chi è Dio e chi è l’uomo. Proprio questo sì incondizionato alla prima tavola del Decalogo include anche il sì alla seconda tavola, portata a compimento dal Discorso della montagna: il rispetto dell’uomo, l’amore per il prossimo.
Ma l’intelligenza delle Scritture - ha ricordato Benedetto XVI il 2 maggio 2007 rifacendosi al pensiero di Origene alessandrino - richiede, più ancora che lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto che la via privilegiata per conoscere Dio è l’amore, e che non si dia una autentica scientia Christi senza innamorarsi di Lui. L’interpretazione storico critica del testo scritturale della Torah e del Discorso della montagna, come di tutta la Bibbia, cerca di individuare con precisione il senso originario delle parole, quali erano intese nel loro luogo e nel loro tempo. Ma occorre tener presente che ogni parola umana di un certo peso reca in sé una rilevanza superiore alla immediata consapevolezza che può averne avuto l’autore al momento, tanto più per le parole che sono maturate nel processo della storia della fede. Lì l’autore non parla semplicemente da sé e per sé. Parla a partire da una storia comune che lo sostiene. Parla in una comunità viva dove la Rivelazione attraverso la Scrittura continua ad essere in atto. E questo è uno dei punti fondamentali della Dei Verbum non ancora entrato nella coscienza ecclesiale e a cui mira il prossimo Sinodo sulla Sacra Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa, il cui ordine del giorno è già stato annunciato con i Lineamenta.
All’ultima stesura della Dei Verbum del Concilio Vaticano II ha portato il proprio contributo il teologo Ratzinger, utilizzando la conoscenza dei Padri e l’argomento per la tesi di abilitazione “Il concetto di Rivelazione in Bonaventura”. La Rivelazione, fondamento della fede cristiana, si limita a ciò che Dio ha “rivelato” direttamente agli uomini, cioè a quanto hanno codificato nell’Antico Testamento e nei Vangeli e che l’interpretazione storico-critica del testo cerca di individuare? Lo affermava Lutero contro le presunte derive e gli abusi della Chiesa cattolica, predicando il ritorno alla “sola Scrittura”. E questa era diventata una prassi di tanti teologi: la rivelazione divina sarebbe un dato immutabile che si trasmette di generazione in generazione in modo molto scolastico, oggettivo.
Ma Ratzinger, rifacendosi ai Padri e alla riflessione sulla “rivelazione” di san Bonaventura e dei suoi contemporanei: “rivelazione” è l’atto con il quale Dio, attraverso la Scrittura e la Tradizione, si rivela e non solo il risultato che ne derivano i redattori della Sacra Scrittura. Spiega Ratzinger: “L’idea di rivelazione implica che qualcuno ne prenda coscienza (…) e ciò significa che la rivelazione precede la Scrittura, è contenuta in essa, ma senza identificarsi con essa”. La rivelazione, pur con un patrimonio oggettivo, non è fissata nel passato, ma è un cammino di Scrittura in atto che accompagna tutta la Tradizione, pur avendo concluso il cammino genetico dello scritto ispirato con il momento apostolico, cui continuamente rifarsi. Dal prossimo Sinodo Benedetto XVI, ma anche tutti i fedeli si attendono molto.

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