I RACCONTI DI VOCAZIONE E SEQUELA IN MATTEO

di Annalisa Guida

In Matteo la prima chiamata di discepoli avviene piuttosto tardi nel racconto. Nei primi quattro capitoli la scena, infatti, è tutta concentrata su Gesù: si dipinge il quadro della storia di salvezza nella quale egli è introdotto come suo compimento, si profila l’essenza della sua missione nel suo stesso nome, si configura il suo modo di essere figlio attraverso il brano delle tentazioni e del battesimo.

Al capitolo 4, dopo il cosiddetto inizio del ministero pubblico, ecco invece il primo racconto di vocazione ed è, come in Marco, una chiamata al quadrato: due chiamate di due coppie di fratelli. È importante analizzare gli elementi strutturanti del brano, perché da essi emergerà la teologia della vera sequela secondo Matteo, che sarà confermata anche da episodi seguenti.

Sequela immediata per un programma ambiguo

Il brano è scarno e, come in Marco, è costruito proprio come un doppione:

18 Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. 19 E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». 20 Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. 21 Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. 22 Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono (4,18-22).

La simmetria è evidente e giustifica l’omissione, nella seconda sequenza, di alcuni particolari che sono implicitamente trasferiti al lettore dalla corrispondenza (tipo: le parole pronunciate da Gesù), mentre la seconda scena offre altre presenze.

In primo luogo notiamo che lo schema letterario soggiacente è quello del racconto di vocazione secondo il modello veterotestamentario e la tradizione profetica, di solito costituito dalle seguenti tappe:

– c’è l’indicazione della situazione del chiamato: colui che è chiamato viene incontrato nell’esercizio della sua professione;

– segue la vocazione, effettuata mediante una vera chiamata oppure attraverso un’azione simbolica;

– viene riportata, talvolta, l’obiezione del chiamato (per impreparazione, senso di inadeguatezza, ecc.) alla quale risponde una rassicurazione del chiamante;

– infine, inizia la sequela vera e propria, con conseguente abbandono della situazione precedente, dei genitori, ecc.

Il racconto evangelico delle prime chiamate dei discepoli nella versione sinottica rispetta fedelmente lo schema, con l’omissione (vedremo quanto narrativamente efficace in apertura di un racconto) dell’obiezione dei chiamati. L’ambientazione, qui, è il mare/lago di Galilea: lo schema ripreso in entrambe le scene vede, in primo luogo, la centralità dell’azione di Gesù e l’assoluta priorità della sua iniziativa. Gesù è il soggetto di quasi tutte le azioni del brano: è Gesù che cammina (4,18.21), che vede (18.21), che dice/chiama (19.21).

E ognuna di queste sue azioni è efficace nel racconto:

– il suo camminare mette in moto altri che stavano fermi: Gesù, in movimento, associa altri al suo cammino;

– il suo vedere (eiden) è un vedere non casuale, ma intenzionale; porta con sé una progettualità e prepara a una risposta;

– nel suo dire/chiamare, lo sguardo si fa parola e si fa comando (e comanda solo chi ha un’autorità, indizio di una coscienza implicita di Gesù della propria identità); nel comando è come se al discepolo venisse data anche la forza di rispondere. È un imperativo creativo, come quelli di Gn 1: in un certo modo esso pone in essere, crea il discepolo.

I chiamati, invece, sono dapprima soggetto di un’istantanea, che partecipa al lettore lo stesso vedere di Gesù: con due participi («gettanti» e «riparanti» le reti) o con un predicato nominale («erano infatti pescatori»), il narratore fotografa per noi con gli occhi di Gesù lo stato, la condizione, l’esistenza stessa di questi nuovi personaggi. Ogni volta sono due, sono fratelli, hanno un’individualità, un nome, stanno lavorando (i primi stanno gettando le reti, i secondi le stanno riparando: è l’inizio e la fine di una normale giornata di lavoro). Essi «sono», si identificano con la loro professione, certamente umile ma decorosa e diffusa, e la narrazione nella prima scena lo ripete quasi pleonasticamente: «erano infatti pescatori», probabilmente per offrire un gancio alle successive parole di Gesù. Della seconda coppia di fratelli non solo si aggiunge il nome del padre (si allude alle altre relazioni, alla famiglia), ma quel padre è in scena insieme a loro, nella barca, luogo quotidiano di occupazione, di amicizia, di fatica, di familiarità.

Le due coppie di fratelli diventano attive e proseguono l’azione di Gesù solo dopo le sue parole (riferite esplicitamente nella prima scena, omesse nella seconda), che hanno il potere narrativo, come si diceva prima, di metterli in moto perché essi, da una condizione certamente non passiva ma spazialmente statica (stanno lavorando ma sono fermi, stanno in un luogo), lasciano qualcosa o qualcuno (i complementi oggetto di questo lasciare sono accuratamente distinti dal narratore) e seguono Gesù, cominciando quel cammino, reale e metaforico, che li vedrà impegnati fino alla fine del racconto e, implicitamente, anche oltre il Vangelo stesso[1].

Che cosa dice loro Gesù, qual è il suo programma formativo che essi abbracciano con tanta immediatezza? Al lettore non può non sembrare scarno, quasi insufficiente per giustificare gli atti seguenti, tanto eclatanti: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». La prima sorpresa è la richiesta stessa di una sequela: che razza di maestro è questo, che va a cercarsi i suoi discepoli? Non era affatto questa la prassi abituale nel mondo ebraico, dove era l’allievo a scegliere un maestro e a chiedergli di poterlo seguire[2] per compiere un itinerario di formazione, umana, intellettuale, religiosa. E poi, quale itinerario offre loro? Diventare «pescatori di uomini». Ma che titolo è? Cosa può significare per questi uomini? Da un lato è evidente la vicinanza all’esperienza dei chiamati, a qualcosa di cui ben conoscono le leggi, il mestiere, l’arte. Dall’altro, però, sembra esserci il rinvio a una dimensione più profonda, forse un richiamo escatologico a un evento definitivo di passaggio dal male alla salvezza[3]. L’espressione ha chiaramente i contorni di una metafora “opaca”, che volutamente lascia nel dubbio il lettore. I chiamati da Gesù sembrano coglierne implicitamente il senso o comunque accettare l’incertezza del programma, perché la parola basta a dare la forza stessa della sequela. Quando la tensione drammatica raggiunge il culmine e siamo a chiederci cosa faranno i chiamati, ecco un euthéos («subito») a dirci che immediatamente, lasciando le reti, i primi due cominciarono a seguire Gesù. Dovremo chiarire il valore programmatico ed escatologico di questa immediatezza.

Ma torniamo al senso di quella proposta formativa, l’essere pescatori di uomini, anzi, il “farsi fare”, il farsi rendere da questo misterioso Gesù pescatori di uomini. Il lettore, che resta con questo enigma, si aspetta un chiarimento dal seguito del racconto. Ma neanche la scena successiva della chiamata dei figli di Zebedeo può offrirla. In questa seconda scena, infatti, come dicevamo, alcuni elementi della prima vengono omessi, veicolando implicitamente la loro ripetizione. In questa nuova chiamata, piuttosto, si sottolinea un aspetto della condizione dei chiamati – lo stare con il padre sulla barca – che richiede quindi una nuova esplicitazione all’atto della sequela: essi, infatti, non lasciano solo un oggetto (le reti), particolare di una professione, di un saper fare, ma anche una persona (il padre) e un luogo (la barca) che rappresentano le relazioni, l’essere con, e la familiarità di un luogo, l’essere dove. La sequela abbraccia e implica la totalità dell’esperienza personale, sembrano dirci le due scene, coinvolgendo e trasformando ogni ambito dell’esistenza: sarà importante tenerne conto nella lettura di due episodi successivi.

La sequela immediata ha chiaramente valore programmatico a inizio di questa vita pubblica e serve a sottolineare soprattutto l’autorevolezza irresistibile del chiamante, al quale si può solo scegliere di «andare dietro»[4], conservando nel cuore l’enigmaticità del percorso che ti attende. In Matteo questa opacità della finalità della sequela sembra durare a lungo, perché la risposta sul senso dell’essere pescatori di uomini si farà attendere[5].

Un lungo apprendistato e due discepoli in sospeso

Cosa fa Gesù dopo aver chiamato le due coppie di fratelli? Annuncia, guarisce tanti tipi di malattie, insegna, ecc.: i discepoli cominciano, insomma, ad ascoltare e a vedere dal vivo, ad apprendere dal loro maestro cosa essi stessi dovranno fare.

Il discorso della montagna, per esempio, che si frappone tra Mt 4 e Mt 9 (vocazione di Matteo), è un insegnamento decisivo per i discepoli affinché riscoprano il vero volto di Dio che in Gesù si manifesta e comincino a entrare nella sua logica, nella sua prospettiva. Quindi il racconto ci presenta delle guarigioni (il lebbroso e il servo del centurione, la suocera di Pietro e varie guarigioni, che adempiono la profezia di Mt 8). Segue un decisivo insegnamento sulla sequela, narrativizzato attraverso la doppia domanda di uno scriba e di un discepolo:

Vedendo Gesù una gran folla intorno a sé, ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. E un altro dei discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti» (8,18-22).

In senso stretto non siamo di fronte a due racconti di chiamata, ed emergerà forse con chiarezza al lettore che non viene rispettato lo schema letterario proprio del genere. Ma mi sembra opportuno riflettere su questi due colloqui perché emerga, per differenza, lo specifico della vocazione e della sequela secondo Matteo. In primo luogo nell’uno come nell’altro caso l’iniziativa non è affatto di Gesù. Nel primo caso è evidente: lo scriba è uomo del suo tempo e, come qualsiasi allievo di un rabbi, chiede al maestro che lo ha affascinato di poterlo seguire; nel secondo caso potremmo ipotizzare che Gesù abbia fatto una richiesta, ripresa poi dal v. 22; ma quello che il narratore mette in evidenza è l’obiezione del discepolo, che chiede una procrastinazione per poter provvedere alla sepoltura del padre: un dovere, tra l’altro, imprescindibile per un pio giudeo.

Matteo lascia volutamente aperti i due micro racconti: lo scriba e il discepolo entreranno nel gruppo di Gesù? La risposta allo scriba è un esplicito rifiuto? Il discepolo rinuncerà alla sepoltura del padre? Riflettiamo, dunque, sul senso di questi personaggi mono-dimensionali che compaiono in questo singolare punto del racconto (singolare, vedremo, per ciò che seguirà). Perché Matteo li lascia sospesi? Credo che la risposta sia provocatoriamente rinviata alla riflessione del lettore, chiamato a fare un confronto con i precedenti (e il successivo) racconti di chiamata. Il lettore non può non notare, rispetto agli elementi ben ribaditi dal racconto doppione di Mt 4, che qui, in entrambe le situazioni, c’è qualcosa che non torna: nel primo caso, dicevamo, non è Gesù a chiamare. Nel secondo, pur ammettendo che Gesù abbia fatto un’iniziale chiamata, viene sollevata un’obiezione e la risposta non è né immediata né scontata.

Due rischi del discepolato vengono così sottolineati:

– a un discepolato ingenuo o presuntuoso, che vuole darsi da sé i presupposti per la chiamata, Gesù prospetta subito le difficoltà da venire;

– a un discepolato con riserve, esitante, Gesù ribadisce la priorità assoluta della sequela, con quell’imperativo al quale i primi quattro non hanno mosso nessuna obiezione e non hanno frapposto nessun intermezzo o riserva, lasciando tutto quello che caratterizzava la loro vita precedente, padre compreso.

Il lettore attento valuta bene la differenza marcata tra quelli, questi e colui il quale seguirà questi due, e non per arrivare a una facile approvazione degli uni a scapito degli altri, bensì perché quella chiamata iniziale, avendo valore programmatico, ha anche una portata esemplare riguardo alla vera sequela. Il lettore, che rischia di percepire una frustrazione rispetto a quella idealità e vede invece qui messi in scena due atteggiamenti che probabilmente sente molto più vicini alle proprie riserve, è così spronato a riflettere su di esse e a conformarsi a quel primo modello, in maniera tuttavia non ingenua né superficiale, ma in una consapevolezza matura dei possibili rischi e ostacoli che, lungo il cammino e non sempre nell’entusiasmo degli inizi, possono presentarsi a qualsiasi discepolo.

A questo doppio episodio seguono altre manifestazioni della potenza di Gesù: l’acquietarsi della bufera sul lago, l’esorcismo degli indemoniati geraseni e la guarigione del paralitico, occasione narrativa per aprire la disputa sul potere di rimettere i peccati. È in questo contesto narrativo che, in un solo versetto, Matteo (o chi per lui) si mette in scena.

La chiamata di Matteo: senso di un autoritratto in un racconto

Andando via di là, Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì (9,9).

Una prima, immediata osservazione. Si possono versare (e, in verità, sono stati versati) fiumi di inchiostro per dimostrare la plausibilità di questa doppia identità del pubblicano evangelico: il personaggio aveva un doppio nome, Levi - Matteo (l’uno sarebbe stato nome di famiglia, l’altro nome personale), oppure i nostri autori avevano fonti diverse, ecc. Credo che, a meno di nuove scoperte, questo resti un quesito irrisolvibile e addirittura superfluo e posto male. La domanda seria da farsi, a mio parere, non è come combinare l’identità riportata da Marco con quella riferita da Matteo, ma proprio interrogarsi sul perché di questa volontaria ridenominazione e proprio con il personaggio che, nella tradizione, ha composto il primo Vangelo – indubbiamente il più autorevole nella storia della Chiesa, che nel canone gli ha riservato il posto d’onore tra i quattro.

Qual è, cioè, il senso di questo “autoritratto” nel racconto? Siamo soliti a questo tipo di operazioni nella pittura o nel cinema; pensiamo, ad esempio, ai pittori fiamminghi, che si ritraevano riflessi in uno specchio del loro dipinto, o a Caravaggio che modella su di sé molti protagonisti delle sue opere, o ancora, più recentemente, nel cinema, alle comparse di Fellini o Hitchcock nei loro film. Perché al Levi marciano si dà il nome di uno che poi ritornerà nell’elenco dei Dodici e al quale la tradizione attribuisce tutto il Vangelo?

Forse è proprio da questo ritorno del personaggio che possiamo trarre una prima indicazione. In Marco, Levi diventa discepolo anche se non apostolo, ovvero il fatto di non ritrovare il suo nome nella lista dei Dodici ci fa capire che ci sono modi diversi di partecipare alla sequela del Signore ma la dignità dei chiamati, che ti viene non dai tuoi meriti ma dal gesto e dall’amore di chi ti chiama, è la stessa. In Matteo, si può pensare, lo specifico del personaggio del pubblicano, che è la sua peccaminosità, la sua impurità, entra dentro la storia del gruppo dei Dodici. Non a caso Matteo inserisce il versetto proprio all’interno di una micro sezione dedicata al tema della remissione dei peccati, mentre in Marco la pericope era molto più vicina alla chiamata dei primi quattro. Quando il lettore ritroverà il suo nome nel capitolo seguente, solo il primo Vangelo[6] specificherà «Matteo, il pubblicano», a voler sottolineare: «Sì, proprio lui, quello che stava al banco delle imposte, quello che nessun rabbi avrebbe accolto alla propria sequela, quello al quale dobbiamo questo racconto, quello lì è diventato uno dei Dodici, uno di quelli più vicini al Maestro!». E si noti che Matteo non scrive: quello che era un pubblicano, bensì il pubblicano.

L’effetto sul lettore, in particolare sull’uditorio di Matteo, deve essere per forza di cose dirompente. Colui che sta raccontando questa storia, un giorno era seduto a un banco delle imposte, era un peccatore, e qualcosa – o qualcuno – lo ha “rimesso in moto”… fino a oggi e fino a queste pagine.

Diventa chiaro, allora che questo Gesù non è un maestro come gli altri. Ha un modo di fare tutto suo. Come con i primi discepoli, anche qui Gesù passa, vede, chiama. E anche qui il chiamato, seduto, statico, si mette in moto, senza esitazione. A Matteo Gesù non esplicita neanche un programma, del tipo: «Ti farò pescatore di uomini». A Matteo Gesù dice solo un «Seguimi», assoluto, senza aggiunte. Forse perché in fondo è la stessa chiamata del pubblicano a esemplificare cosa significhi diventare pescatori di uomini. La citazione da Os 6,6: «Misericordia voglio, e non sacrificio», che risuonerà nell’episodio seguente[7], trova qui la sua anticipazione narrativa. E Gesù spiegherà a chi contesta i suoi discepoli:

Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori (9,12-13).

C’è un’altra citazione con un potente effetto di riepilogo e di collegamento che torna alla mente al lettore attento, ed è quella tratta da Is 9 che aveva preceduto la vocazione dei primi quattro discepoli:

Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata (4,16).

Letteralmente, il popolo immerso è il popolo «seduto» nelle tenebre (kathémenos); e come sta il pubblicano quando Gesù lo vede? Kathémenon, seduto al banco delle imposte! Quella di Matteo è la stessa condizione d’Israele! Anche Matteo è seduto, giacente, nelle tenebre della sua condizione. E anche per lui si leva una luce. Come lo ha compreso ed espresso bene Caravaggio nella sua Chiamata di Levi, con il fascio di luce in diagonale che congiunge idealmente Gesù e il pubblicano, l’incrocio degli sguardi, l’emergere plastico dall’oscurità[8]!

L’alzarsi e il mettersi in movimento di Matteo è chiaramente l’abbandono del suo tavolo, della sua professione, quindi della sua condizione professionale che era anche occasione e condizione della sua impurità. Ma il racconto non ci dice che Matteo viene chiamato perché sceglie di lasciare il suo bancone. Matteo non verrà ricordato come un ex-pubblicano, nell’elenco dei Dodici. Il racconto ci dice, come chiarirà anche la risposta di Gesù a quanti contestano il suo mangiare con pubblicani e peccatori, che egli non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.

Il tempo della verifica e della prova

Dopo quello di Matteo, non ci saranno più racconti di chiamata in senso stretto nel seguito del racconto. Al capitolo 10 quella ai Dodici è piuttosto una convocazione in vista non di una sequela, bensì di una costituzione come gruppo con una particolare missione e di un invio. Ai Dodici saranno conferiti i poteri di fare esorcismi e di guarire, ma soprattutto seguirà un lungo discorso, proprio di Matteo, sullo specifico della loro missione. Come a dire: è giunta l’ora di mettere in pratica ciò che avete appreso; vediamo cosa avete imparato in tutto l’intenso apprendistato che avete fatto fino a questo punto.

Si prepara il tempo della verifica e della prova; cominciano a profilarsi, all’orizzonte, le prime difficoltà. In quel tempo, come non mai, la memoria esistenziale e narrativa di un giorno di luce, lungo il mare di Galilea o in un chiassoso mercato, sarà un viatico prezioso.



[1] L’invio di Mt 28,19-20: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», è anticipazione di un andare che prosegue anche oltre la storia narrata.

[2] Ne abbiamo traccia nello stesso Matteo in 8,19 e in Gv 1,35-42.

[3] L’intertestualità veterotestamentaria più probabile è Ger 16,16: «Ecco, io invierò numerosi pescatori – dice il Signore – che li pescheranno…», sebbene qui – dato il contesto dell’oracolo, pure di carattere escatologico – la figura dei pescatori sia strumento di un giudizio punitivo e non salvifico.

[4] Verbo tecnico dei racconti di chiamata, insieme a «seguire».

[5] Nel Vangelo di Marco, al contrario, c’è una contiguità narrativa molto stretta tra la chiamata dei primi discepoli e quella di Levi, che funziona efficacemente da eco e da risonanza della precedente e comincia a esplicitare come Gesù stesso diventi «pescatore di uomini», chiamando un peccatore alla sua sequela. In Matteo, invece, dopo il racconto delle prime vocazioni, inizia un lungo percorso di apprendistato.

[6] Contro Marco e Luca che si limitano a citare soltanto il nome di Matteo: cf. Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13.

[7] Sarà ripresa anche in Mt 12,7, chiarendo il senso di tutte le guarigioni raggruppate in questa sezione.

[8] Si veda l’immagine riprodotta in copertina di Parole di vita 1 (2008) e il commento di N. Maffioli, La vocazione di Matteo, p. 64.

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