Una croce come trono, Una decapitazione come corona

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L'inno di Ambrogio per la memoria dei santi Pietro e Paolo

Una croce come trono
Una decapitazione come corona


di Inos Biffi

Quando Ambrogio compone per i suoi fedeli di Milano l'inno per la memoria dei santi Pietro e Paolo, che essi celebravano, si avverte che il suo affettuoso pensiero è rivolto alla Chiesa di Roma, il luogo fisico del loro martirio e dei loro sepolcri, di cui non cesserà mai di subire il fascino.
Sembrano tornare alla mente del vescovo l'emozionante ricordo e la gioiosa visione della festa, che in loro onore era solennemente celebrata nell'Urbe, la patria della sua gens e della sua fede, che non ha mai cessato di portare nel cuore e che, non senza compiacenza, al termine dell'inno definirà come l'"eletta, capo ai popoli, / e sede del maestro delle genti!".
Il cardinale Schuster - lui pure romano diventato arcivescovo di Milano - esaminando l'L'idea di Roma nella Liturgia di sant'Ambrogio, scriveva: "Il mio stato d'animo mi fa pensare che Ambrogio, anche a Milano, pensasse romanamente, e vivesse in un mondo che era assai più vasto del quadrilatero della Mediolanum Gallica", aggiungendo: "Fuori della cerchia delle mura (di Milano) si snoda la via romana, bella inizialmente con un magnifico porticato e un arco trionfale. Spingendo più giù lo sguardo, Ambrogio cerca tuttavia di scoprire la città dei sette colli con lo sfondo della basilica di San Pietro. Quasi a rifarsene, al principio stesso della via romana erige il suo Apostoleion in onore dei santi apostoli, e lo consacra con le reliquie che gli apporta da Roma il prete Simpliciano".
Ma veniamo all'inno: la passione dei due apostoli - incomincia - ha reso santo un giorno comune e secolare (dies saeculi). Gli "eventi divini (facta divina)", secondo Ambrogio, trasfigurano i giorni degli uomini, e così è avvenuto per il martirio di Pietro, una sconfitta diventata gloriosa vittoria (è ambrosiana l'espressione: sanguis triumphalis), e per quello di Paolo, che gli ha meritato la corona del "buon atleta". "Con il trionfo nobile (triumphus nobilis) di Pietro / - inizia dunque in tono lieto e vibrante il canto, con un verso che verrà citato da Agostino - e la corona di Paolo (Pauli corona) / la passione degli apostoli / questo, esaltando, consacrò tra i giorni".
Ambrogio si compiace di mettere in luce la parità dei due apostoli, assimilati e uniti dall'effusione del sangue, e incoronati dalla fede in Cristo, che ugualmente li aveva fatti discepoli del Signore: "Una morte cruenta e gloriosa (cruor triumphalis necis) / li assimilò e congiunse; / la fede in Cristo incoronò gli eroi / che alla divina sequela si posero". Più volte il vescovo di Milano sottolinea la natura gloriosa del martirio ed è abituale in lui connotare col tratto della trionfalità la morte dei martiri, che, imitando la preziosa effusione del sangue di Cristo - il pretiosus cruor Domini - ha dentro di sé lo splendido pegno della vittoria. Così, egli parla di cruor triumphalis e di victimae triumphales riguardo a Protaso e Gervaso, di proelium triumphale, di triumphales gemitus, di triumphalia vulnera a proposito dei fratelli Maccabei. E, infatti, la croce di Pietro si trasforma nel trono di un re vittorioso e la decapitazione di Paolo diventa una corona.
Sullo stesso tema della parità dei due apostoli prosegue la strofa successiva, con i richiami biblici su Pietro, nominato nei vangeli come primo - "Primo Simone, chiamato Pietro" (Matteo 10, 12) - al quale appartiene il primato passato alla Chiesa di Roma, e su Paolo, definito negli Atti "vaso di elezione" (9, 15), equiparato a Pietro nella grazia e nella fede: "Il primo apostolo è Pietro, / ma non minore è Paolo per grazia, / che fu santo strumento di elezione / e Pietro eguagliò nella fede".
Ambrogio afferma più volte nei suoi scritti questa loro uguaglianza: "Un'identica grazia rifulgeva in coloro che l'unico Spirito aveva eletto. Né Paolo fu inferiore a Pietro, benché quello fosse il fondamento della Chiesa e questi il sapiente architetto".
Sul tipo di morte a cui andò incontro Paolo l'inno non dice nulla, mentre, intessendo le notizie degli Atti di Pietro e i passi del Vangelo di Giovanni, si sofferma su quella di Simone, che subì lo stesso martirio di Gesù, la crocifissione, ma "su capovolta croce", o sulla croce dal piede capovolto (verso crucis vestigio).
Egli, glorificando Dio, senza resistenza e spontaneamente (volens), vi salì, a somiglianza di Gesù che, allo stesso modo, "ascese sulla croce" - come canta l'inno ambrosiano all'ora di terza - e avverò così le parole profetiche del Signore: "In verità, in verità ti dico: "Quand'eri giovane, ti annodavi da te la cintura e andavi dove volevi. Ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti annoderà la cintura e ti condurrà dove tu non vuoi". Questo disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio" (Giovanni 21, 18-19).
Ambrogio trasforma in chiari versi didascalici questa profezia: "Su capovolta croce / ascende Simone, e sospeso / glorifica Dio, non dimentico / del vaticinio antico. / Secondo il detto, vecchio ormai fu cinto / ed elevato da un altro; / condotto dove non vorrebbe, docile / vinse una morte crudele". Anche nel caso di Pietro, come di tutti i martiri, e anzitutto di Gesù Cristo, la morte non ottiene il sopravvento, ma subisce la sconfitta.
L'interesse del poeta si intrattiene ora sulle felici conseguenze di quella "morte crudele" per la città di Roma: edificata sul sangue di Pietro e resa illustre da così eccellente vescovo - o, se ci si riferisce a Paolo, dalla figura di tanto dottore - l'Urbe e pervenuta all'apice della fede cristiana: "Su tale sangue fondata, / nobilitata da tanto vescovo, / Roma ha toccato l'eccelso vertice / della pietà religiosa (celsum verticem devotionis)".
Essa ha, così, rinnovato le ragioni del suo prestigio e della sua celebrità: in questi versi "il poeta cristiano fonde parecchi ricordi virgiliani, tra cui una famosa esaltazione della Roma di Augusto. E, tuttavia, non si tratta più della Roma pagana e della sua grandezza materiale, ma della Roma cristiana e della sua grandezza religiosa (Duval)".
A questo punto, quasi migrando da questa sua Chiesa, Ambrogio si sente trasportato alle festose e animate celebrazioni romane dei due apostoli. Egli le ha conservate fisse nella memoria e si direbbe le voglia descrivere ai milanesi, che una volta rimprovererà per averne disertato la veglia e trascurato il digiuno in loro onore.
Egli rivede l'intera città animata e rigurgitante di fedeli, che si riversano lungo le tre vie che portano ai loro luoghi di culto: la via Trionfale o Aurelia, dove è sepolto Pietro, la via Ostiense, dove si trova Paolo, e la via Appia, alle catacombe di san Sebastiano, presso le quali, secondo la testimonianza di Papa Damaso (vescovo di Roma dal 366 al 384), in circostanze o modalità che non ci sono note, avevano abitato i due apostoli (habitasse [...] cognoscere debes). "Folle di popolo fitte si muovono / per l'ampia distesa dell'Urbe: / su tre diverse strade si celebra / la festa dei martiri santi".
Nello spettacolo di tanta gente che si accalca nell'Urbe per venerare i due apostoli, al poeta sembra di vedere sia lo stiparsi dei fedeli di tutta la terra sia l'affluire con loro anche degli angeli: "Pare qui si riversi il mondo intero / e accorra insieme la schiera celeste". Da qui la triplice e appassionata acclamazione rivolta alla città di Roma, che, per i meriti di Pietro e di Paolo, è stata elevata a una dignità e a una grandezza nuova: "Eletta, capo ai popoli, e sede del maestro delle genti!".
Roma è l'"Eletta": e il titolo richiama la Prima lettera di Pietro che, secondo alcune versioni, lo assegna alla Chiesa romana, "l'eletta che è in Babilonia" (5, 13). Essa è "capo ai popoli": come altrove la definisce lo stesso Ambrogio, che parla della "Chiesa di Roma capo di tutto il mondo romano" e della "sacrosanta fede degli apostoli", da cui "si diffondono in tutte le Chiese i princìpi che stabiliscono la venerabile comunione che le unisce".
Roma è, infine, la "sede del maestro delle genti", ossia di Pietro, ed è ancora Ambrogio a riconoscere la "Chiesa romana (Ecclesia romana)" come la "custode intemerata del simbolo degli apostoli", dove "fu vescovo" e "dove siede il primo degli apostoli, Pietro", e ad affermare che "non possiede l'eredità di Pietro chi non possiede la sede di Pietro".
Un inno come l'Apostolorum passio, col suo calore e la sua passione, poteva sgorgare solo dalla penna e dalla vena poetica di un poeta che aveva l'animo colmo di ammirazione per la fede di quella Chiesa, che conservava la memoria viva della sua pietà e si sentiva fiero di provenire da essa, anche se, prima dell'elezione all'episcopato di Milano, non vi aveva ancora fatto intimamente parte, non essendo ancora battezzato. Anche in quest'inno, che tutto "rivela mentalità, linguaggio e arte di sant'Ambrogio" (Schuster), sono fusi, in felice composizione, un'ortodossia limpida e precisa - come il riconoscimento alla Chiesa Romana del primato della fede a motivo di Pietro - i riferimenti della storia, con, forse, alcuni elementi di leggenda, e, sullo sfondo, a conferire slancio e vivacità, alcuni accenti o allusioni di autobiografia e di ricordi.



(©L'Osservatore Romano - 29 giugno 2008)

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