“MARTYRIA”: TESTIMONIANZA E MARTIRIO



  1. Introduzione

a) Le tre attuazioni fondamentali della Chiesa

Teologi e catecheti si sono chiesti ripetutamente se era possibile ricollegare le molteplici azioni della Chiesa (predicazione, catechesi, celebrazione dei sacramenti, servizio, preghiera…) ad alcune attuazioni fondamentali che le comprendessero tutte.

Lungo i secoli si sono date varie risposte. Tra queste, l’articolazione più convincente è quella costituita dalla tripartizione: martyria (annuncio e testimonianza), leitourghia (liturgia, sacramenti, preghiera), diakonia (servizio della carità e comunione di fratelli e sorelle).

Questa tripartizione sembra essere la più adeguata perché riprende sia gli aspetti fondamentali delle grandi assemblee del popolo di Israele (cf Es 24, 3-8), sia le azioni decisive della vita di Gesù, sia gli elementi essenziali della comunità in formazione (cf At 2, 42) e del suo successivo processo di istituzionalizzazione (cf S. Wiedenhofer, La Chiesa, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, pp. 207ss.).

b) Annuncio, testimonianza e martirio

Martyria comprende sia l’annuncio che la testimonianza al mondo della parola del Vangelo (cf Mt 28, 19ss.).

La nozione biblica di testimonianza fa riferimento prima di tutto al fatto di aver visto e udito ciò che si testimonia. I testimoni, nel Nuovo Testamento, sono innanzitutto, quelli che hanno conosciuto Gesù, che sono stati testimoni oculari della sua passione e risurrezione e che, in forza dello Spirito Santo, lo confessano come Signore e Salvatore. Più tardi, il termine di testimone è esteso a quelli che senza aver conosciuto Gesù secondo la carne, l’hanno conosciuto e confessato come il Vivente, il Signore (cf, per es., San Paolo).

In secondo luogo, la nozione biblica di testimonianza fa riferimento alla coerenza della vita. La testimonianza, infatti, per essere autentica, suppone l’impegno di tutta la persona, di tutta la vita del testimone. Già nel tardo giudaismo, molti credenti avevano sigillato con il sangue la confessione della loro fede e la parola testimone era divenuta sinonimo di martire. Questa connotazione sarà vivissima nella Chiesa apostolica e nelle comunità dei primi secoli (cf S. de Dietrich, voce Testimone, in Vocabolario biblico (a cura di J. J. Von Allmen, ed. AVE, Roma 1975, pp. 494-495).

Il martirio, è dunque la testimonianza che, di fronte alla virulenza del mysterium iniquitatis, all’ostinazione dell’opposizione del mondo, arriva fino all’effusione del sangue.

c) Problemi aperti

Dal punto di vista teologico, il grosso problema aperto è quello del rapporto tra testimonianza e martirio. Il problema l’aveva già sollevato H. U. von Balthasar all’indomani del Concilio, con il volumetto del 1966 Cordula ovverosia il caso serio, Queriniana, Brescia 1993. La questione è se si deve considerare il martirio come una modalità contingente della testimonianza, dovuta alle sfavorevoli circostanze esterne (intolleranza, mancanza di libertà), oppure come una sua dimensione essenziale, come la croce lo è dell’annuncio cristiano.

Dal punto di vista pastorale, sembra di notare in generale una frattura tra testimonianza cristiana e vita quotidiana, tra spiritualità ed etica, tra fede, lavoro e famiglia. Nella coscienza di molti, sembra che la testimonianza cristiana sia circoscritta alla parrocchia o a qualcosa di particolare in ambiti molto specializzati, senza toccare il tessuto laico della vita. Ciò che è più carente non è la testimonianza nella pastorale ordinaria, ma nella vita ordinaria!

Un altro problema che tocca in generale il rapporto Chiesa-mondo è lo stare a rimorchio dei grandi eventi della storia. A volte forse ci vorrebbe più coraggio nell’aprire strade nuove, senza essere poi costretti dagli eventi a fare determinate scelte. Le comunità cristiane dovrebbero essere più attente e propositive (non sempre sulla difensiva) nell’affrontare fenomeni quali la mondializzazione, la trasmigrazione dei continenti, le sempre nuove frontiere dell’etica.

  1. Il mandato di Gesù ai suoi discepoli

Vorrei considerare due testi, che mi sembrano particolarmente significativi per il nostro tema: Mt 5, 13-16 e Mt 10, 16-17.

a) Voi siete il sale della terra, la luce del mondo (Mt 5, 13-16)

Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli .

La concezione che emerge da queste parole di Gesù non è quella di una Chiesa invisibile, totalmente sciolta nella società, che sacrifica la sua identità e si perde nel mondo. A volte si è voluto leggere così l’immagine del sale, forse come reazione ad una mentalità trionfalistica della Chiesa e come nostalgia di una solidarietà con tutti gli uomini.

Le coordinate che dà Gesù, invece, sono di diverso tenore. I discepoli sono chiamati ad essere come sale che non va a male, sempre pronti a salare il mondo per renderlo commestibile ed evitargli di marcire, come città collocata sopra il monte, come lucerna messa sopra il lucerniere. Essi devono essere per il mondo, ma in maniera tale da non diventare essi stessi mondo, da non scomparire nel mondo.

Se la Chiesa perde questo suo carattere alternativo, se il suo sale diventa scipito e la sua luce si fa diffusa fino a spegnersi, essa ha perso la sua ragion d’essere. Viene allora disprezzata dagli uomini, con la conseguenza che la società non è più in grado di conoscere Dio (cf G. Lohfink, Gesù come voleva la sua comunità, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1990, pp. 91 ss.).

b) Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi (Mt 10, 16-17)

Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe.

Da questo testo risulta che, per il discepolo, la “prova” non è una realtà eccezionale, episodica, ma la condizione normale dell’annuncio del Vangelo. Perché la persecuzione? Ce lo spiega Gesù: Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi delle parole che vi ho detto: un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi (Gv 15, 18-20). Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari (Mt 10, 25).

Gesù ci dice che l’appartenere a Lui comporta come condizione intrinseca l’odio del mondo. Ciò vale per tutti i discepoli. Essi devono sapere che il mettersi a servizio del Vangelo comporta la persecuzione con certezza assoluta, come è certo che viene sbranato l’agnello mandato in mezzo a un branco di lupi.

Le difficoltà che troviamo oggi nella testimonianza del Vangelo sono l’edizione rinnovata di quelle persecuzioni che il Signore ha promesso ai suoi apostoli, sono l’opposizione del mondo al Regno di Dio, sono l’ostilità dei lupi nei confronti degli agnelli. E’ un’ostilità a volte dichiarata, come nelle situazioni di aperta persecuzione, a volte non dichiarata, eppure egualmente forte e aggressiva.

2. A livello teologico: l’urgenza di riconsiderare il rapporto tra testimonianza e martirio

Von Balthasar, all’indomani del Concilio, percepisce come uno smarrimento nella Chiesa, uno sbilanciamento orizzontalistico che le fa perdere la sua originalità, una nebbia diffusa che le rende difficile imboccare la strada giusta. Questa percezione lo porta a scrivere Cordula, dal nome della martire di cui racconta la vicenda.’Cordula’, rinviando alla testimonianza del sangue – egli scrive nella Postilla alla terza edizione tedesca – non voleva essere altro che un segnale d’allarme: la situazione della Chiesa è oggi sanguinosamente seria. Stiamo vivendo attualmente uno di quei momenti in cui, con la ‘mano libera’ di progettare tutti i possibili cristianesimi, siamo sul punto di perdere ogni continuità con ciò che finora è stato definito come cristianesimo, e forse faremmo meglio a cambiare il marchio di fabbrica (p. 146).

Ma ecco il racconto: Quando gli Unni videro le ragazze, si lanciarono su di esse con grandi grida e infierirono come lupi tra le pecore e le uccisero tutte quante. Ci fu una vergine, di nome Cordula, che per la gran paura si nascose durante la notte nella nave; ma il mattino dopo si offrì volontariamente alla morte e ricevette così la corona del martirio. Ma poiché la sua festa non veniva celebrata, perché non aveva sofferto assieme alle altre, molto tempo dopo apparve ad una eremita e le manifestò che la sua festa doveva essere celebrata il giorno dopo la festa delle undicimila ragazze. Non è importante, dice Balthasar, che la nostra festa sia celebrata il giorno prima o il giorno dopo. Importante è che usciamo dal ventre della nave e ci presentiamo come i discepoli e gli apostoli di Cristo, con l’immensa forza del suo Vangelo. Secondo il teologo di Basilea, il risultato ultimo del Vaticano II è stato l’“esposizione” inerme della Chiesa al mondo, con la demolizione di bastioni e baluardi. E ciò senza alcun nascosto pensiero di un nuovo trionfalismo, dopo che l’antico è divenuto impraticabile. Non si pensi che, quando i cavalli di battaglia della Santa Inquisizione, del Santo Ufficio, sono stati eliminati, si possa entrare nella celeste Gerusalemme cavalcando il mite asino dell’evoluzione tra lo sventolare delle palme (p. 129).

Cordula è un capo d’accusa contro quei cristiani che hanno smarrito l’Ernstfall, il “caso serio”, il criterio fondamentale, il nucleo vitale, l’essenza del cristianesimo, che è solo la croce di Cristo. Perdendo questo criterio fondamentale, la Chiesa erode la sua più profonda identità, perdendo la sua stessa ragion d’essere e condannandosi all’irrilevanza. Il recupero del caso serio della croce, della dimensione “martiriale” della testimonianza è certamente a caro prezzo, ma è il prezzo che il discepolo deve pagare se vuole essere di Cristo. Questa è la soluzione che dà von Balthasar al problema teologico da cui siamo partiti, e mi sembra che possiamo ben essere d’accordo.

Un riscontro lo ritroviamo nella testimonianza di vita dei Santi del nostro tempo. P. Christian de Chergé, il priore dei monaci trappisti uccisi in Algeria il 21 maggio 1996, due anni prima di morire, riflettendo sull’assassinio di due missionari, fratel Henri e suor Paul-Hélène, dopo aver citato Gv 15, 13 (Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici), commenta: Meglio farlo prima, e per tutti, come Gesù. Così chi crederà di mettervi a morte non vi prenderà la vita; già prima, a sua insaputa, questo dono era stato concesso, a lui come agli altri. Hamid, uno dei giovani frequentatori della biblioteca della casbah animata da frère Henri, ha potuto testimoniare: ‘Non gli hanno rubato la vita, l’aveva già donata’… Secondo il proverbio sufi (Henri e Paul-Hélène) ‘non hanno atteso di morire per morire’, non hanno atteso i persecutori per impegnarsi nel martirio, reinventando così, nel cuore delle masse, quello che i monaci andavano a cercare nel deserto dopo l’epoca delle persecuzioni: ‘il martirio della speranza’. Questo è il ‘rischio’ che ‘viviamo quotidianamente’ da queste parti; da tempo ci è imposto. E’ una scelta che deve poter resistere, anche oggi. C’è da scommettere che alcuni lo fanno anche ‘a un’ora di volo da Algeri’! Discostandoci da questo rischio, avremmo ancora qualcosa da dire dell’Evangelo nel mondo di oggi?(Più forti dell’odio, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 9).

Nel suo testamento, p. Christian scrive: “Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel paese”.

Da questa prospettiva, il martirio dei nostri fratelli ci appare, non come un’impresa eroica di uomini valorosi, ma come il naturale evolversi di una vita donata che, nella prova, acquista un sovrappiù di umanità e sprigiona una potenzialità impensata di amore.

Ecco il grande segreto dei martiri di Tibhirine: aver donato la vita ed essere rimasti fedeli a quel dono. La loro vita ha avuto il colore del sangue solo per ventura, ma era già stata offerta ai fratelli e nessuno poteva più rubarla loro. Non hanno atteso di morire per morire.

Questo fatto illumina grandemente la nostra vita di discepoli del Signore. Tutti siamo chiamati a donare la nostra vita se vogliamo aver parte con Cristo, entrare nel mistero della sua morte e risurrezione. E’ questa un’esigenza primaria del Vangelo che, forse, era stata troppo dimenticata in tanti secoli di “cristianità” e che oggi torna a risplendere in tutta la sua luce. Donare la vita significa metterla a disposizione, offrirla, perderla: incondizionatamente, senza riserve. Del resto è quello che ci chiede il Signore: Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà (Mt 16, 25). Che la forma di questo dono sia il martirio di sangue o la fedeltà nascosta o l’impegno laborioso o il perdono incondizionato è relativo: ciò che conta è il dono di sé.

Così, qualsiasi prova che la vita ci riserverà, non farà altro che fortificare e far risplendere quel dono di noi che già avevamo fatto nel cuore.

3. A livello pastorale: il martirio della fede, della speranza, della carità

Non è forse perché si abbiamo separato troppo la fede dalla vita che tanti nostri contemporanei si sono allontanati dalla Chiesa? Mi ha colpito molto un passo del testamento di Norberto Bobbio: L’unico rimedio alla stanchezza ‘mortale’ è il riposo della morte. Requiem aeternam dona eis Domine. Nell’ultimo bellissimo coro della Passione secondo San Giovanni di Bach, il coro, subito dopo la morte di Cristo canta: Ruht wohl (“riposa in pace”). Desidero funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì.

Esiti come questo dipendono certamente dalle scelte di chi le fa; ma non vi è forse implicata anche una certa responsabilità di noi cristiani, una nostra mancanza di visibilità e di testimonianza? Anche noi, in Gesù, siamo consacrati e mandati “per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Il problema è “come”.

a) Martirio della fede

Significa il coraggio, la parresia di essere cristiani e di annunciare il Vangelo nella società attuale, bisognosa di testimoni. Gli ambiti sono molti; a me pare particolarmente urgente quello culturale.

Il 1° dicembre 2003 mons. Giovanni Nervo, fondatore della Caritas italiana, ha ricevuto la laurea ad honorem in Scienze dell’Educazione presso la nostra Università. Nella sua lectio magistralis, egli si chiedeva perché fosse stato dato a lui un tale riconoscimento. E rispondeva di vedere in tale iniziativa un incontro fra la cultura ‘nobile’, fondata sullo studio sistematico e sulla rigorosa ricerca scientifica…, e la cultura’povera’ che nasce dalla riflessione metodica sulle esperienze di formazione e di lavoro sociale. Mi è piaciuta molto questa distinzione perché non esclude nessuno dall’impegno culturale. L’importante è che impariamo a riflettere sulle nostre esperienze quotidiane, a vederne lo spessore e le conseguenze, a prendere posizione e a sostenere ciò che ci sembra più conforme al Regno di Dio. Questo dà fastidio a chi ha interesse che la pensiamo tutti allo stesso modo, perché gli rompe i piani e magari gli rovina le vendite. Ma ciò non ci deve far paura, anche se può costare caro.

Ci sono fermenti straordinari che stanno muovendo la nostra società e che sono in grado di fare cultura nuova, come il cosiddetto “terzo settore”, con la sua rete di volontariato, cooperative sociali, enti non profit (cf Civitas); il movimento per la pace; la solidarietà verso gli stranieri; ecc. Siamo chiamati a diventare martiri della fede prendendo posizione e pagando di persona per quelle posizioni che sono più in sintonia con il Vangelo.

b) Martirio della speranza

Vorrei mettere sotto questo paragrafo l’impegno politico. E’ il discorso più difficile, perché quando si parla di politica si pensa facilmente a interessi, potere, corruzione. I cristiani tuttavia non possono abdicare alla partecipazione alla vita politica, perché è in questo ambito che ci si fa carico del bene comune, si prendono le decisioni per organizzare la società, si fanno scelte che hanno un peso enorme nella vita delle persone.

Basta pensare alla politica della casa. Se si costruiscono condomini popolari con appartamenti di 20 metri quadrati, è chiaro che si condiziona in negativo la vita e le scelte di chi vi abiterà dentro. Discorsi analoghi si possono fare per l’istruzione, il lavoro, la viabilità, le carceri.

C’è però modo e modo di impegnarsi nella politica, come nella diaconia. Il primo modo è quello che ha sullo sfondo una concezione apocalittica del mondo: in questo mondo del Maligno si può soltanto impedire il peggio, ma non creare nulla di stabilmente buono. Il mondo è e rimarrà sempre un ospedale da campo, un detestabile “lazzaretto”. La politica e la diaconia possono solo compensare e alleviare il bisogno, ma niente di più. Ci sono fede e carità; manca la speranza.

Il secondo modo è quello che ha sullo sfondo una concezione messianica del mondo e che prende sul serio la forza del Regno di Dio. In questa prospettiva, la pretesa del cristiano è quella di poter trasformare il mondo, di anticipare già ora il nuovo ordine di tutte le cose. La politica e la diaconia, perciò, non sono soltanto un alleviare le sofferenze, curare le ferite e fornire compensazioni sociali, ma anticipazione della nuova vita e della nuova comunità. Ci sono fede, carità e speranza.

In questa prospettiva, l’impegno politico è importante, affascinante e urgente. Ma è possibile a un cristiano convinto fare politica oggi in modo coerente? A me pare di sì, a due condizioni: primo, che sia competente; secondo, che dia il primato alla spiritualità. Un politico così sarà sempre all’opposizione, non tanto al governo ma, come diceva don Primo Mazzolari, al minor bene, per spingere verso forme sempre più umane della convivenza civile. Ci dev’essere un lievito di malizia in ognuno di noi se milioni e milioni di uomini non hanno né pane, né terra, né casa, né pace, né giustizia (Mazzolari, La Pasqua).

c) Martirio della carità

E’ il grande tema del servizio, della diaconia. In questo ambito, c’è una gamma vastissima di possibilità e di bisogni; basta che pensiamo alla famiglia, alla scuola, alla sanità, al lavoro, ai disabili, agli anziani, ai carcerati, ai senza-tetto. E nuove frontiere sempre si aprono: gli stranieri, gli emarginati, i falliti (nel matrimonio o nel lavoro), i soli. La Chiesa italiana si è dotata dello strumento della Caritas e ha ripristinato i diaconi permanenti per poter attivare una diaconia capillare nel territorio. C’è bisogno di tanto olio, perché ci sono tante ferite che attendono di essere guarite.


Conclusione

Noi oggi non saremo probabilmente chiamati a subire persecuzioni di sangue. Ma altre, sì! Il vescovo Sandro Maggiolini, nel suo libro Meglio il martirio, cita una frase di Kierkegaard: Se Cristo ritornasse al mondo, forse non sarebbe messo a morte, ma in ridicolo. E’ questo il martirio dei tempi dell’intelligenza…Il mondo perirà fra il divertimento universale della gente di spirito.

La testimonianza del Vangelo di Cristo anche oggi è a caro prezzo. E’ il prezzo per entrare nel mistero della gioia. Nel discorso della montagna, il Signore l’assicura ai miti, ai misericordiosi, ai pacifici, ai puri, ai poveri, ai perseguitati, insomma, a coloro che portano la croce insieme con Lui.

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