P. R. Cantalamessa. Beati i miti perché possiederanno la terra

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2007-03-16- Seconda predica di Quaresima alla Casa Pontificia




1. Chi sono i miti


La beatitudine sulla quale vogliamo meditare oggi si presta a una osservazione importante. Essa dice: “Beati i miti perché possiederanno la terra”. Ora, in un altro passo dello stesso vangelo di Matteo, Gesú esclama: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29). Ne deduciamo che le beatitudini non sono solo un bel programma etico che il maestro traccia, per così dire a tavolino, per i suoi seguaci; sono l’autoritratto di Gesú! È lui il vero povero, il mite, il puro di cuore, il perseguitato per la giustizia.


È qui il limite di Gandhi nel suo approccio al discorso della montagna che pure ammirava tanto. Per lui, esso potrebbe anche prescindere del tutto dalla persona storica di Cristo. “Non mi importerebbe nemmeno –egli disse in un’occasione – se qualcuno dimostrasse che l’uomo Gesú in realtà non visse mai e che quanto si legge nei Vangeli non è che frutto dell’immaginazione dell’autore. Perché il Sermone della montagna resterebbe pur sempre vero ai miei occhi” [1].


È, al contrario, la persona e la vita di Cristo che fanno delle beatitudini e dell’intero discorso della montagna qualcosa di più che una splendida utopia etica; ne fanno una realizzazione storica, da cui ognuno può attingere forza per la comunione mistica che lo lega alla persona del Salvatore. Non appartengono solo all’ordine dei doveri, ma anche a quello della grazia.


Per scoprire chi sono i miti proclamati beati da Gesú, giova passare brevemente in rassegna i vari termini con cui la parola miti (praeis) è resa nelle traduzioni moderne. L’italiano ha due termini: miti e mansueti. Quest’ultimo è anche il termine usato nelle traduzioni spagnole, los mansos, i mansueti. In francese la parola è tradotta con doux, alla lettera “i dolci”, coloro che possiedono la virtù della dolcezza. (Non esiste in francese un termine specifico per dire mitezza; nel “Dictionnaire de spiritualité” questa virtù è trattata alla voce douceur, dolcezza).


In tedesco si alternano diverse traduzioni. Lutero traduceva il termine con Sanftm?tigen, cioè miti, dolci; nella traduzione ecumenica della Bibbia, la Eineits Bibel, i miti sono coloro che non fanno alcuna violenza – die keine Gewalt anwenden-, dunque i non-violenti; alcuni autori accentuano la dimensione oggettiva e sociologica e traducono praeis con Machtlosen, gli inermi, i senza potere. L’inglese rende di solito praeis con the gentle, introducendo nella beatitudine la sfumatura di gentilezza e di cortesia.
Ognuna di queste traduzioni mette in luce una componente vera ma parziale della beatitudine. Bisogna tenerle insieme e non isolarne nessuna, per avere un’idea della ricchezza originaria del termine evangelico. Due associazioni costanti, nella Bibbia e nella parenesi cristiana antica, aiutano a cogliere il “senso pieno” di mitezza: una è quella che accosta tra loro mitezza e umiltà, l’altra quella che accosta mitezza e pazienza; l’una mette in luce le disposizioni interiori da cui scaturisce la mitezza, l’altra gli atteggiamenti che spinge ad avere nei confronti del prossimo: affabilità, dolcezza, gentilezza. Sono gli stessi tratti che l’Apostolo mette in luce parlando della carità: “La carità è paziente, è benigna, non manca di rispetto, non si adira…” (1 Cor 13, 4-5).


2. Gesú, il mite


Se le beatitudini sono l’autoritratto di Cristo, la prima cosa da fare nel commentare una di esse è di vedere come è stata vissuta da lui. I vangeli sono da un capo all’altro la dimostrazione della mitezza di Cristo, nel suo duplice aspetto di umiltà e di pazienza. Egli stesso, abbiamo ricordato, si propone a modello di mitezza. A lui Matteo applica le parole dette del Servo di Dio in Isaia: “Non discuterà, né griderà, non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante” (cf. Mt 12, 20). Il suo ingresso in Gerusalemme cavalcando un’asina è visto come un esempio di re “mite” che rifugge da ogni idea di violenza e di guerra (cf. Mt 21, 4).


La prova massima della mitezza di Cristo si ha nella sua passione. Nessun moto d’ira, nessuna minaccia: “Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta” (1 Pt 2, 23). Questo tratto della persona di Cristo si era talmente stampato nella memoria dei suoi discepoli che san Paolo, volendo scongiurare i Corinzi per qualcosa di caro e di sacro, scrive loro: “Vi esorto per la mitezza (prautes) e la benignità (epieikeia) di Cristo” (2 Cor 10, 1).


Ma Gesú ha fatto ben più che darci un esempio di mitezza e pazienza eroica; ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera grandezza. Questa non consisterà più nell’elevarsi solitari sugli altri, sulla massa, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Sulla croce, dice Agostino, egli rivela che la vera vittoria non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima, “Victor quia victima” [2].


Nietzsche, si sa, si è opposto a questa visione, definendola una “morale da schiavi”, suggerita dal “risentimento” naturale dei deboli verso i forti. Predicando l’umiltà e la mitezza, il farsi piccoli, il porgere l’altra guancia, il cristianesimo avrebbe introdotto, secondo lui, una specie di cancro nell’umanità che ne ha spento lo slancio e mortificato la vita…


Da qualche tempo si assiste al tentativo di assolvere Nietzsche da ogni accusa, di addomesticarlo e perfino di cristianizzarlo. Si dice che in fondo egli non se la prende contro Cristo, ma contro i cristiani che in certe epoche hanno predicato una rinuncia fine a se stessa, disprezzando la vita e infierendo contro il corpo…Tutti avrebbero travisato il vero pensiero del filosofo, a cominciare da Hitler…In realtà egli sarebbe stato un profeta dei tempi nuovi, il precursore dell’era postmoderna.


È rimasta, si può dire, una sola voce a opporsi a questa tendenza, quella del pensatore francese René Girard. Secondo lui, tutti questi tentativi fanno torto anzitutto a Nietzsche. Con una perspicacia davvero unica, per il suo tempo, egli ha colto il vero nocciolo del problema, l’alternativa irriducibile tra paganesimo e cristianesimo.


Il paganesimo esalta il sacrificio del debole a favore del forte e dell’avanzamento della vita; il cristianesimo esalta il sacrificio del forte a favore del debole. È difficile non vedere un nesso oggettivo tra la proposta di Nietzsche e il programma hitleriano di eliminazione di interi gruppi umani per l’avanzamento della civiltà e la purezza della razza.


Non è dunque soltanto il cristianesimo il bersaglio del filosofo, ma anche Cristo. “Dioniso contro il crocifisso”: eccovi l’antitesi”, esclama in uno dei suoi frammenti postumi [3].


Girard dimostra che quello che forma il più grande vanto della società moderna –la preoccupazione per le vittime, lo stare da parte del debole e dell’oppresso, la difesa della vita minacciata- è in realtà un prodotto diretto della rivoluzione evangelica che però, per un paradossale gioco di rivalità mimetiche, viene ora rivendicato da altri movimenti, come conquista propria, in opposizione addirittura al cristianesimo [4].


Non è vero che il vangelo mortifica il desiderio di fare grandi cose e di primeggiare. Gesú dice: “Se qualcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9, 35). È dunque lecito, e anzi raccomandato, di voler essere il primo; solo il cammino per giungervi è cambiato: non elevandosi sopra gli altri, magari schiacciandoli se sono di ostacolo, ma abbassandosi per elevare gli altri insieme con sé.


3. Mitezza e tolleranza


La beatitudine dei miti è diventata di straordinaria rilevanza nel dibattito su religione e violenza, accesosi dopo l’11 Settembre. Essa ricorda, anzitutto a noi cristiani, che il vangelo non lascia spazio a dubbi. Non ci sono in esso esortazioni alla non violenza, mescolate a esortazioni contrarie. I cristiani possono, in certe epoche, aver tralignato su ciò, ma la fonte è limpida e ad essa la Chiesa può tornare a ispirarsi a ogni epoca, sicura di non trovarvi che verità e santità.


Il vangelo dice che “chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16), ma condannato in cielo, non in terra, da Dio non dagli uomini. “Quando vi perseguiteranno in una città –dice Gesù – fuggite in un’altra” (Mt 10,23); non dice: “mettetela a ferro e fuoco”. Una volta, due suoi discepoli, Giacomo e Giovanni, che non erano stati ricevuti in un certo villaggio di samaritani, dissero a Gesú: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Gesú, è scritto, “si voltò e li rimproverò”. Molti manoscritti riportano anche il tenore del rimprovero: “Voi non sapete di che spirito siete. Poiché il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle” (cf. Lc 9, 53-55).


Il famoso compelle intrare, “costringeteli a entrare”, con cui sant’Agostino, anche se a malincuore [5], giustifica la sua approvazione delle leggi imperiali contro i Donatisti [6] e che servirà in seguito a giustificare la coercizione nei confronti degli eretici, è dovuta a una evidente forzatura del testo evangelico, frutto di una lettura meccanicamente letterale della Bibbia.

La frase è messa da Gesú in bocca all’uomo che aveva preparato una grande cena e, di fronte al rifiuto degli invitati di venire, dice ai servi di andare per le strade e lungo le siepi e di “costringere poveri, storpi, ciechi e zoppi ad entrare” (cf. Lc 14, 15-24). È chiaro che costringere non significa altro, nel contesto, che fare una amabile insistenza. I poveri e gli storpi, come tutti gli infelici, potrebbero sentirsi imbarazzati a presentarsi così male in arnese al palazzo: vincete la loro resistenza, raccomanda il padrone, dite loro che non abbiano paura ad entrare. Quante volte, in circostanze simili, noi stessi abbiamo detto: “Mi ha costretto ad accettare”, sapendo bene che l’insistenza in questi casi è segno di benevolenza, non di violenza.


In un libro-inchiesta su Gesú che tanta eco ha suscitato ultimamente in Italia si attribuisce a Gesú la frase: “E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me” (Lc 19, 27) e se ne deduce che “è a frasi come queste che si rifanno i sostenitori della ‘guerra santa” [7]. Ora va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesú, ma al re della parabola e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesú non è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c’entra proprio.


4. Con mitezza e rispetto


Ma lasciamo da parte queste considerazioni di ordine apologetico e cerchiamo di vedere come fare della beatitudine dei miti una luce per la nostra vita cristiana. C’è una applicazione pastorale della beatitudine dei miti che inizia già con la Prima Lettera di Pietro. Essa riguarda il dialogo con il mondo esterno: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con mitezza (prautes) e rispetto” (1 Pt 3,15-16).


Vi sono stati fin dall’antichità due tipi di apologetica, uno che ha il suo modello in Tertulliano, l’altro in Giustino; l’uno mira a vincere, l’altro a convincere. Giustino scrive un Dialogo con Trifone giudeo, Tertulliano (o un suo discepolo) scrive un trattato Contro i giudei, Adversus Judeos. Tutti e due questi stili hanno avuto un seguito nella letteratura cristiana (il nostro Giovanni Papini era certamente più vicino a Tertulliano che a Giustino), ma certo oggi è da preferire il primo. L’enciclica Deus caritas est dell’attuale Sommo Pontefice è un esempio luminoso di questa presentazione rispettosa e costruttiva dei valori cristiani che da ragione della speranza cristiana “con mitezza e rispetto”.
Il martire sant’Ignazio d’Antiochia suggeriva ai cristiani del suo tempo, nei confronti del mondo esterno, questo atteggiamento sempre attuale: “Davanti alla loro ira, siate miti; di fronte alla loro boria, siate umili” [8].


La promessa legata alla beatitudine dei miti – “possederanno la terra” - si realizza su diversi piani, fino alla terra promessa definitiva che è la vita eterna, ma certamente uno dei piani è quello umano: la terra sono i cuori degli uomini. I miti conquistano la fiducia, attirano gli animi. Il santo per eccellenza della mitezza e della dolcezza, san Francesco di Sales, soleva dire: “Siate più dolci che potete e ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”.


5. Imparate da me


Si potrebbe insistere a lungo su queste applicazioni pastorali della beatitudine dei miti, ma passiamo a un’applicazione più personale. Gesú dice: “Imparate da me che sono mite”. Si potrebbe obbiettare: ma Gesú non si è mostrato, lui stesso, sempre mite! Dice per esempio di non opporsi al malvagio, e “a chi ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra” (Mt 5, 39). Quando però una delle guardie percosse lui sulla guancia, durante il processo davanti al Sinedrio, non è scritto che porse l’altra, ma con calma rispose: “Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23).


Questo significa che non tutto nel discorso della montagna va preso meccanicamente alla lettera; Gesú, secondo il suo stile, usa delle iperboli e un linguaggio immaginifico per meglio imprimere nella mente dei discepoli una certa idea. Nel caso del porgere l’altra guancia, per esempio, l’importante non è il gesto di porgere l’altra guancia (che a volte può perfino apparire provocatorio), ma di non rispondere alla violenza con altra violenza, di vincere l’ira con la calma.


In questo senso, la sua risposta alla guardia è l’esempio di una mitezza divina. Per misurarne la portata, basta confrontarla con la reazione del suo apostolo Paolo (che pure era un santo) in una situazione analoga. Quando, nel processo davanti al sinedrio, il sommo sacerdote Anania ordina di percuotere Paolo sulla bocca, egli risponde: “Dio percuoterà te, muro imbiancato” (Atti 23, 2-3).


Un altro dubbio va chiarito. Nello stesso discorso della montagna Gesù dice: “Chi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5, 22). Ora più volte nel vangelo egli si rivolge agli scribi e ai farisei chiamandoli “ipocriti, stolti e ciechi” (cf. Mt 23, 17; rimprovera i discepoli chiamandoli “sciocchi e tardi di cuore” (cf. Lc 24, 25).


Anche qui la spiegazione è semplice. Bisogna distingue tra l’ingiuria e la correzione. Gesú condanna le parole dette con rabbia e con l’intenzione di offendere il fratello, non quelle che mirano a fare prendere coscienza del proprio errore e a correggere. Un padre che dice al figlio: sei un indisciplinato, un disobbediente, non intende offenderlo, ma correggerlo. Mosè viene definito dalla Scrittura “più mansueto di ogni uomo che è sulla terra” (Num 12,3), eppure nel Deuteronomio lo sentiamo esclamare rivolto a Israele: “Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente?” (Dt 32,6).


Quello che decide è se chi parla parla per amore o per odio. “Ama e fa’ ciò che vuoi”, diceva sant’Agostino. Se ami, sia che correggi, sia che lasci correre, sarà amore. L’amore non fa alcun male al prossimo, dalla radice dell’amore, come da albero buono, non possono nascere che frutti buoni [9].


6. Miti di cuore


Siamo giunti così al terreno proprio della beatitudine dei miti, il cuore. Gesù dice: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore”. La vera mitezza si decide lì. È dal cuore, dice, che provengono omicidi, cattiverie, calunnie (Mc 7, 21-22), come dai ribollimenti interni del vulcano fuoriescono lava, cenere e lapilli infuocati. Le più grandi esplosioni di violenza, come le guerre e liti, cominciano, dice san Giacomo, segretamente dalle “passioni che si agitano dentro il cuore dell’uomo” (cf. Gc 4, 1-2). Come esiste un adulterio del cuore, così esiste un omicidio del cuore: “Chiunque odia il proprio fratello, scrive Giovanni, è omicida” (1 Gv 3,15).


Non c’è solo la violenza delle mani, c’è anche quella dei pensieri. Dentro di noi, se ci facciamo caso, si svolgono quasi in continuazione “processi a porte chiuse”. Un monaco anonimo ha delle pagine di una grande penetrazione a questo riguardo. Parla da monaco, ma quello che dice non vale solo per i monasteri; porta l’esempio dei sudditi, ma è evidente che il problema si pone in altro modo anche per i superiori.


“Osserva, dice, anche per un solo giorno, il corso dei tuoi pensieri: ti sorprenderà la frequenza e la vivacità delle tue critiche interne con immaginari interlocutori, se non altro con quelli che ti stanno vicino. Qual è di solito la loro origine? Questo: lo scontento a causa dei superiori che non ci vogliono bene, non ci stimano, non ci capiscono; sono severi, ingiusti o troppo gretti con noi o con altri ‘oppressi’. Siamo scontenti dei nostri fratelli, ‘senza comprensione, cocciuti, sbrigativi, confusionari o ingiuriosi…Allora nel nostro spirito si crea un tribunale, nel quale siamo procuratore, presidente, giudice e giurato; raramente avvocato, se non a nostro favore. Si espongono i torti; si pesano le ragioni; ci si difende e ci si giustifica; si condanna l’assente. Forse si elaborano piani di rivincita o raggiri vendicativi…” [10].


I Padri del deserto, non dovendo lottare contro nemici esterni, hanno fatto di questa battaglia interiore ai pensieri (i famosi logismoi) il banco di prova di ogni progresso spirituale. Hanno anche elaborato un metodo di lotta. La nostra mente, dicevano, ha la capacità di precorrere lo svolgimento di un pensiero, di conoscere, fin dall’inizio, dove andrà a parare: se a scusa del fratello o a sua condanna, se a gloria propria, o a gloria di Dio. “Compito del monaco –diceva un anziano – è vedere giungere da lontano i propri pensieri” [11], s’intende per sbarrare loro la strada, quando non sono conformi alla carità. Il modo più semplice di farlo è di dire una breve preghiera o mandare una benedizione all’indirizzo della persona che siamo tentati di giudicare. Dopo, a mente serena, si potrà valutare se e come agire nei suoi confronti.


7. Rivestirsi della mitezza di Cristo


Un’osservazione prima di concludere. Per loro natura, le beatitudini sono orientate alla pratica; fanno appello all’imitazione, accentuano l’opera dell’uomo. C’è il rischio che si resti scoraggiati nel costatare l’incapacità di attuarle nella propria vita e la distanza abissale che c’è tra l’ideale e la pratica.


Si deve richiamare alla mente quello che si diceva all’inizio: le beatitudini sono l’autoritratto di Gesú. Egli le ha vissute tutte e in grado sommo; ma – e qui sta la buona notizia – non le ha vissute solo per se, ma anche per tutti noi. Nei confronti delle beatitudini, non siamo chiamati solo all’imitazione, ma anche all’appropriazione. Nella fede possiamo attingere dalla mitezza di Cristo, come dalla sua purezza di cuore e da ogni altra sua virtù. Possiamo pregare per avere la mitezza, come Agostino pregava per avere la castità: “O Dio, tu mi comandi di essere mite; dammi ciò che mi comandi e comandami ciò che vuoi”[12].


“Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine (prautes), di pazienza” (Col 3,12), scrive l’Apostolo ai Colossesi. La mansuetudine e la mitezza sono come un vestito che Cristo ci ha meritato e di cui, nella fede, possiamo rivestirci, non per essere dispensati dalla pratica, ma per animarci ad essa. La mitezza (prautes) è posta da Paolo tra i frutti dello Spirito (Gal 5, 23), cioè tra le qualità che il credente mostra nella propria vita, quando accoglie lo Spirito di Cristo e si sforza di corrispondervi.


Possiamo dunque terminare ripetendo insieme con fiducia la bella invocazione delle litanie del S. Cuore: “Gesú, mite ed umile di cuore, rendi il nostro cuore simile al tuo”: Jesu, mitis et humilis corde: fac cor nostrum secundum cor tutum.




[1] Gandhi, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo, Roma, Tascabili Newton Compton, 1993, p. 53.

[2] S. Agostino, Confessioni, X, 43.

[3] F. Nietzsche, Opere complete, VIII, Frammenti postumi 1888-1889, Adelphi, Milano 1974, p. 56.

[4] R. Girard, Vedo Satana cadere come folgore, Milano, Adelphi, 2001, pp. 211-236.

[5] S. Agostino, Epistola 93, 5: “Dapprima ero del parere che nessuno dovesse essere condotto per forza all’unità di Cristo, ma si dovesse agire solo con la parola, combattere con la discussione, convincere con la ragione”.

[6] Cf. S. Agostino, Epistole 173, 10; 208, 7.

[7] Corrado Augias – Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù. Mondadori, Milano 2006, p.52.

[8] S. Ignazio d’Antiochia, Agli Efesini, 10,2-3.

[9] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 7,8 (PL 35, 2023).

[10] Un monaco, Le porte del silenzio, Ancora, Milano 1986, p. 17 (Originale: Les porte du silence, Libraire Claude Martigny, Genève).

[11] Detti e fatti dei Padri del deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Rusconi, Milano 1979, p. 66.

[12] Cf. S. Agostino, Confessioni, X, 29.

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