Paolo di Tarso, Apostolo delle Genti

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Il primo, dopo l’Unico - introduzione
È molto significativo che il prefazio ambrosiano della memoria liturgica del 29 giugno unisca Pietro e Paolo «in gioiosa fraternità», perché «con doni diversi hanno edificato l’unica Chiesa... e condividono la stessa corona di gloria», quella del martirio. Le due lampade, le due colonne, hanno dato «alla Chiesa le primizie della fede cristiana» (1° Orazione), Già s. Agostino motivava tale accostamento: «Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli. Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione» (Discorso 295, 7s: PL 1352). A sua volta, papa Leone Magno ribadirà la loro inseparabilità e reciproca integrazione: «Dei loro meriti e delle loro virtù, superiori a quanto si possa dire, nulla dobbiamo pensare che li opponga, nulla che li divida, perché l’elezione li ha resi pari, la fatica simili e la fine uguali» (In natali apostoli 69, 6-7). Ancora papa Leone ricorderà che, fin dai primi secoli, Pietro e Paolo vennero considerati i fondatori della Chiesa di Roma, come a Romolo e Remo si faceva risalire la fondazione della città: «Sono questi i tuoi santi padri, i tuoi veri pastori, che per farti degna del regno dei cieli, hanno edificato molto più bene e più felicemente di coloro che si adoperarono per gettare le prime fondamenta delle tue mura» (Omelie, 82. 7). (Analoghe espressioni in Giovanni Crisostomo, Commento a Rom., 32). Come quella di Pietro, infatti, la vicenda di Paolo fa corpo unico con la storia del cristianesimo nascente. La comprensione di esso è in larga parte decisa dalla comprensione dell’iniziativa di Paolo e delle reazioni che ha provocato.

Nei 2000 anni che ci separano dal “tredicesimo apostolo”, i molti profili che di lui si son tracciati mettono tutti in risalto l’eccezionale figura del “primo, dopo l’Unico”; ma documentano anche la sconcertante possibilità di darne valutazioni contrastanti.
Chi lo esalta come possente genio teologico che coglie per primo l’intero progetto salvifico centrato in Cristo (nelle lettere ai Colossesi e agli Efesini); come l’instancabile missionario dell’Annuncio a tutti i popoli, già nell’arco della prima generazione cristiana (cf. la seconda parte degli Atti degli Apostoli); come il maestro della “sana dottrina” pastorale (nelle lettere a Timoteo e a Tito); come il mistico ispiratore del cristianesimo quale religione della carità e della verginità; come il glorioso martire a Roma (Clemente Romano, Ignazio d’Antiochia); come superiore a molti angeli ed arcangeli (G. Crisostomo, Panegirico, 7, 3) e come incarnazione dello Spirito Santo (l’eretico spagnolo Migezio, sec. VIII); come il “vaso di elezione” (D. Alighieri, Inferno. 2, 28; riferendosi a At 9,15); come il predicatore più audace di ogni tempo (M. Lutero, Tischreden 2, 277). Anche le biografie di divulgazione ricorrono a titoli risonanti: Il conquistatore di Cristo (D. Rops, 1951), La spada santa (J. Dobrawczynski, 1957), Il leone di Dio (T. Caldwell, 1970). Fino ai teologi che ne fanno il vero (o secondo) fondatore del cristianesimo (W. Wrede, Paulus, 1904).
Chi lo avversa accanitamente, facendone l’antagonista di Pietro e del particolarismo dei primi cristiani a Gerusalemme (F.C. Baur, 1860); il portatore di un falso evangelo, di una “cattiva novella” (“disvangelista”, così lo bollerà F. Nietzsche, Anticristo, 1890); il primo eretico della storia cristiana (gli ebioniti - per i quali Cristo è soltanto un uomo - e i fedeli alle prescrizioni giudaiche). Verso la fine del secondo secolo, Ireneo di Lione ne difenderà la figura e l’insegnamento, scagionandolo dal sospetto di essere gnostico o seguace di Marcione. È rimasto comunque sconosciuto in non pochi scritti cristiani delle origini, come i vangeli sinottici, l’opera giovannea ed altri ancora.



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Le fonti documentarie alle quali attingere notizie di Paolo fanno di lui la figura più nota, chiara e viva nella Chiesa delle origini. I biblisti più recenti ne distinguono di tre tipi.

Le 7 Lettere autentiche (1 Tessalonicesi, la e 2a Corinti, ai Filippesi, a Filemone, ai Galati, ai Romani) sono le più interessanti e utili: sono scritte da lui personalmente negli anni 50 del 1° secolo, riflettono maggiormente la propria personalità, umana e teologica oltre che letteraria.

Le 6 Lettere di tradizione paolina (2a Tessalonicesi, ai Colossesi, agli Efesini, la e 2a Timoteo, a Tito), attribuite a varie figure di discepoli posteriori, il cui pensiero però rispecchiava fedelmente il pensiero del maestro, come si usava nell’antichità orientale e greca. La mancanza di paternità diretta è motivata da ragioni stilistiche, da alcune diverse concezioni riguardanti soprattutto Cristo e la Chiesa, dalla non armonica successione degli avvenimenti biografici.

Gli Atti degli Apostoli, che a partire dal cap. 13 sono in pratica gli Atti di Paolo, dalla «conversione» sulla strada di Damasco fino al suo arrivo a Roma come prigioniero. Anche qui qualche discrepanza - di pensiero e di successione di fatti - va attribuita alla redazione di Luca, che ha scritto solo negli anni 80 e non sempre fu compagno di viaggio dell’apostolo.
Non si può far credito ai numerosi scritti apocrifi recanti il nome di Paolo. I più importanti sono: gli Atti di Paolo, risalenti alla fine del 2° secolo, che narrano lunghe peripezie in varie città, da Damasco a Roma; l’Apocalisse di Paolo, databile tra il 3° e il 4° secolo, che descrive l’attuale condizione dei defunti nell’aldilà (ad essa si è forse ispirato Dante, Inferno, 2, 28-30); un’altra Apocalisse di Paolo, risalente al 2°secolo, è stata rinvenuta 50 anni fa nei manoscritti copti di Nag Hammadi.
Tacciono del tutto gli scrittori giudaici e greco-romani dell’epoca (Giuseppe Flavio, Filone d’Alessandria, manoscritti di Qumran). Sono però utili per conoscere gli usi ebraici e la società pagana che Paolo voleva condurre alla fede in Cristo.


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«Sono giudeo, nato a Tarso in Cilicia, cittadino di una città che non è senza fama» (At 21, 29; cf At 22, 3), situata tra l’Anatolia e la Siria, nell’attuale Turchia centro-meridionale. Allora Tarso era capitale della provincia romana della Cilicia, centro culturale-sociale-politico molto ambizioso e dalle connotazioni religiose in parte orientali e in parte ellenistiche. La sua famiglia è ebrea della tribù di Beniamino (cf. Rom 11,1) e appartiene alla locale colonia della ”dispersione d’Israele” (diàspora), sempre molto impegnata nel fare ”proseliti” (convertiti all’ebraismo, osservanti e circoncisi) e ”timorati di Dio” (monoteisti e osservanti, ma non circoncisi)
Quando? Agli inizi dell’era cristiana, tra il 7 e il 10 d. C., calcolando che Paolo stesso si dichiarava «vecchio» nel biglietto scritto a Filemone (v. 9) verso il 63 d. C., ed era «un giovane» (At 7, 58) quando venne lapidato Stefano, circa il 35-36 d. C.

Il nome ebraico Saul (invocato, chiamato), come quello del primo re d’Israele (cf At 13, 21), è testimoniato negli Atti fino ad At 13,9. Poi lascia il posto al nome romano Paolo (”piccolo”, ”poco”). In realtà, i giudei della diàspora portavano spesso due nomi, giudaico e greco.

Il ruvido mestiere di lavoratore del cuoio per costruire tende o altri oggetti (cf At 18, 3), gli è stato probabilmente trasmesso dal padre. L’apprese tra i 13 o i 15 anni, giusto il detto rabbinico: «Chiunque non insegna a suo figlio un lavoro, gli insegna ad essere ladro» (Tos. Qidd. 1, 11). Paolo parlerà spesso del suo lavoro manuale, «notte e giorno»: «Vi ricordate, fratelli, l’arduo lavoro e la fatica nostra» (1Tess 2, 9; cf anche 2Tes 3, 8; 1Cor 4, 12; 2Cor 11, 27). Questo gli permetterà di non gravare sulle sue Chiese per provvedere ai bisogni economici personali e dei collaboratori (cf At 20, 34; 1Tes 2, 9; 1Cor 4, 12; 9, 7-15; 2Cor 12, 13-14).

Il ritratto fisico è tracciato nell’apocrifo Atti di Paolo e di Tecla, testimonianza della pietà popolare alla fine del 2° secolo: «Era un uomo di bassa statura, la testa calva e le gambe storte, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità; a volte, infatti, aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo». Risalgono al 4° secolo i ritratti iconografici a noi giunti: vi è espressa l’intenzione di rappresentare il filosofo cristiano, dotandolo di barba. Come scrisse s. Agostino: «La barba è segno dei forti, la barba indica i giovani, gli strenui, le persone attive, gli uomini vivaci (Enar. in Ps. 132). Per quanto riguarda il suo temperamento, oggi gli psicologi lo classificherebbero come un ”passionale”, un emotivo attivo secondario, cioè il carattere più completo.

L’ambiente in cui cresce è quello tipicamente urbano. Gesù usa immagini tratte prevalentemente dalla natura, dalla vita di provincia e dal mondo agricolo: il fiore del campo, il seminatore e la semente, il pastore e le pecore, la pesca e la rete, la vigna e i vignaioli, ecc. Paolo preferirà usare paragoni caratteristici di un cittadino della Tarso di allora: lo stadio (cf 1Cor 9, 24-27; Fil 3,4; 2Tim 4, 7ss),il teatro (cf 1Cor 4,9; Rom 1, 32), i tribunali, l’edilizia, l’artigianato, il commercio (cf Ef 1, 14; 2Cor 1, 22; 2, 17; 5, 5), la navigazione (cf 1Tim 1, 19), la vita militare (cf 1Tes 5, 8; Ef 6, 10ss; Fim 2; 1Cor 9,7; 14, 8; 2Cor 2, 14; 10, 3; Fil 2, 25; Col 2, 15).

Sposato o celibe?
Stando agli Atti e alla Lettere, di risposte certe non se ne possono dare. Negli ambienti rabbinici nei quali era stato educato si citava il detto: «Chi non si cura della procreazione è come uno che sparge sangue» (rabbi Eliezer, 90 d. C. circa). Ma non mancavano i celibi tra gli Esseni e altri rabbi ricordati nel Talmud babilonese e persino nel mondo greco (cf Epitteto, Diatr. 3, 22; 69 e 81).
Paolo, nei primi anni 50, affermerà di non avvalersi del diritto degli apostoli di mettere a carico della comunità anche la «moglie (donna) cristiana» (1Cor 9, 5). Poco prima aveva esortato i Corinti a vivere liberi dal vincolo matrimoniale, come lui stesso era libero (cf 1Cor 7, 8). Perché mai sposato, perché vedovo o perché separato, al fine di meglio dedicarsi alla sua missione di evangelizzatore?


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Trasferitosi da adolescente a Gerusalemme, dove già risiedeva una sua sorella sposata e con un figlio (cf At 23, 16), Saulo si mise alla scuola dell’ottimo rabbino Gamaliele il Vecchio (cf At 22,3), «stimato presso il popolo» (At 5, 34), del quale si scriverà che «con la sua morte cessò l’onore della Legge e sparirono la purità e l’astinenza» (Mishnàh, Sot. 9, 15). Con lui Saulo conobbe bene la Legge scritta integrata dalla Legge orale, basata su minuziose e varie applicazioni alla vita quotidiana.
Non abbiamo indizi di qualche contatto diretto con Gesù di Nazareth, crocifisso attorno all’anno 30, anche se non si esclude che Saulo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell’anno.

Il suo primo contatto con la persona di Gesù avvenne tramite la testimonianza dei cristiani di Gerusalemme; non però con tutta la comunità, bensì soltanto con il gruppo dei giudeo-ellenisti di Stefano e compagni. Ad un fariseo «zelante» (Fil 3,6) come lui, era insopportabile sentire quegli eretici deviazionisti del movimento pro Gesù «pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio» (At 6,1): un nuovo ”cammino” che poneva al centro non più la Legge di Dio, ma la persona di Gesù, crocifisso e risorto, dal quale proveniva anche la remissione dei peccati.
Il passaggio dalla polemica verbale all’azione punitiva (anche nei confronti dei cristiani giudeo-ellenisti di Damasco, Tarso, Antiochia) sarà così descritto da lui stesso: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1, 13s).
La sua divenne una persecuzione sempre più furente e devastante: «In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture e a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 11; cf anche At 8, 3; 9, 10-21). In preda a fanatismo, arrivava a flagellare e a verberare i cristiani (cf At 22, 4s. 19; 26, 11), infliggendo loro quelle stesse pene che lui stesso subirà dopo la conversione (cf 2Cor 11, 24s). A distanza di anni, proprio perché aveva perseguitato la Chiesa di Dio, si riterrà «l’infimo degli apostoli» (! Cor 15, 9).

In questo contesto, Saulo svolge la sua parte nella persecuzione nella quale il diacono Stefano muore martire (cf At 6, 8 - 7, 60). I particolari sono di Luca: «Proruppero in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane chiamato Saulo. E così lapidarono Stefano mentre pregava e diceva ”Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: ”Signore, non imputar loro questo peccato”. Detto questo morì. Saulo era fra coloro che approvavano la sua uccisione» (At 7, 59; 8,1). E nella «violenta persecuzione » (At 8,1) che segue «Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (At 8,3).

Più che un persecutore, Saulo sembra personificare la persecuzione.
Poco dopo lo vediamo impegnato ad estirpare la mala erba cristiana spuntata anche fuori Gerusalemme. Al Sommo Sacerdote i Romani riconoscevano forse una certa giurisdizione anche su tutte le comunità giudaiche fuori dalla Palestina, compreso il diritto di estradizione: «Sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della dottrina di Cristo che avesse trovati» (At 9, 1s) Ma sulla via di Damasco - dove gli ebrei occupavano un intiero quartiere - l’attendeva l’agguato di Dio.



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La via di Damasco
Ciò che accadde verso mezzogiorno di un giorno imprecisato tra il 33 e il 35 d. C. cambiò radicalmente la vicenda personale di Saulo e determinò una svolta decisiva nella vita della comunità cristiana delle origini. Tanto che, negli Atti degli Apostoli, dal primo storico della Chiesa questo stesso avvenimento viene riportato ben tre volte, sia pure con qualche differenza nei particolari.
Vale la pena rileggere queste narrazioni, collocate in circostanze e tempi diversi, ma vibranti di un’unica eccezionale testimonianza.


Il primo racconto (At 9, 1-9) è in terza persona, steso com’è dal narratore s. Luca, che espone i fatti seguiti al martirio di Stefano, con dovizia di dettagli; senza però precisare la calvacatura usata e quindi la ”caduta da cavallo”, così frequente nell’iconografia paolina.


Il secondo racconto (At 22, 6-21) è in prima persona, messo com’è sulla bocca dello stesso Paolo, che – tornato a Gerusalemme 20 anni più tardi, al termine dei viaggi apostolici – viene arrestato; prima di essere imprigionato nella fortezza, ottiene dal tribuno romano di parlare in propria difesa alla folla dei giudei che lo vuole morto, perché ha insegnato a non osservare la legge mosaica e ha profanato il tempio.


Il terzo racconto (At 26, 12-23) è il più ricco di particolari e ancora in prima persona, da parte di Paolo incarcerato a Cesarea Marittima, in attesa di essere tradotto a Roma. In occasione della visita del re Agrippa e della sorella Berenice, il governatore Festo glielo presenta in pubblica riunione; lo senta pure lui e lo aiuti a stendere la motivazione che deve accompagnare lo strano prigioniero che – come civis romanus - si è appellato ad un tribunale della capitale imperiale.

Il secondo genere di testimonianza è quella diretta, a 20 anni e più dell’accaduto, in 3 testi delle sue Lettere (1Cor 15, 8-10; Gal 1, 15s; Fil 3, 3-13; ed anche 1Tim 1, 12s). È lo stesso protagonista che ne parla (non si accenna alla via di Damasco) e nessuno meglio di lui può dirci l’esperienza fatta nell’incontro nel quale si è sentito ”impugnato”, ”afferrato”,”conquistato da Cristo” (Fil 3, 12); una esperienza di conversione dal giudaismo più acceso a Cristo come unico mediatore di salvezza e rivelatore del vero volto di Dio; e nello stesso tempo esperienza di vocazione a testimoniare anche agli esclusi pagani l’evento di Gesù che compie le antiche promesse fatte al popolo di Israele.



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Sulla via di Damasco avviene la conversione: Saulo diviene Paolo, un uomo nuovo. Fino ad allora, il persecutore accanito si era imbattuto con gente che viveva in totale riferimento a Gesù di Nazareth, per il quale era disposta a morire, perché ritenuto il Messia Salvatore. A lui però non era ancora stato dato di vedere e udire Cristo di persona, né vivo né redivivo. Sulla via di Damasco, invece, accade ciò che amici e nemici erano ben lontani dal prevedere; una sorta di agguato, poi riconosciuto come tale da Paolo stesso: «Io, che sono stato afferrato da Gesù Cristo» (Fil 3, 12).
Quando ormai Damasco è vicina, verso mezzogiorno, il divino irrompe nella storia di un fervente fariseo, investito da una luce abbagliante e dal risuonare di una voce dall’alto; non diversamente dalle manifestazioni di Dio a Mosè, di fronte al roveto ardente (cf Es 3) e sul monte Sinai (cf Es 19).
Questo è il tempo è il modo con cui a Paolo accade il primo incontro con la persona di Cristo. Esperienza rinnovata 3 anni dopo nell’estasi nel tempio (cf At 22, 17-21) e in un altro rapimento fino al «terzo cielo» (2Cor 12, 1-4). Una esperienza che fa di lui un credente e alla quale potrà a ragione e autorevolmente rifarsi - da polemista e apologeta di se stesso - ogni volta che gli verrà contestata la sua legittimità di apostolo e il diritto di recare l’annuncio ai pagani da lui liberati dai condizionamenti giudaici: «Non sono forse apostolo? Non ho forse avuto la visione di Gesù, nostro Signore?» (1Cor 9, 1s; cf anche 15, 8-10; Gal 1, 1. 11-17; Fil 3, 7-9). Quando Paolo stesso ne parlerà nelle Lettere, questa esperienza d’incontro con il Risorto sarà ritenuta non soltanto una ”visione” (cf 1Cor 9, 1), ma una ”illuminazione” (cf 2Cor 4, 6) e soprattutto una ”rivelazione” e ”vocazione” (cf Gal 1, 15s).
Di quanto accade nel cuore umano, quando incontra il mistero di Dio, poco o tanto da noi rimane imperscrutabile. Confortati tuttavia da tutte queste testimonianze, di tale evento possiamo determinare qualche elemento.

In questa esperienza di conversione a Saulo è data innanzitutto la conoscenza della vera identità di Gesù, nello stesso tempo autore e oggetto della ”rivelazione”: Gesù di Nazareth, morto in croce, ora è vivo; ovunque presente e operante, gli ha parlato, lasciandolo tramortito.

La sua è una conoscenza di sé ”nuova”, tutta da attribuirsi alla iniziativa gratuita di Dio. Ora Paolo capisce che Dio l’ha anticipato, Cristo l’ha conquistato, i giorni luminosi e le tenebrose notti della sua esistenza sono tutti grazia. Ora scopre di essere stato scelto fin dal seno materno (cf Gal 1, 15s), non diversamente da Geremia (cf 1. 5) e dallo stesso anonimo «Servo di Dio» (Is 49, 1).
D’ora in poi, Paolo non si riterrà mai un uomo che si è fatto da sé, bensì un prodigio suscitato dal Risorto che va ricreando la storia: «Egli mi ha detto: ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9); «È apparso anche a me come al feto abortito…Sono il più piccolo degli apostoli, io che non sono degno di essere chiamato apostolo… Ma alla grazia di Dio devo quello che sono e la sua grazia a mio riguardo non è stata inefficace. Al contrario, più di tutti loro ho duramente lavorato. Non io però, ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15, 8-10); «Il Vangelo da me predicato non è a misura dell’uomo. Perché neanche a me è stato trasmesso o insegnato da alcun uomo. L’ho invece ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11s).
Tutto ciò rappresenta un enorme stravolgimento della sua farisaica fiducia nel valore unico dell’osservanza della Legge antica, che scrivendo ai Romani e ai Galati dichiarerà definitivamente superata. Quanto gli è accaduto non è stato lo sviluppo logico di riflessioni o di lunga ascesi morale, ma il frutto di un imprevedibile intervento della grazia divina. È ciò che lo persuade di essere ormai anch’egli «apostolo», ma «per vocazione» (Rom 1, 1; 1Cor 1, 1) o «per volontà di Dio» (2Cor 1, 1; Ef, 1,1; Col 1, 1).

È una conoscenza che lo trasforma, perché – riconoscendo in Gesù il vero Cristo Salvatore egli percepisce coscientemente anche la vera identità del proprio io, che si realizza soltanto conformandosi a quella di Cristo.
Cristo gli ha aperto gli occhi e i suoi criteri di valutazione sono stati rovesciati: «Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21); «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui: non come una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quello che deriva dalla fede in Cristo» (Fil 3, 7-9).
La conversione di Paolo non è soltanto morale (un peccatore che ritrova la via del bene) o religiosa (un ateo che viene alla fede in Dio), ma conversione alla persona di Cristo come chiave di volta del destino umano, incontrando il quale si cambia integralmente tutto il modo di giudicare e di vivere. Più specificamente, qui Saulo passa dal giudaismo al cristianesimo, come. C. Barth riassume: «La vetta su cui mi ergevo è un abisso, la sicurezza in cui vivevo è perdizione, la luce di cui godevo è tenebra».

Il primo incontro di Paolo con Cristo risorto coincide con il primo incontro con la Chiesa, la cui caratteristica più qualificante è proprio la misteriosa connessione con Cristo. In tutti e tre i racconti degli Atti, ritroviamo il drammatico e sorprendente dialogo nel quale Gesù afferma di identificarsi con i cristiani: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?... Chi sei, o Signore?...Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 4s; 22, 8; 26, 14). Viene già qui rivelato, all’accanito cacciatore di donne e uomini cristiani di Damasco, che chi tocca i cristiani tocca lo stesso Gesù Nazareno: il Risorto rimane in vitale rapporto con la Chiesa, come il Capo e le membra del suo nuovo Corpo. L’aveva già detto Gesù: «Chi accoglie voi accoglie Me, e chi accoglie Me accoglie Colui che Mi ha mandato» (Mt 10, 40).
Il seguito del racconto conferma che ormai Cristo parla e agisce tramite la Chiesa, che ne prosegue la presenza salvifica. Infatti, alla domanda: «Che devo fare, Signore?», Cristo risponde di recarsi a Damasco. Qui, dopo tre giorni di tramortimento, Anania gli si presenterà come un fratello mandato dallo stesso Gesù che gli è apparso sulla via, per ridargli la vista, per colmarlo di Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani, per rimettergli i peccati nel lavacro battesimale (cf At 22, 10-16; 9, 10-19).


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Con l’eccezionale chiamata alla fede in Cristo, il neoconvertito Paolo riceve anche il mandato missionario, che da persecutore lo rende testimone. Glielo comunica per primo proprio Anania, al quale Cristo l’ha indirizzato: «Alzati, ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare» (At 9, 6; 22, 10). Gli verrà confermata, tre anni dopo, durante l’estasi avuta nel tempio di Gerusalemme (cf At 22, 17-21).
* Il mandato che gli viene assegnato viene specificato come missione alle genti pagane. È il Signore stesso a dirlo ad Anania: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinnanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele» (At 9, 15). A sua volta, Anania lo fa sapere a Paolo, «predestinato … a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca»: «Gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto ed udito» (At 22, 14). E nell’estasi: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).
Nella testimonianza che darà davanti ad Agrippa, il suo mandato è già messo in bocca a Cristo stesso sulla via di Damasco, che lo sollecita a non opporre resistenza alcuna al disegno di Dio che lo riguarda: «Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo… Ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26, 16-18).\
* Come per gli altri apostoli – e per ogni cristiano, fin dal battesimo – anche per Paolo la vocazione è dunque inseparabile e contestuale alla missione: l’agire è connesso all’essere e così la vita ritrova unità. È ampiamente giustificata la sua autopresentazione: «Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti» (Gal 1, 1; cf 1, 11s; cf Rom 1, 1; 1Cor 1,1).
Così, la conversione provocata dall’incontro con il Risorto non si riduce ad una esperienza sconvolgente, ma privatistica: «L’uomo greco non aveva alcun Dio che lo prendesse a suo servizio e lo mandasse come suo inviato. Solo l’uomo giudeo è consapevole che una rivelazione contiene una missione» (L. Baeck, Vita di s. Paolo). Accade al fariseo Saulo ciò che accadde a Mosè (cf Es 3, 20) e ai profeti (cf Is 6, 8s; Ger 1, 4-19). Senza frapporre indugi, il vigore e lo zelo del fariseo d’ora in avanti saranno posti al servizio dell’annuncio di Cristo, con dedizione totale: «È per me una necessità il farlo. Guai a me, se non evangelizzassi» (1Cor 9, 16).
Al termine della riflessione su quanto avvenne sulla via di Damasco, comprendiamo perché la liturgia della Chiesa abbia dedicato una festa particolare alla Conversione di s. Paolo, apostolo, il 25 gennaio di ogni anno.


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Primo viaggio
«Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21), si era sentito ripetere dal Signore durante l’estasi nel tempio. La vocazione specifica cui Paolo si ritenne chiamato fu quella di portare il primo annuncio di Cristo Salvatore oltre le frontiere già esistenti (eccetto il caso di Roma, cf Rom 1, 15). Fondando nuove Chiese, intendeva porre – tra i popoli e le province – segni viventi della signoria di Cristo, dalla quale niente e nessuno può considerarsi escluso.
Utilizzando tradizioni locali, s. Luca descrive la ”corsa” della Parola di Dio nel mondo ad opera di Paolo, servendosi del genere letterario dei ”viaggi”, allora in uso. Luogo di partenza e ritorno è sempre Antiochia di Siria e non manca mai la visita finale a Gerusalemme.

* Il primo viaggio (At 13 e 14) durerà circa 4 anni, tra il 45 e il 49 d. C.. È compiuto in compagnia di Barnaba, che resta ancora il vero protagonista; entrambi sono stati scelti e inviati da una manifestazione particolare dello Spirito alla comunità di Antiochia in preghiera (cf At 13, 3).
I due missionari percorrono tutta l’isola di Cipro (patria di Barnaba), salpano da Pafos per approdare a Perge, a sud-est dell’Anatolia, dove il collaboratore Marco (forse nipote di Barnaba) li lascia per tornare a Gerusalemme. Forse ritenendosi incapace di sostenere i ritmi frenetici della missione; più probabilmente perché non riusciva ancora ad approvare la decisa svolta di Paolo nel superare la lentezza dei giudeo-cristiani ad abbandonare le prescrizioni antiche.
Giungono ad Antiochia di Pisidia, in Asia Minore, l’attuale Turchia centro-occidentale. Qui Paolo prende la parola in una riunione di sabato in sinagoga, per pronunciare una sorta di discorso inaugurale e ben accolto, dove si ritrovano tutti i temi della sua predicazione ai giudei: riassunto della storia di Israele, che si è compiuta in Cristo crocifisso e risorto, Colui che libera anche dalla Legge (cf At 13, 16-43).
Il sabato seguente però è duramente contestato dai giudei e allora lui annuncia che si rivolgerà ai pagani. Partono per Iconio, ma da lì viene costretto a partire per Listri. Qui guarisce un paralitico e la folla scambia il maestoso Barnaba per il padre degli dei Giove, e il più irrequieto Paolo per Mercurio, che degli dei era il portavoce; si vuole offrire in loro onore un sacrificio pagano, cui a stento riescono a sottrarsi (cf At 14, 8-18).

Tuttavia, per istigazione di giudei giunti da Antiochia, Paolo viene lapidato. Sempre in compagnia di Barnaba, si rifugia a Derbe, poi sono di ritorno a Listri, a Iconio e ad Antiochia; si inoltrano nella Pisidia e raggiungono Perge in Panfilia, scendendo poi ad Attalia. Da qui fanno vela per Antiochia di Siria, donde erano partiti, e riferiscono che, per mezzo loro, Dio aveva aperto ai pagani la porta della fede.
Le medesime cose sono mandati a testimoniare a Gerusalemme, da dove faranno ritorno portando la incoraggiante notizia che il primo Concilio aveva approvato la predicazione ai pagani (cf At 15, 1-35).

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Primo viaggio


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Il secondo viaggio (At 15, 36-18, 22) durerà circa 3 anni, tra il 49 e il 52 d. C.. Sul punto di ripartire, i due apostoli si separano: Paolo si rifiuta di portare con sé Marco, che salpa con Barnaba alla volta di Cipro e altrove (forse anche in Italia settentrionale). Invece Saulo, insieme a Sila, torna in Asia Minore, a vedere come stanno le Chiese fondate nel primo viaggio. Ma, lungo questo secondo itinerario, l’Apostolo delle genti avrà modo di incontrare un altro mondo, quello greco-romano.
A Listri si aggrega Timoteo, di padre greco e che sarà tanto caro a Paolo. Docili allo Spirito, dopo aver attraversato la Frigia ed evangelizzato la Galazia, rinunciano ad entrare nella provincia di Asia e della Bitinia, costeggiano la Misia e scendono a Troade, nel nord-ovest della attuale Turchia. Qui Paolo ha la visione notturna del Macedone che lo supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!». Così Paolo si sente chiamato a mettere piede sul suolo d’Europa (cf At 16, 9s).
Quindi si dirigono verso Samotracia e Neapoli; di qui a Filippi, colonia romana ormai città latina del primo distretto della provincia macedone. Battezzano Lidia, commerciante di porpora incontrata durante una riunione di preghiera lungo il fiume, e ne accettano l’ospitaltà. Ma vengono bastonati e incarcerati, in seguito alla denuncia fatta da una schiava indovina (e dei suoi padroni), i cui guadagni la loro predicazione aveva messo in pericolo. Nottetempo, li libera dalle catene un terremoto. Temendo la punizione da parte dei magistrati, il disperato carceriere tenta il suicidio; ma Paolo lo dissuade e lo battezza con tutta la famiglia. Saputo poi che Paolo e Sila sono cittadini romani, le autorità li rimettono in libertà (cf At 16, 11-40). Lì crescerà una bella comunità cristiana, a cui l’Apostolo invierà da un’altra prigione la lettera della gioia e dell’affetto, quella appunto ai Filippesi.
Da qui giungono a Tessalonica, dove convertono non pochi Greci. Colti da gelosia, i giudei li denunciano presso le autorità pagane, coinvolgendo pure Giasone, che li aveva ospitati. I missionari sono fatti partire di notte per Berea, centro portuale della Macedonia. Qui si ripete ciò che era accaduto a Tessalonica: conversioni ancor più numerose e ostilità fomentate da fanatici giunti da Tessalonica. Paolo allora viene accompagnato ad Atene, dove attende a lungo la nave che porta Sila e Timoteo.
Per quanto devastata dai romani nel 146 a. C., Atene era pur sempre la capitale della sapienza, dell’arte e della democrazia, anche senza lo splendore dei secoli V e IV a. C.. Paolo non perde tempo: ogni giorno discute con i pagani in sinagoga e con i passanti sulle piazze. I filosofi epicurei e stoici, incuriositi, lo invitano sull’Areopago, perché questo ciarlatano si spieghi meglio. È qui che Luca mette in bocca a Paolo il magistrale annuncio di Cristo Risorto ai pensatori politeisti di Atene (cf At 17, 11-33). Se ne parlerà più avanti.
Lo scarso successo non scoraggia Paolo, che percorre i 50 Km che lo portano a Corinto, capitale della provincia romana dell’Acaia, ancora più cosmopolita e corrotta di Atene. Nella numerosa comunità giudaica del luogo, trova ospitalità presso i coniugi cristiani Aquila e Priscilla, provenienti da Roma, da dove nel 49-50 d. C. l’imperatore Claudio aveva allontanato tutti i Giudei. Sono anch’essi fabbricanti di tende e Paolo può lavorare con loro (cf At 18, 1-3).
Sopraggiunti Sila e Timoteo, danno inizio alla predicazione, rifiutata dai giudei, ma accolta dal capo della sinagoga Crispo e famiglia; la accolgono pure i pagani ben disposti, tra i quali un certo Tizio Giusto. Un’altra visione lo incoraggia a «non tacere, perché Io ho un popolo numeroso in questa città» (At 18, 10). Da qui scrive le due lettere ai Tessalonicesi.
Così Paolo si ferma un anno e mezzo, tra l’inverno del 50 e l’estate del 52 d. C.. Verso la fine del soggiorno a Corinto, i giudei riescono ancora a trascinarlo in tribunale, ma il pro-console Gallione lo lascia libero, rifiutandosi di trattare le loro questioni religiose; ne va di mezzo lo stesso capo sinagoga Sostene, addirittura percosso dalla sua gente (cf At 18, 12-17).
Quindi, in compagnia di Aquila e Priscilla, s’imbarca per la Siria e giunge di nuovo a Efeso, da cui riparte troppo presto per Cesarea. Ha quindi modo di «salutare la Chiesa di Gerusalemme» per poi raggiungere Antiochia. Ben presto, però, riparte per confermare nella fede «tutti i discepoli della Galazia e della Frigia» (cf At 18, 18-22).

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Secondo viaggio


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Il terzo viaggio (At 18, 23 - 21,16) dura 5 anni, dal 52/53 al 57 d. C.. Con i mezzi di allora, l’Apostolo percorrerà 2500/3000 Km, ma l’itinerario non è sicuro. Dapprima riattraversa la Galazia e la Frigia per ”confermare nella fede ” (At 18, 23) le chiese fondate nel 1° e 2° viaggio. Poi la tappa più importante - 2 anni e 3 mesi – fu quella di Efeso, capitale della provincia romana di Asia, 300/400mila abitanti, teatro principale di 25.000 posti, crocevia di molte carovaniere; il tempio di Artemide–Diana era considerato una delle 7 meraviglie del mondo (cf At 19, 27) e vi fiorivano magia e superstizione.
Infatti, nel timore che le conversioni cristiane danneggiassero il commercio degli idoli, l’orefice Demetrio monterà la sommossa dei fabbricanti e dei mercanti; la calma fu riportata a fatica, e con la consueta motivazione da parte dell’autorità romana, preoccupata soltanto di sedare disordini (cf At 19, 24-41).
Ad Efeso Paolo battezza ”nel nome del Signore Gesù”, e li conferma con l’imposizione delle mani, 12 discepoli che avevano ricevuto soltanto il battesimo penitenziale di Giovanni Battista, senza mai aver sentito parlare di Spirito Santo (cf At 19, 1-7). Servendosi della collaborazione di molti compagni (tra i quali Timoteo, Epafra, Erasto, Gaio, Aristarco e Tito), Paolo coordina l’evangelizzazione di «tutti gli abitanti della provincia di Asia» (At 19, 10), la parte cioè di cui Efeso era il centro, comprendente le 7 città citate in Ap 1, 11. Opera anche guarigioni prodigiose; lo imitano in questo degli esorcisti ambulanti giudei, ma senza esito; anzi, si convertono anche molte persone che avevano esercitato arti magiche (cf At 19, 11-20).
Dopo essersi forse recato ancora a Corinto nei 3 mesi invernali (per stroncare estremismi giudaizzanti), tornato ad Efeso, Paolo riparte, intenzionato ad attraversare la Macedonia e raggiungere la Grecia. Tre mesi dopo, il solito complotto giudaico lo costringe a tornare ad Antiochia di Siria senza attraversare la Macedonia. Preceduto e accompagnato dai suoi collaboratori, salpa da Filippi e in 5 giorni giunge a Troade. Durante una prolungata assemblea eucaristica serale, nel primo giorno della settimana che vi trascorse, ridona la vita al ragazzino Eutico, che – vinto dal sonno – era caduto da una finestra situata al 3° piano (cf At 20, 7-12).
In seguito, la compagnia di s. Paolo – che aveva fatto vela per Asso, dove aveva imbarcato l’apostolo che vi si era recato a piedi – tocca Mitilene e Samo e giunge a Mileto. Qui Paolo sollecita a raggiungerlo i principali «anziani delle Chiese» da lui fondate. A loro rivolge il terzo dei grandi discorsi ricordati negli Atti (in Atti 13, la sintesi della predicazione ai giudei; in Atti 17, la sintesi di quella ai pagani). Lo si può ritenere il suo testamento pastorale, redatto da s. Luca che era presente: ricorda il suo ministero in Asia (At 20, 18-20) e presagisce la sua morte (vv 22-27); raccomanda vigilanza (vv 28-30), disinteresse e carità (vv 33-35). Una testimonianza che destò commozione in tutti e che ci consegna un suo splendido profilo di padre autorevole (cf At 20, 17-38).
Siamo nell’anno 58 d. C. e Paolo ha fretta di essere a Gerusalemme per la Pentecoste. Ogni giorno un nuovo porto: Cos, Rodi, Patara. Su un’altra nave giunge a Tiro; la settimana dopo, parte per Tolemaide, il giorno dopo per Cesarea. Tutti lo sconsigliano di salire a Gerusalemme, perfino un profeta di nome Agabo giunto dalla Giudea. Ma Paolo si mostra irremovibile: « Io sono pronto non soltanto ad essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore». «Smettemmo di insistere: sia fatta la volontà del Signore!» (cf At 21, 13s).
A Gerusalemme viene accolto e ospitato da Mnasone di Cipro, discepolo della prima ora; fa visita a Giacomo e agli anziani, consegna il ricavato di una nuova colletta; Giacomo gli consiglia di recarsi al tempio, per assolvere a un voto e per tranquillizzare i tradizionalisti. È qui che viene riconosciuto dai giudei della provincia di Asia; questi sollevano un violento tumulto nei suoi confronti, per sedare il quale interviene dalla torre Antonia il tribuno romano, che non trova di meglio che incarcerarlo nella fortezza. Prima però gli concede di difendersi dalla folla inferocita con un discorso in ebraico; e viene a sapere che questo prigioniero è cittadino romano (cf At 21, 15-22, 29). È ormai cominciata la ”passio Pauli” (At 21-28), che con quella di Gesù avrà più di una somiglianza.

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Terzo viaggio



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La Parola non si lascia incatenare (cf 2Tim 2,9), neppure quando Paolo è costretto all’inattività del carcere. Parlano per lui le catene portate per la causa di Cristo, come scriverà ai Filippesi: «Voglio farvi conoscere, fratelli, che quanto mi è capitato ha contribuito piuttosto al progresso del Vangelo. È diventato così notorio a quelli del palazzo del governatore e a tutti gli altri che io sono prigioniero per Cristo» (Fil 1, 12s).
Il giorno dopo l’arresto, il tribuno – per saperne di più sul suo conto – porta Paolo in sinedrio. Con un abile intervento, Paolo semina divisione tra i sadducei e farisei a proposito della risurrezione. Ricondotto in fortezza, il nipote lo avvisa che 40 giudei hanno giurato di ucciderlo. Informato anch’egli del complotto, il tribuno Claudio Lisa pensa bene di inviarlo – sotto scorta e di notte – a Felice, governatore in Cesarea (cf At 22, 30-23, 35).
Passano 5 giorni e Felice ritiene di mettere a confronto il prigioniero con il sommo sacerdote Anania, arrivato da Gerusalemme con alcuni anziani e l’avvocato Tertullo. Efficace come sempre l’autodifesa, cui però non segue la scarcerazione. Insieme alla moglie giudea Drusilla, Felice si procura una serie d’incontri privati, ma senza esiti rilevanti. Anzi, per due anni trattiene il prigioniero in una sorta di libertà vigilata: non voleva inimicarsi le autorità religiose di Gerusalemme e sperava di ricevere denaro dagli amici di Paolo (cf At 24, 1-27).
A Felice succede il governatore Festo, che riserva a Paolo analogo trattamento del predecessore. Si reca a Gerusalemme per conoscere le accuse sollevate dal sinedrio, che desidererebbe si riconducesse il prigioniero in città, per poterlo eliminare durante il trasporto. Indice una assemblea a Cesarea, ove Paolo può difendersi e – al fine di non subire processo a Gerusalemme – appellarsi al tribunale di Cesare, in quel tempo Nerone. Convoca una pubblica udienza alla presenza dell’incuriosito re Agrippa, passato a salutarlo,. Paolo coglie l’occasione di narrare ancora tutta la sua vicenda e anche Agrippa ammette di non trovare capi d’accusa che meritino pena di morte o catene (cf At 25-26). Non resta che tradurre il prigioniero a Roma, visto che si è appellato a Cesare.
Il viaggio di trasferimento in Italia – 2500 Km in linea d’aria, avvenuto dal settembre del 59/60 ai primi mesi dell’inverno successivo - fu alquanto avventuroso ed è descritto con tanti particolari marinareschi in Atti 27 e 28. Il drappello di prigionieri di cui Paolo fa parte è comandato dal centurione Giulio della coorte Augusta. I venti contrari e il sopraggiungere dell’inverno rallentano la navigazione. Un terribile uragano scuote per 3 giorni la nave, che va alla deriva: il carico è buttato in acqua, per 14 giorni non c’è tempo neppure per mangiare; la nave si arena sulla riva dell’isola di Malta e tutti i 276 imbarcati – chi a nuoto, chi su tavole – riescono a mettersi in salvo.
Anche in tali tragiche circostanze, Paolo era intervenuto autorevolmente almeno 5 volte, con esortazioni incoraggianti e avvalorate da una visione, con consigli di tecnica marinara, con la preghiera di ”ringraziamento” (l’Eucaristia?) prima di rifocillarsi; sempre guidato dalla preoccupazione di salvare la vita di marinai e prigionieri (cf At 27, 9-44).
Accolti dagli indigeni ”con rara umanità”, Paolo viene morso da una vipera aizzata dal fuoco acceso per asciugarsi dalla pioggia. Non producendosi gonfiore alcuno, gli indigeni lo scambiano per un dio. Publio, il ”primo” dell’isola, ospita tutti per tre giorni; Paolo guarisce suo padre ed altri malati; ne beneficiano tutti i naufraghi, colmati di onori. Dopo tre mesi, ripartono riforniti di tutto il necessario per proseguire il viaggio (cf At 28, 1-11).
Approdano a Siracusa e poi a Reggio, quindi a Pozzuoli, allora città di ben 65.000 abitanti e porto di Roma; alcuni fratelli li trattengono per una settimana. Dopo di che, probabilmente servendosi della via Appia, si avvicinano a Roma, città con abbondanza di dei, tutti i simulacri dei quali Augusto aveva collocato in un solo tempio, il Pantheon, e che allora contava circa 1 milione di abitanti, con circa 50.000 ebrei e 13 sinagoghe. Gli vengono incontro dei fratelli che già lo conoscevano, se non altro per aver loro scritto la più importante delle sue lettere tra il 55 e il 58, stando a Corinto. Si sta realizzando il suo progetto di confrontarsi anche con i cristiani della capitale dell’impero, «perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo» (Rom 1, 8). Nella lettera aveva promesso: «Per quanto sta in me, sono pronto a predicare il vangelo anche a voi di Roma» (Rom 1, 15). Anche la visione avuta a Gerusalemme l’aveva incoraggiato: «Tu devi rendermi testimonianza anche a Roma» (At 23, 11).
Siamo attorno al marzo del 61 e il prigioniero Paolo è tenuto in ”custodia libera”, una blanda cattività che gli consentiva di abitare in una casa, vigilata da un pretoriano, e di svolgere di fatto l’attività di un uomo libero (cf At 28, 12-16).
Son passati appena 3 giorni dall’arrivo in città e già Paolo convoca alcuni notabili giudei, per raccontare la sua vicenda e precisare loro che «è a causa della speranza d’Israele che io sono legato a questa catena » (At 28, 20). Molti di più convengono dove alloggia, in un altro giorno, interamente occupato da Paolo alla sua difesa e a proporre loro la conversione a Cristo. Alcuni aderiscono, altri dal ”cuore indurito” se ne vanno in discordia tra loro. Perciò Paolo, anche stavolta purtroppo, è quanto mai risoluto a rivolgere la salvezza di Dio ai pagani (cf At 28, 17-29).
Così si conclude la narrazione di Luca: «Paolo trascorre due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunciando il regno di Dio e insegnando loro le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28, 30).

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Il viaggio a Roma


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Da altre fonti sappiamo che, al termine dei 2 anni di ”custodia libera”, Paolo venne assolto e addirittura prosciolto. Nessuno, infatti, si era presentato a confermare le accuse (da farsi entro 9 mesi per i prigionieri italici, entro 18 mesi se provenienti d’oltre mare). Da Roma avrebbe scritto le lettere ai Colossesi, agli Efesini e ai Filippesi – dette le lettere della cattività –, la 2° a Timoteo e il biglietto a Filemone.
Liberato che fu, poté forse realizzare il suo desiderio di spingersi in Spagna, estremo confine dell’occidente (cf Rom 15, 22-24). La missione rimase senza frutto ed egli pensò di ritornare ad Efeso e in Macedonia. È certo che nel 66/67 è di nuovo a Roma e stavolta costretto in ”custodia publica”, forma di prigionia dura, insieme anche ai delinquenti peggiori, all’interno di un pretorio romano (cf Fil 7. 13. 22).
L’arresto è forse avvenuto a Troade e all’improvviso, se in seguito pregherà il prediletto Timoteo di recuperargli mantello di viaggio, pergamene e libri, rimasti nella casa di un certo Carpo (cf 2Tim 4, 13).
Ormai le forze gli vengono a mancare, non sa nascondere la delusione perché nella prima udienza è stato lasciato solo a difendersi. Soltanto il fedelissimo Luca gli è rimasto accanto, mentre gli avversari sono tornati in forza, tanto che si trova ancora in catene. E a Timoteo fa qualche nome:
«Alessandro, il ramaio, mi ha arrecato molto male. Il Signore gli renderà conto secondo le sue opere. Anche tu guardati da costui, perché ha molto avversato le nostre parole» (2Tim 4, 14s).
La Lettera ai Corinti di papa Clemente Romano (96 d. C.), con numerose altre fonti posteriori, ci testimoniano che l’Apostolo delle genti – alla fine degli anni 60 (verso il 68), sotto Nerone – subisce il martirio per decapitazione: quella di un ”civis romanus” doveva essere eseguita fuori città e quella di Paolo avviene sulla via Ostiense a 3 miglia dalle mura, presso le Acque Salvie, dove oggi sorge l’Abbazia delle Tre Fontane. Così leggiamo: «Per la gelosia e la discordia, Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza…Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo esser giunto fino agli estremi confini dell’Occidente, sostenne il martirio davanti ai governatori; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di perseveranza» (Ai Corinti, 5).
All’indomito testimone di Cristo la morte non era giunta inaspettata, come aveva confidato ancora a Timoteo: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere versato in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2Tim 4, 4s); «Per me vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21). Gli restava soltanto un dubbio: che il suo lavoro missionario fosse ancora di qualche utilità per sostenere la fede delle comunità cristiane che aveva disseminato in tutte le regioni del mondo allora conosciute (cf Fil 1, 21-26), esclusa Alessandria d’Egitto.

A s. Paolo fuori le mura: Paolo è qui!

Dopo la decapitazione alle Acque Salvie, Paolo venne sepolto sempre sulla via Ostiense, secondo la tradizione nella tomba della Matrona Lucilla. Durante la persecuzione di Valeriano (257-258) il corpo venne traslato, insieme a quello di Pietro, nelle catacombe di s. Sebastiano, lungo la via Appia Antica.
Nel IV secolo, ottenuta da Costantino la libertà religiosa e sotto papa Silvestro, le spoglie di Pietro tornarono in Vaticano, mentre quelle di Paolo vennero rideposte nell’antico cimitero sulla via Ostiense. Nel 320 Costantino costruì le due prime basiliche apostoliche sui sepolcri di Pietro e di Paolo, in modo che le reliquie dei co-fondatori della Chiesa restassero il fulcro dei riti e della devozione; vennero consacrate entrambe il 18 novembre del 324 (della chiesa edificata sulla tomba di s. Paolo non è rimasto nulla).
Nel 390. gli imperatori Teodosio, Valentiniano II e Graziano chiesero di ampliare la basilica, che venne significativamente ricostruita sul modello e più grande della basilica costantiniana di s. Pietro. Ai tempi di Valentiniano II (386) avvenne il posizionamento del sarcofago, contenitore di reliquie, il contatto con le quali era possibile attraverso una feritoia di 10 centimetri (serviva a ”mettere in comunicazione con l’altare” ed a introdurre ”brandea”, pezzi di tessuto che divenivano reliquie a loro volta).
La sontuosa basilica costantiniana fu completata da Teodosio, da Onorio I e dalla sorella Galla Placidia. Leone Magno ne ricostruì la navata destra, crollata nel terremoto del 433. L’edificio subirà l’incursione dei longobardi, dei saraceni e nel 1500 dei lanzichenecchi. Verrà fedelmente ricostruita nel 1854, dopo che il furioso incendio del 15/16 luglio 1823 l’aveva disintegrata.
In tutti questi secoli, su due lastre di marmo risalenti al IV secolo, - in piano, sotto l’altare papale, a circa 40 centimetri dal sarcofago - i pellegrini hanno potuto leggere l’inequivocabile scritta: PAULO APOSTOLO MART(yri). I lavori per sopraelevare la pavimentazione del presbiterio e per edificare altari fissi (l’ultimo fu quello di Gregorio Magno, attorno al 600) hanno mirato a uniformare l’altare della basilica paolina a quello di s. Pietro: al ciborio di Arnolfo di Cambio corrisponde quello del Bernini.
I pellegrini, cattolici e non, dell’Anno Santo 2000 chiesero agli archeologi di indagare per meglio poter venerare le reliquie del formidabile annunciatore di Cristo. Gli scavi del 2002 e 2003 porteranno al sarcofago a forma di tetto risalente al 390. Basterebbe ora introdurre, dalla feritoia chiusa sul fondo da un sottile strato di malta, una microtelecamera per portare alla luce imprevedibili nuove scoperte.
Circa 2500 pellegrini ogni giorno varcano oggi la soglia di S. Paolo fuori le mura, per rinnovare la memoria di Paolo. Si arriva all’altare della ”Confessione”, accompagnati da una artistica catechesi visiva sui co-fondatori della Chiesa e dell’intera sua storia: all’esterno, sui battenti murati della Porta Santa sono narrati 12 episodi della vita di Pietro e Paolo; all’interno, sull’antico portale bizantino, 54 pannelli bronzei raccontano la vita di Gesù e degli apostoli; 36 affreschi ottocenteschi sostituiscono il ciclo duecentesco delle storie di s. Paolo di Pietro Cavallini; lungo il perimetro delle navate del transetto, 294 medaglioni a mosaico ritraggono le serie dei papi da Pietro a Benedetto XVI (18 sono ancora vuoti).
Gli archeologi che proseguono l’esplorazione del sottosuolo vanno scoprendo – sotto e nei dintorni del sepolcro di Paolo – una necropoli pagana, come attorno alla tomba di Pietro sulla collina del Vaticano.

Basilica di san Paolo fuori le mura
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