Giuda Iscariota. Ratzinger - Benedetto XVI, Tradizione, i Padri, esegesi

Già il semplice nome di Giuda suscita tra i cristiani un’istintiva reazione di riprovazione e di condanna. Il significato dell’appellativo “Iscariota” è controverso: la spiegazione più seguita lo intende come “uomo di Keriot” con riferimento al suo villaggio di origine, situato nei pressi di Hebron e menzionato due volte nella Sacra Scrittura (cfr Gs 15,25; Am 2,2). Altri lo interpretano come variazione del termine “sicario”, come se alludesse ad un guerrigliero armato di pugnale detto in latino sica.

Vi è, infine, chi vede nel soprannome la semplice trascrizione di una radice ebraico-aramaica significante: “colui che stava per consegnarlo”. Questa designazione si trova due volte nel IV Vangelo, cioè dopo una confessione di fede di Pietro (cfr Gv 6,71) e poi nel corso dell’unzione di Betania (cfr Gv 12,4). Altri passi mostrano che il tradimento era in corso, dicendo: “colui che lo tradiva”; così durante l’Ultima Cena, dopo l’annuncio del tradimento (cfr Mt 26,25) e poi al momento dell’arresto di Gesù (cfr Mt 26,46.48; Gv 18,2.5). Invece le liste dei Dodici ricordano il fatto del tradimento come ormai attuato: “Giuda Iscariota, colui che lo tradì”, così dice Marco (3,19); Matteo (10,4) e Luca (6,16) hanno formule equivalenti. Il tradimento in quanto tale è avvenuto in due momenti: innanzitutto nella progettazione, quando Giuda s’accorda con i nemici di Gesù per trenta monete d'argento (cfr Mt 26,14-16), e poi nell’esecuzione con il bacio dato al Maestro nel Getsemani (cfr Mt 26,46-50). In ogni caso, gli evangelisti insistono sulla qualità di apostolo, che a Giuda competeva a tutti gli effetti: egli è ripetutamente detto “uno dei Dodici” (Mt 26,14.47; Mc 14,10.20; Gv 6,71) o “del numero dei Dodici” (Lc 22,3). Anzi, per due volte Gesù, rivolgendosi agli Apostoli e parlando proprio di lui, lo indica come “uno di voi” (Mt 26,21; Mc 14,18; Gv 6,70; 13,21). E Pietro dirà di Giuda che “era del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero” (At 1,17).
Si tratta dunque di una figura appartenente al gruppo di coloro che Gesù si era scelti come stretti compagni e collaboratori. Ciò suscita due domande nel tentativo di dare una spiegazione ai fatti accaduti. La prima consiste nel chiederci come mai Gesù abbia scelto quest’uomo e gli abbia dato fiducia. Oltre tutto, infatti, benché Giuda fosse di fatto l’economo del gruppo (cfr Gv 12,6b; 13,29a), in realtà è qualificato anche come “ladro” (Gv 12,6a). Il mistero della scelta rimane, tanto più che Gesù pronuncia un giudizio molto severo su di lui: “Guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito!” (Mt 26,24). Ancora di più si infittisce il mistero circa la sua sorte eterna, sapendo che Giuda “si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente»” (Mt 27,3-4). Benché egli si sia poi allontanato per andare a impiccarsi (cfr Mt 27,5), non spetta a noi misurare il suo gesto, sostituendoci a Dio infinitamente misericordioso e giusto.

Una seconda domanda riguarda il motivo del comportamento di Giuda: perché egli tradì Gesù? La questione è oggetto di varie ipotesi. Alcuni ricorrono al fattore della sua cupidigia di danaro; altri sostengono una spiegazione di ordine messianico: Giuda sarebbe stato deluso nel vedere che Gesù non inseriva nel suo programma la liberazione politico-militare del proprio Paese. In realtà, i testi evangelici insistono su un altro aspetto: Giovanni dice espressamente che “il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo” (Gv 13,2); analogamente scrive Luca: “Allora satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici” (Lc 22,3). In questo modo, si va oltre le motivazioni storiche e si spiega la vicenda in base alla responsabilità personale di Giuda, il quale cedette miseramente ad una tentazione del Maligno. Il tradimento di Giuda rimane, in ogni caso, un mistero. Gesù lo ha trattato da amico (cfr Mt 26,50), però, nei suoi inviti a seguirlo sulla via delle beatitudini, non forzava le volontà né le premuniva dalle tentazioni di Satana, rispettando la libertà umana.

In effetti, le possibilità di perversione del cuore umano sono davvero molte. L'unico modo di ovviare ad esse consiste nel non coltivare una visione delle cose soltanto individualistica, autonoma, ma al contrario nel mettersi sempre di nuovo dalla parte di Gesù, assumendo il suo punto di vista. Dobbiamo cercare, giorno per giorno, di fare piena comunione con Lui. Ricordiamoci che anche Pietro voleva opporsi a lui e a ciò che lo aspettava a Gerusalemme, ma ne ricevette un rimprovero fortissimo: “Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,32-33)! Pietro, dopo la sua caduta, si è pentito ed ha trovato perdono e grazia. Anche Giuda si è pentito, ma il suo pentimento è degenerato in disperazione e così è divenuto autodistruzione. E’ per noi un invito a tener sempre presente quanto dice san Benedetto alla fine del fondamentale capitolo V della sua “Regola”: “Non disperare mai della misericordia divina”. In realtà Dio “è più grande del nostro cuore”, come dice san Giovanni (1 Gv 3,20). Teniamo quindi presenti due cose. La prima: Gesù rispetta la nostra libertà. La seconda: Gesù aspetta la nostra disponibilità al pentimento ed alla conversione; è ricco di misericordia e di perdono. Del resto, quando, pensiamo al ruolo negativo svolto da Giuda dobbiamo inserirlo nella superiore conduzione degli eventi da parte di Dio. Il suo tradimento ha condotto alla morte di Gesù, il quale trasformò questo tremendo supplizio in spazio di amore salvifico e in consegna di sé al Padre (cfr Gal 2,20; Ef 5,2.25). Il Verbo “tradire” è la versione di una parola greca che significa “consegnare”. Talvolta il suo soggetto è addirittura Dio in persona: è stato lui che per amore “consegnò” Gesù per tutti noi (cfr Rm 8,32). Nel suo misterioso progetto salvifico, Dio assume il gesto inescusabile di Giuda come occasione del dono totale del Figlio per la redenzione del mondo.

UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro Mercoledì, 18 ottobre 2006


I due Giuda. Il traditore e l’amico

Paola Ronconi
Giuda Iscariota, l’oscurità della disperazione

Dall’ebraico Judah, che significa “il prediletto”. Scelto da Cristo tra i primi. La convivenza e la delusione dell’incredulità. I trenta denari e il grido di Gesù in croce per l’amico che si era perduto
Ultimo nelle liste degli apostoli; il suo nome è sempre accompagnato dalla connotazione di “traditore”; tra i suoi compagni l’unico a non essere galileo (il suo appellativo “Iscariota” indica quasi sicuramente che è originario di Kerioth o Carioth, una città della Giudea). Nessuno ci dice quando e come Gesù lo scelse tra i suoi. All’interno dei Dodici, quando iniziarono ad andare in giro insieme, a vivere insieme, il compito di Giuda era quello di tenere la “cassa”, era l’“amministratore” (Gv 12, 4-6). Il gruppetto dei seguaci abituali di Gesù faceva vita comune, e ognuno versava un contributo in una cassetta. Ma proprio per questo Giuda aveva la possibilità di sottrarre ogni tanto piccole somme di denaro. Era un ladro, insomma. E gli evangelisti non stentano a sottolinearlo. Figuriamoci la sua stizza a Betania, a casa di Lazzaro, quando la sorella Maria unge i piedi di Gesù con olio preziosissimo. «Perché quest’olio profumato non si è venduto per 300 denari per poi darli ai poveri?» (Mc 14, 4-5). E l’evangelista Giovanni subito spiega: «Questo egli disse non perché gl’importava dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (Gv 12, 5). Betania era sulla strada che da Gerico portava a Gerusalemme. Gesù e i suoi si stavano dirigendo proprio alla città santa per celebrare la Pasqua ebraica. Il Sinedrio aveva già deciso di uccidere Gesù; stavano solo cercando un modo per catturarlo senza troppo scalpore. Giunsero a Gerusalemme il giorno dopo il sabato. I sommi sacerdoti volevano risolvere la faccenda prima della Pasqua, per evitare sommosse tra i giudei. A Gerusalemme, infatti, stavano arrivando folle di pellegrini e i soldati romani erano già in preallarme. Che sorpresa, dunque, per loro quando, il mercoledì precedente la Pasqua, si presentò al Sinedrio uno di quelli che seguivano Gesù: «“Che cosa mi volete dare perché io ve lo consegni?”. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento» (Mt 26,14-16). Luca ci dice che in quel momento «Satana entrò in Giuda» (Lc 22,3).

Prezzo da schiavi

Comunemente si parla di trenta denari, ma in realtà furono molti di più: trenta sicli o trenta stateri d’argento (corrispondenti a 120 denari romani), cioè il prezzo fissato dalla legge per la vita di uno schiavo. Un interessante libro di William Klassen, dell’École Biblique di Gerusalemme, riporta come la figura del delatore, del “collaboratore di giustizia”, nella cultura ebraica fosse pienamente inserito all’interno del tessuto sociale: coloro che facevano da informatori a vantaggio delle autorità ebree erano considerati come essenziali alla salute della comunità. Avarizia e cupidigia, amore per l’oro. Ma forse anche delusione per aver intuito da quei discorsi un po’ strani di Gesù che lui non era venuto a portare né gloria né potenza mondana, ma l’anticipo di un altro Regno, quello dei cieli. A Giuda, cui interessavano le cose pratiche, interessava essere ricco; perciò gli conveniva trovarsi alleati da un’altra parte e, in questo modo, farsi anche un bel gruzzolo. Il giorno successivo, il giovedì, il rito ebraico prevedeva la cena degli azzimi. Gesù era consapevole che quelli erano gli ultimi momenti che avrebbe trascorso coi suoi amici, ma soprattutto sapeva già chi lo avrebbe tradito. «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà», disse, dopo aver lavato loro i piedi, secondo la tradizione. E dopo poco: «Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell’Uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’Uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!» (Mt 26, 21-24). La risposta affermativa di Gesù («Tu l’hai detto») a quella domanda così violenta: «Rabbi, sono forse io?», passò inosservata dagli altri, distratti. Nessuno degli apostoli probabilmente capì il dramma tra quei due. Se qualcuno dei presenti avesse anche solo intuito, avrebbe tentato di impedire ogni mossa a Giuda.

Solo lui capì

Giuseppe Ricciotti, in Vita di Gesù Cristo, spiega come molto probabilmente erano disposti a tavola: supposto che questa fosse a forma di semicerchio e loro fossero sdraiati su divani bassi, Gesù era al centro, alla sua sinistra c’era Pietro, alla sua destra Giovanni e, dopo Giovanni, Giuda. Se Giovanni era appoggiato al petto di Gesù, come ci dicono i Vangeli, il Maestro sarà stato rivolto verso Giuda e gli sarà stato facile intingere con lui il pane e parlare in modo che solo lui potesse sentire. «Con quell’infelice - dice Ricciotti - bisognava ancora fare un tentativo, offrirgli un ultimo salvataggio». Cosa avrà mai provato Giuda a tutte quelle allusioni di Gesù? Si sarà sentito scoperto, braccato. O si sarà tranquillizzato: i suoi compagni non sospettavano nulla. E poi se Gesù era davvero così potente, nessuno avrebbe potuto fargli del male, nemmeno il Sinedrio, nemmeno i romani. Terminata la cena, Giuda sparisce: era il momento propizio per avvisare i soldati. «Ed era notte» (Gv 13,30). Un appunto non solo temporale, ma che descrive in tre parole l’abisso entro il quale l’animo di Giuda stava lentamente affondando. La scena si sposta sul Monte degli Ulivi, nella zona detta Getsemani (torchio dell’olio), probabilmente di proprietà della famiglia di Marco, come la casa in cui avevano appena cenato.

Un segno da amico

Ma ecco arrivare i soldati insieme a Giuda che mette in pratica quel segno convenzionale per individuare Gesù: «Quello che bacerò è lui, arrestatelo» (Mt 26, 48). Il bacio sul viso era un segno di amicizia, diversamente da quello sulle mani che indicava rispetto di un discepolo per il suo maestro. Ma perché Gesù, sapendo quanto sarebbe accaduto, non era scappato, non reagiva? Mentre dice soltanto: «Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’Uomo?». Tutto, ormai, era inevitabile perché Giuda era un tassello indispensabile perché si compisse la salvezza del mondo: «Quand’ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura» (Gv 17, 12). Don Giussani nel Volantone di Pasqua del 1999 descrive quello che Gesù intendeva con la parola “amico”: «Ha detto a Giuda: “Abbiamo lo stesso destino, abbiamo una stessa via, sei parte di me e io parte di te; la tua felicità è la mia, la mia felicità è la tua. Tu sei me”. Questo vuol dire “amico”. Dicendo a Giuda: “Amico”, Cristo lo disse a ciascun uomo». Gesù venne portato davanti al Sinedrio e già il giorno dopo fu nota la sentenza di condanna a morte. Forse prima di ogni altro ne fu informato Giuda: gli era facile avere notizie al riguardo. Fu allora che la disperazione per il gesto compiuto cominciò a emergere nel suo animo. Gesù non era così invulnerabile. L’avrebbero davvero ucciso.

Il campo del Vasaio

«Vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani, dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente” «(Mt 27,3-4), ma i sommi sacerdoti non avevano nessuna intenzione di riprenderli. Li gettò furentemente sul pavimento del tempio. Poi «si allontanò ed andò ad impiccarsi» (Mt 27,5). I sinedristi, considerando peccaminosi quei soldi, li usarono quindi per comprare il campo dove Giuda si impiccò. La tradizione vuole che fosse un appezzamento (detto “del vasaio”) situato nella Geenna, appena fuori dalle mura di Gerusalemme verso sud, e considerato fin dai tempi antichi, luogo maledetto. Da allora si chiamò “campo di sangue” e venne utilizzato come cimitero per i pellegrini. L’amore per l’oro, per la ricchezza non esistevano più. E l’amore per quell’uomo da cui si era sentito davvero amato, e il peso della colpa, invece, non ebbero più confini. Si è sempre disposti ad accettare un amore così totalizzante e incondizionato o piuttosto ci si ribella? Anche Pietro, infatti, lo aveva tradito. Anche lui come Giuda si era pentito. Ma «se l’uomo riconosce la misericordia, si accetta e si affida per essere cambiato ad un Altro, all’Altro misericordioso» (Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano). A Giuda mancò questo: la fiducia nel perdono e in quella misericordia. Ne Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, Péguy dice: «Essendo il Figlio di Dio, Gesù sapeva tutto,/ E il Salvatore sapeva che Giuda, l’amato,/ Non lo salvava, dandosi interamente./ Ed è allora che seppe la sofferenza infinita./ È allora che conobbe, è allora che Egli apprese,/ È allora che sentì l’infinita agonia,/ E gridò come un folle la spaventosa angoscia,/ Clamore che fece vacillare Maria ancora in piedi,/ E per pietà del Padre ebbe la sua morte umana». Ma Cristo, ribatte don Giussani, «la misericordia dell’Infinito, offrì la sua vita per ogni uomo, anche per Giuda». È significativo che il nome greco “Giuda” deriva dall’ebraico Judah, che significa “prediletto”. D’altronde, cosa c’è di più disperante del non accettare di essere perdonati, e quindi amati, dalla persona più cara?

Tracce, giugno 2000


Giuda quante speculazioni sul Traditore. Gianfranco Ravasi

Figlio di Simone, detto Iscariota – forse «di Kariot», villaggio palestinese meridionale, o deformazione da «sicarius», nome dei ribelli al potere romano, o «ish-karja», «uomo della falsità», per soprannome posteriore, o forse anche «tintore» – era entrato in scena nei Vangeli già a Cafarnao, dopo il discorso di Gesù sul «pane di vita», quando il Signore aveva esclamato: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». E Giovanni annotava: «Parlava di Giuda» Il contenuto dell’apocrifo intitolato al discepolo dei 30 denari, già noto per la testimonianza di Ireneo, non ha alcun valore per la ricostruzione storica delle ultime ore di Gesù e non inficia i dati evangelici, al contrario di quanto sostenuto da chiacchiere giornalistiche. L’opera nasce dalle elucubrazioni di un ambito piuttosto creativo del cristianesimo gnostico egizio, sofisticato quanto eterodosso

Si avvicina di più alla realtà «Il Maestro» di Max Brod (1952) che, al di là del suo Giuda nichilista, centra tutto sulla forza salvifica della donazione di sé compiuta da Cristo. L’apostolo rimane responsabile del suo atto: la libertà umana non è cancellata e non cade la responsabilità personale della spia.
Ma questo atto è inserito da Dio in un progetto più ampio paradossalmente positivo


Di Gianfranco Ravasi


Come accade in medicina, potremmo parlare anche per il mondo editoriale dell’esistenza, in questi mesi, di una sindrome che attanaglia le redazioni, gli uffici stampa o quelli delle pubbliche relazioni: è la «sindrome Dan Brown» che spinge a consacrare ogni sforzo perché si ripeta quello stesso miracolo mediatico, che tra l’altro vede la religione (con buona pace di coloro che la ritengono il reperto inerte di un paleolitico culturale) come il lievito e la spezia fondamentale del successo. Dopo la Maddalena browniana, ora è la volta di Giuda Iscariota, il discepolo traditore. Si è cominciato con l’ormai popolare (anche se ignoto ai più nel testo originario) Vangelo apocrifo di Giuda e si continua ora, da un lato, con saggi che ripropongono quel testo antico in modo corretto come quelli di Enrico Giannetto (Medusa) o di Erich Noffke (Claudiana) o di Tom Wright (Queriniana) e d’altro lato, con parti di fantasia miscelati a materiali storico-critici, rispolverando anche romanzi ormai dimenticati ma dal titolo inequivocabile come il Vangelo secondo Giuda del polacco Henryk Panas (1912-1985), storia di un ricco e colto affarista che segue Gesù inizialmente perché innamorato della Maddalena (ci risiamo…) e che poi vive una storia più grande di lui, quella appunto del tradimento, che affiderà a un vangelo apocrifo (lo hanno appena riproposto le edizioni e/o).
Ma l’attenzione maggiore, nella linea del sogno di un nuovo Codice, è ora protesa sul Vangelo secondo Giuda di Beniamino Iscariota (Mondadori), opera di fiction elaborata da un curioso personaggio inglese, Jeffrey Archer, un lord finito in galera per falsa testimonianza e diventato poi autore di alcuni best-seller, con ammiccamenti teologici. Ho avuto occasione anch’io un paio d’anni fa di sentirlo, inviato a me dal cardinal Martini a cui egli si era rivolto proprio per la consulenza esegetica a questo romanzo. Io allora lo dirottai su qualche neotestamentarista delle università pontificie romane e fu così che egli incrociò il noto esegeta salesiano Francis Moloney che ora può godere di luce riflessa per questa sua assistenza, per altro accompagnata da quella di altri teologi anglicani. La presentazione dell’opera prevista martedì 20 marzo a Roma presso la Sala della stampa estera non deve far pensare che siamo in presenza di un saggio che proponga una nuova interpretazione della figura di Giuda.
Non è certo nuova l’idea che quel discepolo abbia tradito non per denaro bensì per una delusione politica nei confronti di Gesù poco incline a cavalcare le istanze antiromane dell’Israele oppresso di allora. Un po’ meno scontata ma altrettanto esplorata è l’ipotesi che Giuda non si sia ucciso e che il racconto di quella fine tragica sia stata modellata su altri morti drammatiche come l’impiccagione di Achitofel, il consigliere traditore del re Davide (2 Samuele 17, 23). Sta di fatto, però, che ci troviamo di fronte a una sorta di romanzo storico che – attraverso la consulenza di Moloney – riesce solo ad assicurare affidabilità alle coordinate storico-culturali d’insieme e al relativo fondale. Noi ora ci accontentiamo di proporre ai nostri lettori due note di indole più generale riguardanti la figura dell’apostolo traditore.

La prima ovviamente vuole fare il punto sul vangelo apocrifo di Giuda, di cui si è tanto parlato (e favoleggiato) nei mesi scorsi. Si tratta di un codice papiraceo scritto in copto, la lingua tardo-egiziana, databile al IV secolo, traduzione di un testo greco che è da collocare nel II secolo perché, attorno al 180, il vescovo di Lione, sant’Ireneo, nella sua opera Contro le eresie dimostra di conoscerne e criticarne il contenuto. Scoperto in Egitto attorno agli anni ’70 del secolo scorso, il manoscritto apparve sul mercato antiquario statunitense negli anni ’80 e, dopo 17 anni di oscuramento, venne acquistato da un antiquario, Fieda Nussberger-Tchacos, che riuscì a piazzarlo, ad alto costo, alla svizzera Maecenas Foundation for Ancient Art. Quest’ultima, anch e per rifarsi dell’esborso, si accordò con l’americana National Geographic Society per un restauro, un’edizione critica, una traduzione inglese e un’ampia divulgazione della scoperta con uno straordinario battage pubblicitario, promettendo tra l’altro la restituzione del codice all’Egitto per collocarlo nel Museo Copto del Cairo.
Il contenuto di questo apocrifo – che, come si è detto, era già noto anche attraverso la testimonianza di Ireneo – non ha nessun valore per la ricostruzione storica delle ultime ore di Gesù e quindi non inficia minimamente i dati evangelici, al contrario di quanto sostenuto da molte chiacchiere giornalistiche. L’opera, infatti, nasce dalle speculazioni successive di un ambito piuttosto creativo del cristianesimo gnostico egiziano, un cristianesimo sofisticato, intellettualistico ed eterodosso. Lo stesso Gesù del Vangelo di Giuda è un essere celeste che oscilla tra incarnazioni diverse (ai discepoli si presenta come un bambino) e tra epoche differenti. Anche l’interpretazione della figura di Giuda, a prima vista suggestiva, è in realtà inficiata dalle tesi generali dell’eresia gnostica.
Egli sarebbe l’unico dei discepoli a scoprire la vera identità segreta di Gesù; e il suo tradimento è considerato come un evento provvidenziale ma non nel senso che intenderà la tradizione neotestamentaria e cristiana, e cioè con l’esito della morte e risurrezione di Cristo, sorgente di redenzione. La prospettiva del testo apocrifo è radicalmente diversa: Giuda contribuisce a mandare a morte non il vero Gesù ma solo l’uomo di cui l’essere spirituale Cristo era rivestito, il suo involucro materiale ed esteriore. Gesù, infatti, ha solo apparentemente assunto un corpo carnale per ingannare i «prìncipi di questo mondo» (gli «arconti») che presiedono alla storia e nascondersi tra gli uomini per riuscire a salvare, tra di loro, la sola stirpe eletta imprigionata nell’umanità peccatrice così da riportarla a quel cielo da cui era caduta. Il tradimento di Giuda fa , dunque, parte di quel progetto segreto e quello che è stato crocifisso ed è morto è stato solo un corpo umano insignificante. Tra parentesi ricordiamo che la tesi coranica secondo la quale sulla croce muore un sosia e non Gesù stesso nasce proprio dall’influsso di tesi gnostiche conosciute da Maometto forse attraverso i membri delle carovane cristiane egiziane che percorrevano l’Arabia. È facile, quindi, comprendere che il Vangelo di Giuda è solo l’espressione posteriore di teorie cristiane libere e fin stravaganti.
La seconda considerazione che vogliamo proporre punta, invece, sulla figura evangelica canonica di Giuda e sull’eco letteraria che, come si è visto, lambisce anche i nostri giorni. Giuda, figlio di Simone, detto Iscariota (forse «di Kariot», villaggio palestinese meridionale, o deformazione da sicarius, nome dei ribelli al potere romano, o ish-karja, «uomo della falsità», per un soprannome posteriore, o forse anche «tintore»), era entrato in scena nei vangeli già a Cafarnao, dopo il discorso di Gesù sul «pane di vita», quando Cristo aveva esclamato: «Non ho forse scelto io voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». E Giovanni annotava: «Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui, infatti, stava per tradirlo, lui, uno dei dodici!» (6,70). Era riapparso nella cena di Betania, nell’ultima settimana della vita di Gesù, quando aveva protestato per lo spreco del profumo di nardo versato sui piedi di Cristo da Maria, sorella di Lazzaro, meritandosi dall’evangelista anche il titolo di «ladro» (12,6). Matteo (26,14-16) aveva evocato questo aspetto quando lo raffigurava mentre pattuiva la somma di trenta monete d’argento per consegnare Cristo ai sommi sacerdoti, una notizia che – almeno nella cifra – è però modellata su un passo del profeta Zaccaria ove di scena è un pastore («essi pesarono trenta sicli d’argento come mia paga» 11,12).
Giuda era seduto a mensa con Gesù nell’ultima cena, quando «il diavolo gli aveva già messo in cuore di tradir e» il suo maestro che in quel momento gli offriva il «boccone dell’ospite», un segno di amicizia: «dopo quel boccone Satana entrò in Giuda», annota ancora Giovanni (13,2.27). E Matteo mette sulle labbra di Gesù l’annunzio del tradimento, sempre in quella sera, nel Cenacolo, e Giuda ipocritamente reagisce: «Rabbì, sono forse io? Gli rispose Gesù: Tu l’hai detto!» (26,20-25). Quelle parole, dette quasi in un soffio, fanno calare il sipario sulla vicenda di Giuda come discepolo di Gesù. Egli riapparirà al Getsemani per quel bacio dato a Cristo come un probabile segno di identificazione offerto nell’oscurità a chi doveva arrestare il Nazareno e divenuto l’immagine del tradimento (si pensi alla scena dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova). «Giuda con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?» (Luca 22,48): queste parole amareggiate di Gesù sono sostituite in Matteo da un secco ef’ho parei, «per questo sei qui!», ma accompagnato da un triste etaire, «amico, compagno» (26,50). Sarà solo Matteo, però, a registrare la tragedia di quest’uomo, che poco dopo corre dai suoi mandanti a restituire il prezzo di un tradimento, divenuto già insopportabile (27,3-10).

La fine drammatica ormai incombe. Matteo l’affida a una sola riga: «Giuda, scagliate nel tempio le monete d’argento, si allontanò e andò a impiccarsi» (27,5). Luca, nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, ci offrirà una versione più clamorosa di quella fine, rimandando forse a un passo della Bibbia (Sapienza 4,19) ove si dipinge a tinte forti il destino dei malvagi: «Giuda, precipitando in avanti, si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere» (1,18). Una morte atroce, comunque essa sia accaduta, funge da sigillo a una vita forse segnata dall’illusione e dalla delusione, causate da una falsa immagine di Gesù, sognato come un messia politico e scoperto come un maestro dall’orizzonte troppo alto e remoto. Giuda rimarrà come un simbolo universale di tradimento, anche se sant a Caterina da Genova (XV secolo) affermava di aver ascoltato in visione un Cristo sorridente dirle: «Se tu sapessi quel che io ho fatto per Giuda...!» e don Primo Mazzolari in una sua famosa predica parlava di Giuda come del «prediletto di Gesù e nostro fratello».


Esiste, come si diceva, tutta una letteratura attorno a Giuda, talora pronta a ripercorrerne la vicenda sconcertante (pensiamo al frammento epico L’eterno ebreo di Goethe o alla Fine di Satana di Hugo o al Giuda di Lanza del Vasto, al Sale della terra di Carlo Monterosso, all’Opera del tradimento di Mario Brelich, ai Trenta denari di Ferruccio Ulivi, al Vangelo di Giuda di Roberto Pazzi e così via) ma spesso anche incline a cercarne una difesa o una giustificazione. Persino il cattolicissimo Claudel nella sua Morte di Giuda (1933) riabiliterà una certa paradossale buona fede del traditore; Roger Caillois nel suo Ponzio Pilato (1961) ne farà un santo, votato all’attuazione di un progetto superiore. «La verità è – dichiara Giuda nel Quinto evangelio di Mario Pomilio (1975) – che io non fui il traditore: fui piuttosto la vittima di un curioso piano di salvezza, esteso a tutti gli uomini, che per esplicarsi perfettamente doveva escludere me».
È la tesi radicale anche dell’Ultima tentazione di Gesù del greco Nikos Kazantzakis (1955) che presenta Giuda come il più pio degli apostoli che sceglie il tradimento per rendere possibile la morte sacrificale ed espiatrice di Gesù. Analogo è, per certi versi, quel «vangelo secondo Giuda» che è La gloria, romanzo di Giuseppe Berto (1978). Ma forse si avvicina di più alla realtà il Maestro di Max Brod (1952) che, al di là del suo Giuda nichilista, centra tutto sulla forza salvifica dell’amore e della donazione di sé compiuta da Cristo. Giuda, dunque, rimane responsabile del suo atto: la libertà umana non è cancellata e, quindi, non cade la responsabilità personale del traditore. Ma questo atto è inserito da Dio in un progetto più ampio paradossalmente positivo: i nfatti, è proprio attraverso l’oscurità del tradimento e poi dell’odio, della violenza e della morte che si celebra la fecondità della redenzione e dell’amore di Gesù che si dona per la salvezza dell’umanità.

Avvenire 18 marzo 2007

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