P. R. Cantalamessa. Adoro te devote

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2004-12-03- I Predica di Avvento alla Casa



Per rispondere al desiderio e alle intenzioni del Santo Padre nel dedicare l’anno in corso all’Eucaristia, la predicazione di questo Avvento – e, se è volontà di Dio, anche della prossima Quaresima- sarà un commento, strofa per strofa, dell’Adoro te devote.
Con la sua enciclica Ecclesia de Eucharistia il Santo Padre Giovanni Paolo II si è proposto, dice, di ridestare nella Chiesa “lo stupore eucaristico” [1] e l’Adoro te devote si presta meravigliosamente a ottenere questo scopo. Esso può servire a dare un afflato spirituale e un’anima a tutto ciò che si farà, in questo anno, per onorare l’Eucaristia.

Un certo modo di parlare dell’Eucaristia, pieno di calda unzione e devozione oltre che di profonda dottrina, scacciato dall’avvento della teologia cosiddetta “scientifica”, si è rifugiato negli antichi inni eucaristici ed è qui che dobbiamo oggi andarlo a ricercare, se vogliamo superare un certo arido concettualismo che ha afflitto il sacramento dell’altare in seguito alle tante dispute intorno ad esso.

La nostra, però, non vuole essere una riflessione sull’Adoro te devote, ma sull’Eucaristia! L’inno è soltanto la mappa che ci serve per esplorare il territorio, la guida che ci introduce all’opera d’arte.

1. Una presenza nascosta

In questa meditazione riflettiamo sulla prima strofa dell’inno. Essa dice:

Adóro te devóte, latens Déitas,
quae sub his figúris vere látitas:
tibi se cor meum totum súbicit,
quia te contémplans totum déficit.

Non esistendo una versione ritmica italiana che sia, nello stesso tempo, il più possibile fedele all’originale, ho provato a farne una io stesso:

Devoto io t’adoro, nascosta deità,
che sotto questi segni ti celi in verità.
cuore e corpo mio a te io sottometto,
ché contemplando te vien meno tutto.

Sono stati fatti tentativi di stabilire il testo critico dell’inno in base ai pochi manoscritti esistenti anteriori alla stampa. Le varianti rispetto al testo che conosciamo non sono molte. La principale riguarda proprio i primi due versetti di questa strofa che, secondo Wilmart, all’origine suonavano così: Adoro devote latens veritas /Te qui sub his formis vere latitas, dove “veritas” starebbe per la persona di Cristo e “formis” sarebbe l’equivalente di “figuris”.

Ma a parte il fatto che questa lettura è tutt’altro che sicura [2] , c’è un altro motivo che spinge ad attenerci al testo tradizionale. Questo, come altri venerandi inni liturgici latini del passato, appartengono alla collettività dei fedeli che lo hanno cantato per secoli, lo hanno fatto proprio e quasi ricreato, non meno che all’autore che lo ha composto, spesso, del resto, rimasto anonimo. Il testo divulgato non ha meno valore del testo critico ed è con esso infatti che l’inno continua ad essere conosciuto e cantato in tutta la Chiesa.

In ogni strofa dell’Adoro te devote c’è un’affermazione teologica e una invocazione che è la risposta orante dell’anima al mistero. Nella prima strofa la verità teologica evocata riguarda il modo di presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. L’espressione latina “vere latitas” è densissima di significato; vuol dire: sei nascosto, ma ci sei veramente (dove l’accento è sul “vere”, sulla realtà della presenza) e vuol dire anche: ci sei veramente, ma nascosto (dove l’accento è su “latitas”, sul carattere sacramentale, mediato dai segni, di questa presenza).

Per comprendere questo modo di parlare dell’Eucaristia bisogna tener conto della “grande svolta” che si verifica circa l’Eucaristia nel passaggio dalla teologia simbolica dei Padri a quella dialettica della Scolastica. La svolta ha i suoi remoti inizi nel secolo IX, con Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie: il primo difensore di una presenza fisica e materiale di Cristo nel pane e nel vino, il secondo di una presenza vera e reale, ma sacramentale, non fisica; esplode però apertamente solo due secoli più tardi, con Berengario di Tours (H 1088) che accentua a tal punto il carattere simbolico e sacramentale di Cristo nell’Eucaristia da compromettere la realtà oggettiva di tale presenza.

Mentre prima si diceva che Cristo nell’Eucaristia è presente sacramentalmente, o, secondo gli orientali, mistericamente, ora, con un linguaggio mutuato da Aristotele, si dice che è presente sostanzialmente, o secondo la sostanza. Figura non indica più, come sacramentum, l’insieme dei segni con cui si realizza la presenza di Cristo, ma semplicemente le “specie o apparenze” del pane e del vino, nel linguaggio tecnico, gli accidenti [3] . Il segno più chiaro dell’avvenuto cambiamento di clima è che l’espressione “corpo mistico” che fino ad ora designava il corpo eucaristico di Cristo, ora passa a designare la Chiesa [4] .

Il nostro inno si colloca chiaramente al di qua di questa svolta, anche se evita il ricorso ai nuovi termini filosofici, poco appropriati in un testo poetico. Nel verso “quae sub his figuris vere latitas”, il termine figura indica le specie del pane e del vino in quanto nascondono quello che contengono e contengono quello che nascondono [5] .

2. In devota adorazione

Dicevo che in ogni strofa dell’inno troviamo un’affermazione teologica seguita da una invocazione con cui l’orante risponde ad essa e si appropria della verità evocata. All’affermazione della presenza reale, anche se nascosta, di Cristo nel pane e nel vino l’orante risponde sciogliendosi letteralmente in devota adorazione e trascinando con sé, nello stesso movimento, le innumerevoli schiere di anime che per oltre mezzo millennio hanno pregato con le sue parole.

Adoro: questa parola con cui si apre l’inno è da sola una professione di fede nell’identità tra corpo eucaristico e il corpo storico di Cristo, “nato da Maria Vergine, che veramente ha patito e fu immolato sulla croce per l’uomo”. È solo grazie a questa identità infatti e all’unione ipostatica in Cristo tra umanità e divinità, che noi possiamo stare in adorazione davanti all’ostia consacrata, senza peccare di idolatria. Già S. Agostino diceva: “In questa carne (il Signore) ha qui camminato e questa stessa carne ci ha dato da mangiare per la salvezza; e nessuno mangia quella carne senza averla prima adorata... Noi non pecchiamo adorandola, ma anzi pecchiamo se non la adoriamo” [6] .

Ma in che consiste propriamente e come si manifesta l'adorazione? L'adorazione può essere preparata da lunga riflessione, ma termina con una intuizione e, come ogni intuizione, essa non dura a lungo. E' come un lampo di luce nella notte. Ma di una luce speciale: non tanto la luce della verità, quanto la luce della realtà. E' la percezione della grandezza, maestà, bellezza, e insieme della bontà di Dio e della sua presenza che toglie il respiro. E' una specie di naufragio nell'oceano senza rive e senza fondo della maestà di Dio.

Un'espressione di adorazione, più efficace di qualsiasi parola, è il silenzio. Adorare, secondo la stupenda espressione di san Gregorio Nazianzeno, significa elevare a Dio un "inno di silenzio". C’è stato un tempo quando, per entrare in un clima di adorazione davanti al Santissimo, mi bastava ripetere le prime parole di un inno del mistico tedesco del Seicento Gerhard Tersteegen, cantato ancor oggi nelle chiese protestanti e cattoliche della Germania:

"Dio è qui presente; venite adoriamo!
Con santa riverenza, entriamo in sua presenza.
Dio è qui nel mezzo: tutto taccia in noi
E l'intimo del petto si prostri al suo cospetto” [7].
Forse perché le parole di una lingua straniera sono meno consunte dall’uso e banalizzate, sta di fatto che quelle semplicissime parole “Gott ist gegenw@rtig, Dio è presente, Dio è qui!” avevano il potere di rendere la presenza di Dio quasi palpabile, mi trasmettevano ogni volta “il sentimento della divina presenza”.

Il concetto di adorazione è rafforzato, nel nostro inno, da quello di devozione: adoro te devote. Il medioevo ha dato a questo termine un significato nuovo rispetto all’antichità pagana e anche cristiana. Con esso si indicava all’origine l’attaccamento a una persona, espresso in un fedele servizio e, nell’uso cristiano, ogni forma di servizio divino, soprattutto quello liturgico della recita dei salmi e delle preghiere.

Nei grandi autori spirituali del medio evo la parola si interiorizza; passa a significare non delle pratiche esteriori, ma le disposizioni profonde del cuore. Per S. Bernardo essa indica “il fervore interiore dell’anima accesa dal fuoco della carità” [8] . Con S. Bonaventura e la sua scuola la persona di Cristo diventa l’oggetto centrale della devozione, intesa come il sentimento di commossa gratitudine e amore suscitato dal ricordo dei suoi benefici. Il Dottore angelico dedica due interi articoli della Somma alla devozione, che considera il primo e più importante atto della virtù di religione [9] . Per lui essa consiste nella prontezza e disponibilità della volontà a offrire se stessa a Dio e si esprime in un servizio senza riserve e pieno di fervore.

Questo ricco e profondo contenuto è andato purtroppo in gran parte perduto in seguito, quando al concetto di “devozione” si è affiancato quello di “devozioni”, cioè di pratiche esteriori e particolari, dirette non solo a Dio, ma più spesso a santi o a particolari luoghi, titoli e immagini. “Fare le proprie devozioni”, sta per recitare le preghiere d’uso. Si è tornati in pratica al vecchio significato del termine.

Nel nostro inno l’avverbio devote conserva intatta tutta la forza teologica e spirituale che l’autore stesso (se esso è Tommaso d’Aquino) aveva contribuito a dare al termine. La migliore spiegazione di che cosa si intende qui per devotio è nelle parole che seguono, nella seconda parte della strofa: Tibi se cor meum totum subiicit: a te il cuore mio tutto si abbandona”. Disponibilità totale e amorosa a fare la volontà di Dio.

3. La contemplazione eucaristica

Resta da raccogliere la fiammata più alta che è quella che si leva dai due ultimi versi della strofa: Quia te contemplans totum deficit: Contemplando te tutto vien meno. La caratteristica di certi venerandi inni liturgici latini, come l’Adoro te devote, il Veni creator e altri, è la straordinaria concentrazione di significato che si realizza in ogni singola parola. Ogni parola è in essi “pregnante”.

Per comprendere appieno il senso di questa frase, come di tutto l’inno, è necessario tener conto dell’ambiente e del contesto da cui nasce. Siamo, dicevo, al di qua della grande svolta nella teologia eucaristica occasionata dalla reazione alle teorie di Berengario di Tours. Il problema su cui si concentra quasi esclusivamente la riflessione cristiana è quello della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che a tratti sconfina nell’affermazione di una presenza fisica e quasi materiale [10] . Dal Belgio è partita la grande ondata di fervore eucaristico che contagerà in breve l’intera cristianità e, nel 1264, porterà all’istituzione della festa del Corpus Domini da parte del papa Urbano IV.

Si accresce il senso di rispetto dell’Eucaristia e, parallelamete, aumenta il senso di indegnità dei fedeli di accostarsi ad essa, a causa anche delle condizioni quasi impraticabili poste per ricevere la comunione (digiuno, penitenze, confessione, astensione dai rapporti coniugali). La comunione da parte del popolo è diventata un fatto tanto raro che il concilio Lateranense IV nel 1215, deve stabilire l’obbligo di comunicarsi almeno a Pasqua. Ma l’Eucaristia continua ad attirare irresistibilmente le anime e così a poco a poco, alla mancanza del contatto manducativo della comunione si rimedia sviluppando il contatto visivo della contemplazione. (Notiamo che in Oriente, per le stesse ragioni, ai laici viene sottratto anche il contatto visivo perché il rito centrale della Messa si svolge dietro una cortina che poi diventerà il muro delle iconostasi).

L’elevazione dell’ostia e del calice al momento della consacrazione, ignota fino allora (la prima testimonianza scritta della sua istituzione è del 1196), diventa per i laici il momento più importante della Messa, in cui sfogano i loro sentimenti di devozione e sperano di ricevere grazie. Si suonano in quel momento le campane per avvertire gli assenti e alcuni corrono da una Messa all’altra per assistere a diverse elevazioni. Molti inni eucaristici, tra cui l’Ave verum, nascono per accompagnare questo momento; sono inni per l’elevazione. Ad essi appartiene anche il nostro Adoro te devote. Dall’inizio alla fine il suo linguaggio è quello del vedere, contemplare: te contemplans, non intueor, nunc aspicio, visu sim beatus.

Noi non abbiamo più la stessa concezione dell’Eucaristia; da tempo la comunione è divenuta parte integrante della partecipazione alla Messa; le conquiste della teologia (movimento biblico, liturgico, ecumenico) confluite nel concilio Vaticano II e nella riforma liturgica hanno rimesso in valore, accanto alla fede nella presenza reale, altri aspetti dell’Eucaristia, il banchetto, il sacrificio, il memoriale, la dimensione comunitaria ed ecclesiale…

Si potrebbe pensare che in questo nuovo clima non ci sia più posto per l’Adoro te devote e le pratiche eucaristiche nate quel periodo. Invece è proprio adesso che essi ci sono più utili e necessari per non perdere, a causa delle conquiste di oggi, quelle di ieri. Non possiamo ridurre l’Eucaristia alla sola contemplazione della presenza reale nell’Ostia consacrata, ma sarebbe anche una grave perdita rinunciare ad essa. Il papa non fa che raccomandarla fin dalla sua prima lettera Il mistero e il culto della SS. Eucaristia, del giovedì santo 1980: “L’adorazione di Cristo in questo sacramento d’amore deve trovare la sua espressione in diverse forme di devozione eucaristica: preghiera personale davanti al Santissimo, ore di adorazione, esposizioni brevi, prolungate, annuali... Gesù ci aspetta in questo sacramento dell’amore. Non risparmiamo il nostro tempo per andare a incontrarlo nell’adorazione e nella contemplazione piena di fede”.

I nostri fratelli ortodossi non condividono questo aspetto della pietà cattolica; qualcuno di loro fa amabilmente notare che il pane è fatto per essere mangiato, non per essere guardato. Altri, anche tra i cattolici, fanno presente che la pratica si è sviluppata in un tempo di grave offuscamento della vita liturgica e sacramentaria.

A favore però della bontà della contemplazione eucaristica non stanno particolari spiegazioni teologiche e teoriche, ma sta l’imponente testimonianza dei fatti, letteralmente “una nube di testimoni”. Una abbastanza recente è quella di Charles de Foucauld che ha fatto dell’adorazione dell’Eucaristia uno dei punti forza della sua spiritualità e di quella dei suoi seguaci. Innumerevoli anime hanno raggiunto la santità praticandola. L’Eucaristia, dentro e fuori della Messa, è stata per la Chiesa cattolica quello che nella famiglia era fino a poco fa il focolare domestico durante l’inverno: il luogo intorno a cui la famiglia ritrovava la propria unità e intimità, ciò che dava un calore umano a tutta la casa.

Questo non vuol dire che non vi siano anche ragioni teologiche alla base della contemplazione eucaristica. La prima è quella che scaturisce dalla parola di Cristo: “Fate questo in memoria di me”. Nell’idea di memoriale c’è un aspetto oggettivo e sacramentale che consiste nel ripetere il rito compiuto da Cristo che ricorda e rende presente il suo sacrificio. Ma c’è anche un aspetto soggettivo ed esistenziale che consiste nel coltivare il ricordo di Cristo, “nell’avere costantemente nella memoria pensieri che riguardano Cristo e il suo amore” [11] . Forse nell’espressione “unde et memores” “memori perciò…” del Canone Romano sono presenti entrambi questi due elementi.

Questa “dolce memoria di Gesú” (Jesu dulcis memoria) non è limitata al tempo che uno passa davanti al tabernacolo; la si può coltivare con altri mezzi, come la contemplazione delle icone; ma è certo che l’adorazione davanti al Santissimo è un mezzo privilegiato per farlo.

I due aspetti del memoriale - celebrazione e contemplazione dell’Eucaristia -, non si escludono a vicenda, ma si integrano. La contemplazione infatti è il mezzo con cui noi “riceviamo”, in senso forte, i misteri, con cui li interiorizziamo e ci apriamo alla loro azione; è il corrispettivo dei misteri sul piano esistenziale e soggettivo; è un modo per permettere alla grazia, ricevuta nei sacramenti, di plasmare il nostro universo interiore, cioè i pensieri, gli affetti, la volontà, la memoria.

C’è una grande affinità tra Eucaristia e Incarnazione. Nell’Incarnazione – dice sant’Agostino – “Maria concepì il Verbo prima con la mente che con il corpo” (Prius concepit mente quam corpore). Anzi, aggiunge, a nulla le sarebbe valso portare Cristo nel suo grembo, se non lo avesse portato con amore anche nel suo cuore [12] . Anche il cristiano deve accogliere Cristo nella sua mente, prima di accoglierlo e dopo averlo accolto nel suo corpo. E accogliere Cristo nella mente significa, concretamente, pensare lui, avere lo sguardo rivolto su di lui, fare memoria di lui, contemplando il segno che egli stesso ha scelto per rimanere tra noi.

4. Oblio di tutto

Te contemplans, contemplando te, dice il nostro inno. Cosa racchiude quel pronome “te”? Certamente il Cristo realmente presente nell’ostia, ma non una presenza statica e inerte; indica tutto il mistero di Cristo, la persona e l’opera; è un riascoltare silenziosamente il vangelo o una sua frase in presenza dell’autore stesso del vangelo che da alla parola una forza e immediatezza particolari.

Ma questo non è ancora il vertice della contemplazione. I grandi maestri di spirito hanno definito la contemplazione: “Uno sguardo libero, penetrante e immobile” (Ugo di San Vittore), oppure: “Uno sguardo affettivo su Dio” (san Bonaventura). Fare contemplazione eucaristica significa dunque, concretamente, stabilire un contatto da cuore a cuore con Gesù presente realmente nell’Ostia e, attraverso lui, elevarsi al Padre nello Spirito Santo. Nella meditazione prevale la ricerca della verità, nella contemplazione, invece, il godimento della Verità trovata. La contemplazione tende sempre alla persona, al tutto e non alle parti. Contemplazione eucaristica è guardare uno che mi guarda.

Questo stadio di contemplazione è quello descritto dall’autore dell’Adoro te devote quando afferma: te contemplans totum deficit, contemplando te tutto vien meno. Queste sono parole nate certamente dall’esperienza. “Tutto vien meno”, cioè che cosa? Non solo il mondo esterno, le persone, le cose, ma anche il mondo interno dei pensieri, delle immagini, delle preoccupazioni. “Oblio di tutto fuorché di Dio”, scriveva Pascal descrivendo un’esperienza simile a questa. E Francesco d’Assisi ammoniva i suoi frati: “Gran miseria sarebbe, e miserevole male se, avendo Lui così presente, vi curaste di qualunque altra cosa che fosse nell’universo intero!” [13] . Totum deficit: tutto deve scomparire

Intorno alla stessa data in cui veniva composto il nostro inno, cioè alla fine del secolo XIII, Ruggero Bacone, un altro grande innamorato dell’Eucaristia, scriveva queste parole che sembrano un commento alla prima strofa dell’Adoro te devote e una conferma dell’esperienza che da essa traspare: “Se la maestà divina si fosse manifestata sensibilmente, non avremmo potuto sostenerla e saremmo venuti meno (deficeremus!) del tutto per la riverenza, la devozione e lo stupore…L’esperienza lo dimostra. Quelli che si esercitano nella fede e nell’amore di questo sacramento non riescono a sopportare la devozione che nasce da una pura fede, senza sciogliersi in lacrime e senza che la loro anima, uscendo da se stessa, si liquefaccia per la dolcezza della devozione, al punto di non sapere più dove si trova e perché” [14] . Totum deficit!

La contemplazione eucaristica è tutt’altro che sterile e inoperosa. È stato notato come l’uomo rifletta in sé, a volte anche fisicamente, ciò che contempla. Non si sta a lungo esposti al sole senza portarne le tracce sul viso. Stando a lungo e con fede, non necessariamente con fervore sensibile, davanti al Santissimo noi assimiliamo i pensieri e i sentimenti di Cristo, per via non discorsiva ma intuitiva; quasi “ex opere operato”.

Avviene come nel processo di fotosintesi delle piante. In primavera spuntano dai rami le foglie verdi; queste assorbono dall’atmosfera certi elementi che, sotto l’azione della luce solare, vengono “fissati” e trasformati in nutrimento della pianta. Noi dobbiamo essere come quelle foglie verdi! Esse sono un simbolo delle anime eucaristiche le quali, contemplando il “sole di giustizia” che è Cristo, “fissano” il nutrimento che è lo Spirito Santo stesso, a beneficio di tutto il grande albero che è la Chiesa. In altre parole, è ciò che dice anche l’apostolo Paolo: “Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3, 18). L’anima che sta in contemplazione dell’Ostia consacrata potrebbe fare proprio la poesia di G. Ungaretti consistente in un solo verso: “Mi illumino d’immenso”.

Se ora però, da questi squarci di luce che l’autore dell’inno ci ha fatto intravedere ritorniamo con il pensiero alla nostra realtà e al nostro povero modo di stare davanti all’Eucaristia, rischiamo di sentirci avviliti e scoraggiati. Sarebbe del tutto sbagliato. È già un incoraggiamento e una consolazione sapere che queste esperienze sono possibili; che quello che noi stessi abbiamo forse sperimentato nei momenti di maggior fervore della nostra vita e poi smarrito, può riaccendersi, grazie anche all’anno eucaristico che ci è dato di vivere.

L’unica cosa che lo Spirito Santo richiede da noi è solo di dargli il nostro tempo, anche se all’inizio esso dovesse sembrare tempo perso. Io non dimenticherò mai la lezione che un giorno mi fu data a questo riguardo. Dicevo a Dio: “Signore, dammi il fervore e io ti darò tutto il tempo che vuoi per la preghiera”. Nel mio cuore trovai la risposta: “Raniero, dammi il tuo tempo e io ti darò tutto il fervore che vuoi nella preghiera”.

Termino con le parole del papa ricordate sopra: “Gesù ci aspetta in questo sacramento dell’amore. Non risparmiamo il nostro tempo per andare a incontrarlo nell’adorazione e nella contemplazione piena di fede”.




[1] Enc. Ecclesia de Eucharistia, 6.

[2] L’espressione “latens veritas” ricorre in Isidoro di siviglia, Sent. III, col. 688, l. 22, ma non è riferita a Cristo. In favore di “latens Deitas” sta il parallelismo con “latens humanitas” della terza strofa e anche la possibile allusione a Is 45,15: “vere tu es Deus absconditus”.

[3] Cfr. de Lubac, op. cit., p. 287.

[4] Cf. H. de Lubac, Corpus mysticum. L’Eucaristia e la Chiesa nel Medioevo, Milano 1982.

[5] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Commento al vangelo di Giovanni, VI, lez. 6, n. 954: “La manna prefigurava soltanto, mentre questo pane contiene quello che raffigura” (continet quod figurat).

[6] S. Agostino, In Ps. 98,9 (PL 37, 1264).

[7] G. Tersteegen, Geistliches Blumengärtlein 11, Stuttgart 1969, p.340 s.:

„Gott ist gegenwärtig; laßet uns anbeten,
Und in Ehrfurcht vor ihn treten!
Gott ist in der Mitte; alles in uns schweige
Und sich innigst vor ihm beuge!“

[8] Cfr. J. Charillon, art. Devotio, in Dict. Spir. 3, col. 715.

[9] S. Tommaso, S. Th. II, IIae, q.82 a.1-2, cf. J.W. Curran, art. Dévotion, Fondement théologique, in Dict. Spir. III, coll. 716 ss.

[10] La prima formula di fede fatta sottoscrivere a Berengario sosteneva che, nella comunione, il corpo e il sangue di Cristo fossero presenti sull’altare “sensibilmente e venissero in verità toccati, e spezzati dalle mani del sacerdote e masticati dai denti dei fedeli”: Denzinger - Sch`nmetzer, Enchiridion symbolorum, 690. S.Tommaso d’Aquino corregge questa affermazione, dicendo che il corpo di Cristo “non viene spezzato, né infranto, né diviso da colui che lo riceve”: cfr. S. Th. III, q. LXXVII, a.7.

[11] N. Cabasilas, Vita in Cristo, VI,4 (PG 150,653).

[12] Cf Agostino, Sulla santa verginità, 3 (PL 40, 398).

[13] S. Francesco, Lettera a tutti i frati, 2 (FF 220).

[14] Ruggero Bacone, De sacramento altaris, in Moralis philosophia, ed. E. Massa, Zurigo 1953, pp. 231 s.

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