P. R. Cantalamessa. Parlare “come con parole di Dio”. Gli apostoli, la predicazione e l'annuncio

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P. Cantalamessa. Seconda Predica di Quaresima: “Di ogni parola inutile...”


Seconda predica

“DI OGNI PAROLA INUTILE...”

Parlare “come con parole di Dio”



1. Dal Gesù che predica al Cristo predicato

Nella seconda lettera ai Corinzi - che è, per eccellenza, la lettera dedicata al ministero della predicazione - san Paolo scrive queste parole programmatiche: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore!” (2 Cor 4, 5). Agli stessi fedeli di Corinto, in una precedente lettera, aveva scritto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso!” (1 Cor 1, 23). Quando l'Apostolo vuole abbracciare con una sola parola il contenuto della predicazione cristiana, questa parola è sempre la persona di Gesù Cristo!

In queste affermazioni Gesù non è visto più - come avveniva nei vangeli - nella sua qualità di annunciatore, ma nella sua qualità di annunciato. Parallelamente, vediamo che l'espressione “Vangelo di Gesù acquista un nuovo significato, senza perdere tuttavia l'antico; dal significato di “lieto annuncio recato da Gesù” (Gesù soggetto!), si passa al significato di “lieto annuncio su Gesù, o riguardante Gesù (Gesù oggetto!).

È questo il significato che la parola vangelo ha nel solenne inizio dell'epistola ai Romani: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1, 1-3).

In questa meditazione ci concentriamo su “la Parola di Dio nella missione della Chiesa”. È il tema di cui si occupa il capitolo terzo dei Lineamenta del Sinodo dei vescovi, che ne mette in luce i vari aspetti e ambiti di attuazione secondo il seguente schema:

La missione della Chiesa è proclamare Cristo, la Parola di Dio fatta carne

La Parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo

La Parola di Dio, grazia di comunione tra i cristiani

La Parola di Dio luce per il dialogo interreligioso: a. con il popolo ebraico; b. con i popoli di

altre religioni.

La Parola di Dio fermento delle moderne culture

La Parola di Dio e la storia degli uomini

Io mi limito a trattare un punto particolare e assai ristretto che però, ritengo, influisca sulla qualità e l’efficacia dell’annuncio della Chiesa in tutte le sue espressioni.

2. Parole “inutili” e parole “efficaci”

Nel vangelo di Matteo, nel contesto del discorso sulle parole che rivelano il cuore, è riportata una parola di Gesù che ha fatto tremare i lettori del Vangelo di tutti i tempi: “Ma io vi dico che di ogni parola inutile gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio” (Mt 12,36).

È stato sempre difficile spiegare cosa intendesse Gesù per “parola inutile”. Una certa luce ci viene da un altro passo del vangelo di Matteo (7, 15-20), dove ritorna lo stesso tema dell’albero che si riconosce dai frutti e dove tutto il discorso appare rivolto ai falsi profeti: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete...”.

Se il detto di Gesù ha qualche rapporto con quello sui falsi profeti, allora possiamo forse scoprire cosa significa la parola “inutile. Il termine originale, tradotto con “inutile, è argòn che vuol dire “senza effetto” (a privativo più ergos, opera). Alcune traduzioni moderne, tra cui quella italiana della CEI, rendono il termine con “infondata”, quindi con valore passivo: parola che non ha fondamento: quindi, calunnia. È un tentativo per dare un senso più rassicurante alla minaccia di Gesù. Non c'è nulla di particolarmente inquietante infatti se Gesù dice che di ogni calunnia si deve rendere conto a Dio!

Ma il significato di argòn è piuttosto attivo e vuol dire: parola che non fonda niente, che non produce nulla: quindi, vuota, sterile, senza efficacia 1. In questo senso era più giusta l'antica traduzione della Volgata, verbum otiosum, parola “oziosa, inutile”, che del resto è quella adottata anche oggi nella maggioranza delle traduzioni.

Non è difficile intuire cosa vuol dire Gesù, se confrontiamo questo aggettivo con quello che, nella Bibbia, caratterizza costantemente la parola di Dio: l'aggettivo energes, efficace, che opera, che è seguita sempre da effetto (ergos) (lo stesso aggettivo da cui deriva la parola “energico”). S. Paolo, ad esempio, scrive ai Tessalonicesi che, avendo ricevuta la parola divina della predicazione dall'Apostolo, l'hanno accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale “parola di Dio che opera” (energeitai) in coloro che credono (cf. 1 Ts 2, 13). L'opposizione tra parola di Dio e parola di uomini è presentata qui, implicitamente, come l'opposizione tra la parola “che opera e la parola “che non opera, tra la parola efficace e la parola inefficace e vana.

Anche nell'epistola agli Ebrei troviamo questo concetto dell'efficacia della parola divina: “Viva ed efficace (energes) è la parola di Dio” (Eb 4, 12). Ma è un concetto di lunga data; in Isaia, Dio dichiara che la parola uscita dalla sua bocca non ritorna mai a lui “senza effetto”, senza avere “operato” ciò per cui l'ha mandata (cf. Is 55, 11).

La parola inutile, di cui gli uomini dovranno rendere conto nel giorno del giudizio, non è dunque ogni e qualsiasi parola inutile; è la parola inutile, vuota, pronunciata da colui che dovrebbe invece pronunciare le “energiche” parole di Dio. È, insomma, la parola del falso profeta, che non riceve la parola da Dio e tuttavia induce gli altri a credere che sia parola di Dio. Avviene esattamente il rovescio di ciò che diceva S. Paolo: avendo ricevuta una parola umana, la si prende non per quello che è, ma per quello che non è, e cioè per parola divina. Di ogni parola inutile su Dio, dovrà rendere conto l'uomo!: ecco dunque il senso del grave ammonimento di Gesù.

La parola inutile è la contraffazione della parola di Dio, è il parassita della parola di Dio. Essa si riconosce dai frutti che non produce, perché, per definizione, è sterile, senza efficacia (s'intende, nel bene). Dio “vigila sulla sua parola” (cf. Ger 1, 12), è geloso di essa e non può permettere che l'uomo si appropri del potere divino in essa racchiuso.

Il profeta Geremia ci consente di udire, come all'amplificatore, l’ammonimento che si cela sotto quella parola di Gesù. In esso appare ormai chiaro che è dei falsi profeti che si tratta: “Così dice il Signore degli eserciti: Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno credere cose vane, vi annunciano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore... Il profeta che ha avuto un sogno racconti il suo sogno, chi ha udito la mia parola annunzi fedelmente la mia parola. Che cosa ha in comune la paglia con il grano? Oracolo del Signore. La mia parola non è forse come il fuoco - oracolo del Signore - e come un martello che spacca la roccia? Perciò, eccomi contro i profeti - oracolo del Signore , i quali si rubano gli uni gli altri le mie parole. Eccomi, contro i profeti - oracolo del Signore” (Ger 23, 16.28-31).

3. Chi sono i falsi profeti

Ma noi non stiamo qui a fare una disquisizione sui falsi profeti nella Bibbia. Come sempre, è di noi che si parla nella Bibbia ed è a noi che si parla. Quella parola di Gesù non giudica il mondo, ma la Chiesa; il mondo non sarà giudicato sulle parole inutili (tutte le sue parole, nel senso descritto sopra, sono parole inutili!), ma sarà giudicato, semmai, per non aver creduto in Gesù (cf. Gv 16, 9). Gli “uomini che dovranno rendere conto di ogni parola inutile sono gli uomini di Chiesa; siamo noi predicatori della parola di Dio.

I “falsi profeti” non sono soltanto coloro che di tanto in tanto spargono eresie; sono anche coloro che “falsificano” la parola di Dio. È Paolo che usa questo termine, traendolo dal linguaggio corrente; alla lettera, esso significa annacquare la Parola, come fanno gli osti fraudolenti, quando allungano con acqua il loro vino (cf. 2 Cor 2, 17; 4, 2). I falsi profeti sono coloro che non presentano la parola di Dio nella sua purezza, ma la diluiscono ed estenuano in mille parole umane che escono dal loro cuore.

Il falso profeta sono anch’io, ogni volta che non mi fido della “debolezza”, “stoltezza”, povertà e nudità della Parola e la voglio rivestire e stimo il rivestimento più della Parola ed è più il tempo che spendo intorno al rivestimento che quello che spendo intorno alla Parola, standovi davanti in preghiera, adorandola e cominciandola a vivere in me.

Gesù, a Cana di Galilea, trasformò l'acqua in vino, cioè la morta lettera nello Spirito che vivifica (così interpretano spiritualmente il fatto i Padri); i falsi profeti sono coloro che fanno tutto l'opposto e cioè trasformano il vino puro della parola di Dio in acqua che non inebria nessuno, in lettera morta, in vano chiacchiericcio. Essi, sotto sotto, si vergognano del Vangelo (cf. Rm 1, 16) e delle parole di Gesù, perché troppo “dure” per il mondo, o troppo povere e nude per i dotti, e allora cercano di “condirle” con quelle che Geremia chiamava “le fantasie del loro cuore”.

San Paolo scriveva al suo discepolo Timoteo: “Sforzati di presentarti davanti a Dio come... uno scrupoloso dispensatore della parola della verità. Evita le chiacchiere profane, perché esse tendono a far crescere sempre più nell'empietà” (2 Tm 2, 15-16). Le chiacchiere profane sono quelle che non hanno attinenza con il disegno di Dio, che non c'entrano con la missione della Chiesa. Troppe parole umane, troppe parole inutili, troppi discorsi, troppi documenti. Nell'era della comunicazione di massa, la Chiesa rischia di sprofondare anch’essa nella “paglia” delle parole inutili, dette tanto per dire, scritte tanto perché esistono riviste e giornali da riempire.

In questo modo noi offriamo al mondo un ottimo pretesto per rimanere tranquillo nella sua miscredenza e nel suo peccato. Quando ascoltasse l'autentica parola di Dio, non sarebbe tanto facile, per l'incredulo, cavarsela dicendo (come fa spesso, dopo aver ascoltato le nostre prediche): “Parole, parole, parole!”. San Paolo chiama le parole di Dio “le armi della nostra battaglia” e dice che soltanto esse “da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all'obbedienza al Cristo” (2 Cor 10, 3-5).

L'umanità è malata di chiasso, diceva il filosofo Kierkegaard; bisogna “indire un digiuno, ma un digiuno di parole; bisogna che qualcuno gridi, come fece un giorno Mosè: “Fa' silenzio e ascolta, Israele” (Dt 27,9). Il Santo Padre ci ha ricordato la necessità di questo digiuno di parole nel suo incontro quaresimale con i parroci di Roma e credo che, come d’abitudine, il suo invito era rivolto alla Chiesa, prima ancora che al mondo.

4. “Gesù non è venuto per dirci frivolezze

Mi hanno sempre colpito queste parole di Péguy:

“Gesù Cristo, bambina mia,

- è la Chiesa che si rivolge ai suoi figli -,

non è venuto per dirci frivolezze...

Non ha fatto il viaggio di scendere sulla terra

Per venire a contarci indovinelli e barzellette.

Non c'è il tempo di divertirsi...

Lui non ha speso la sua vita...

Per venire a contarci frottole 2.

La preoccupazione di tenere distinta la parola di Dio da ogni altra parola è tale che, mandando i suoi apostoli in missione, Gesù comanda loro di non salutare nessuno per via (cf. Lc 10, 4). Io ho sperimentato a mie spese che talvolta questo comando va preso alla lettera. Il fermarsi a salutare la gente e scambiare convenevoli mentre si sta per iniziare a predicare disperde inevitabilmente la concentrazione sulla parola da annunciare, fa perdere il senso della sua alterità rispetto a ogni discorso umano. È la stessa esigenza che si prova (o si dovrebbe provare) quando ci si sta vestendo per celebrare la Messa.

L’esigenza è ancora più forte quando si tratta del contenuto stesso della predicazione. Nel vangelo di Marco, Gesù cita la parola di Isaia: “Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Is 29, 13); poi aggiunge, rivolto ai farisei e agli scribi: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini... annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7, 7-13).

Quando non si riesce a proporre mai la semplice e nuda parola di Dio, senza farla passare attraverso il filtro di mille distinzioni e precisazioni e aggiunte e spiegazioni, in se stesse anche giuste, ma che estenuano la parola di Dio, si fa la stessa recisa cosa che Gesù rimproverò, quel giorno, ai farisei e agli scribi: si “annulla” la parola di Dio; la si “irretisce”, facendole perdere gran parte della sua forza di penetrazione nel cuore degli uomini.

La parola di Dio non può essere usata per fare discorsi di circostanza, o per ammantare di autorità divina discorsi già fatti e tutti umani. In tempi a noi vicini, si è visto dove porta una tale tendenza. Il Vangelo è stato strumentalizzato per sostenere ogni sorta di progetti umani: dalla lotta di classe alla morte di Dio.

Quando un uditorio è così predeterminato da condizionamenti psicologici, sindacali, politici o passionali, da rendere, in partenza, impossibile non dire ciò che esso si aspetta e non dare ad esso completamente ragione su tutto; quando non c'è alcuna speranza di poter portare gli ascoltatori a quel punto in cui è possibile dire loro: “Convertitevi e credete! , allora è bene non proclamare affatto la parola di Dio perché essa non sia strumentalizzata per fini di parte e, quindi, tradita. È meglio, in altre parole, rinunciare a fare un annuncio vero e proprio, limitandosi, semmai, ad ascoltare, a cercare di capire e prendere parte alle ansie e alle sofferenze della gente, predicando piuttosto con la presenza e con la carità il Vangelo del regno. Gesù, nel vangelo, si mostra attentissimo a non farsi strumentalizzare per fini politici e di parte.

La realtà dell'esperienza e, quindi, la parola umana non è esclusa, evidentemente, dalla predicazione della Chiesa, ma essa deve essere sottomessa alla parola di Dio, a servizio di essa. Come, nell'Eucaristia, è il corpo di Cristo che assimila a sé chi lo mangia, e non viceversa, così, nell'annuncio, deve essere la parola di Dio, che è il principio vitale più forte, a soggiogare ed assimilare a sé la parola umana, e non il contrario. Occorre, perciò, avere il coraggio di partire più spesso, nella trattazione dei problemi dottrinali e disciplinari della Chiesa, dalla parola di Dio, specialmente da quella del Nuovo Testamento, e di rimanere poi legati ad essa, vincolati da essa, sicuri che così si raggiunge molto più sicuramente lo scopo che è quello di scoprire, in ogni questione, qual è la volontà di Dio.

Lo stesso bisogno si avverte nelle comunità religiose. C’è il pericolo che nella formazione data ai giovani e ai novizi, negli esercizi spirituali e in tutto il resto della vita della comunità, si spenda più tempo sugli scritti del proprio fondatore (spesso assai poveri di contenuto) che non sulla parola di Dio.

4. Parlare come con parole di Dio

Mi rendo conto che questo che sto dicendo può far nascere una obiezione grave. Allora la predicazione della Chiesa dovrà ridursi a una sequenza (o una raffica) di citazioni bibliche, con tanto di indicazione di capitolo e versetto, alla maniera dei Testimoni di Geova e di altri gruppi fondamentalisti? No di certo. Noi siamo eredi di una diversa tradizione. Spiego cosa intendo per rimanere legati alla parola di Dio.

Sempre nella Seconda lettera ai Corinti, san Paolo scrive: “Noi non siamo come quei molti che mercanteggiano (alla lettera: annacquano, falsificano!) la parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo” (2 Cor 2, 17) e san Pietro, nella Prima lettera esorta i cristiani dicendo: “Chi parla, lo faccia come con parole di Dio” (1 Pt 4,11). Cosa vuol dire “parlare in Cristo”, o parlare “come con parole di Dio”? Non vuol dire certo ripetere materialmente e solo le parole pronunciate da Cristo e da Dio nella Scrittura. Vuol dire che l’ispirazione di fondo, il pensiero che “informa” e sorregge tutto il resto deve venire da Dio, non dall’uomo. L’annunciatore deve essere “mosso da Dio” e parlare come in sua presenza.

Ci sono due modi di preparare una predica o un qualsiasi annuncio di fede orale o scritto. Io posso prima sedermi a tavolino e scegliere io stesso la parola da annunciare e il tema da sviluppare, basandomi sulle mie conoscenze, le mie preferenze, ecc., e poi, una volta preparato il discorso, mettermi in ginocchio per chiedere frettolosamente a Dio di benedire quello che ho scritto e dare efficacia alle mie parole. E' già una cosa buona, ma non è la via profetica. Bisogna piuttosto fare il contrario. Prima mettersi in ginocchio e chiedere a Dio qual è la parola che vuole dire; dopo, sedersi a tavolino e utilizzare le proprie conoscenze per dare corpo a quella parola. Questo cambia tutto perché così non è Dio che deve fare sua la mia parola, ma sono io che faccio mia la sua parola.

Bisogna partire dalla certezza di fede che, in ogni circostanza, il Signore risorto ha nel cuore una sua parola che desidera far giungere al suo popolo. E' quella che cambia le cose ed è quella che bisogna scoprire. Ed egli non manca di rivelarla al suo ministro, se umilmente e con insistenza gliela chiede. All'inizio si tratta di un movimento pressoché impercettibile del cuore: una piccola luce che si accende nella mente, una parola della Bibbia che comincia ad attirare l'attenzione e che illumina una situazione.

Davvero “il più piccolo di tutti i semi”, ma in seguito ti accorgi che dentro c'era tutto; c'era un tuono da schiantare i cedri del Libano. Dopo ti metti a tavolino, apri i tuoi libri, consulti i tuoi appunti, consulti i Padri della Chiesa, i maestri, poeti...Ma è ormai tutto un'altra cosa. Non è più la Parola di Dio al servizio della tua cultura, ma la tua cultura al servizio della Parola di Dio.

Origene descrive bene il processo che porta a questa scoperta. Prima di trovare nella Scrittura l'alimento - diceva - occorre sopportare una certa “povertà dei sensi”; l'anima è circondata da oscurità da ogni lato, si imbatte in vie senza uscita. Finché, improvvisamente, dopo laboriosa ricerca e preghiera, ecco che risuona la voce del Verbo e subito qualcosa si illumina; colui che essa cercava le va incontro “saltando sulle montagne e balzando per le colline” (cf. Ct. 2, 8), cioè dischiudendole la mente a ricevere una sua parola forte e luminosa 3. Grande è la gioia che accompagna questo momento. Essa faceva dire a Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15,16).

Di solito la risposta di Dio arriva sotto forma di una parola della Scrittura che però in quel momento rivela la sua straordinaria pertinenza alla situazione e al problema che si deve trattare, come fosse stata scritta appositamente per essa. A volte non è neppure necessario citare esplicitamente tale parola biblica o commentarla. Basta che essa sia ben presente nella mente di chi parla e informi tutto il suo dire. Facendo così, egli parla, di fatto, “come con parole di Dio”. Questo metodo vale sempre: per i grandi documenti del magistero, come per la lezione che il maestro tiene ai suoi novizi, per la dotta conferenza come per l’umile l’omelia domenicale.

Noi tutti abbiamo fatto l'esperienza di quanto può fare una sola parola di Dio profondamente creduta e vissuta prima da chi la pronuncia e talvolta perfino a sua insaputa; spesso si deve constatare che, tra tante altre parole, è stata quella che ha toccato il cuore e ha condotto più d'un ascoltatore al confessionale.

Dopo aver indicato le condizioni dell’annuncio cristiano (parlare di Cristo, con sincerità, come mossi da Dio e sotto il suo sguardo) l'Apostolo si domandava: “E chi è all'altezza di questo compito?” (2 Cor 2, 16). Nessuno, è chiaro, è all'altezza. Portiamo questo tesoro in vasi di creta (Ib 4, 7). Possiamo però pregare e dire: Signore, abbi pietà di questo povero vaso di creta che deve portare il tesoro della tua parola; preservaci dal pronunciare parole inutili quando parliamo di te; facci sperimentare una volta il gusto della tua parola perché la sappiamo distinguere da ogni altra e perché ogni altra parola ci sembri insipida. Diffondi, come hai promesso, la fame nel paese, “non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11).


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1 Cf. M. Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti Graeci, Romae 1953, ad loc.

2 Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Oeuvres poétiques complètes, Gallimard 1975, pp. 587 s.

3 Cf. Origene, In Mt Ser. 38 (GCS, 1933, p. 7); In Cant. 3 (GCS, 1925, p. 202).

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