Chi è costui? La Passione nella letteratura


Introduzione

“Il suo volto non è il volto dei pittori. È un volto duro, ebreo. Non lo vedo ma insisterò a cercarlo fino al giorno dei miei ultimi passi sulla terra”.
In questa frase di Borges si condensa perfettamente l’interrogativo sulla persona e la vita di Gesù, una domanda che Gesù, fin dall’inizio del suo pubblico manifestarsi, ha suscitato nei suoi ascoltatori, una domanda che si è drammaticamente amplificata con il passare del tempo: tutti, antichi e moderni, saggi o ignoranti, occidentali o di altre culture, imbattendosi nel “fenomeno Gesù” e nella sua pretesa divina non possono che giungere alla domanda “chi è costui?”
In questa sede, viste le dimensioni e le implicazioni di tale questione, vogliamo proporre solo alcune riflessioni nate in margine alla lettura di alcune contemporanee opere letterarie sulla Passione di Cristo, il momento in cui, più drammaticamente che in altri, emerge la persona di Gesù e la domanda sulla sua misteriosa identità.


La Passione nelle "Vite di Gesù"


"Getsemani" di Charles Péguy

Questa piccola opera, una via di mezzo tra narrazione in prosa e ritmo poetico, ci permette il passaggio alla seconda parte del nostro studio: i personaggi della Passione, o meglio la Passione di Gesù vista e vissuta dai personaggi che i Vangeli menzionano.
Getsemani [1] è uno dei testi più belli di Péguy (1873-1914), eppure è uno dei più sconosciuti; infatti appartiene ad un’opera che rimase inedita alla morte dell’autore, intitolata Dialogo della storia e dell’anima carnale, che vide la luce in libreria solo nel 1955.
Con molta probabilità Getsemani è il frutto di un’esperienza diretta dello scrittore vissuta nella Pasqua del 1910, in un momento di grande travaglio famigliare, affettivo, intellettuale e lavorativo.
Il testo è costruito secondo un climax ascendente che si snoda in quattro tappe. Dopo aver evocato in breve la Passione, egli ritorna su se stesso per fissarsi sull’oggetto proprio della Passione, su ciò che è il significato proprio di quell’Evento.
L’arresto, la comparizione davanti a Caifa e a Pilato, il supplizio, la morte:”Tutto questo non è nulla. È la procedura… Il contenuto stesso della Passione è la morte stessa, la morte comune” e Gesù, Dio fatto uomo, trema davanti alla morte, arretra davanti ad essa e chiede di esserne dispensato. Tutto è pronto, fin dall’eternità, eppure Dio non lo è, esita, chiede che sia allontanato il calice amaro della sofferenza e della morte.
IL secondo momento parte dalla constatazione della fragilità che accomuna Cristo, Dio fatto uomo, e il semplice uomo per giungere all’interpretazione, nuova e inaudita, dell’affermazione: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”; si tratta per Péguy di una «confessione» del Cristo: “Vedete cosa è la nostra carne, e la nostra tentazione. Bisogna vegliare. Bisogna pregare. Non si è mai tranquilli”. In questa comunità di fragilità e sconforto l’autore vede un compimento dell’incarnazione, fino all’estrema debolezza umana.
Nella terza tappa lo scrittore considera come Cristo si sottometta alla volontà del Padre, e in questa accettazione adatta a sé ciò che aveva insegnato ai discepoli: dal Pater noster a Pater mi, fiat voluntas tua.
Nell’ultimo passaggio Péguy effettua un nuovo avvicinamento di testi, trovando segrete assonanze nella Scrittura: il fiat voluntas del Getsemani compie il fiat lux della Genesi, del principio del mondo.
Questo è un folgorante accostamento, degno dei Padri della Chiesa, eppure non è soprattutto l’idea ad essere originale ed illuminante, quanto la sua illustrazione, ricca di immagini, evocazione, terribilità.
“Fiat lux, fiat voluntas, un’eco lontana risponde alla prima, alla parola di creazione, un’eco fedele: un secondo inizio risponde al primo; una seconda creazione risponde alla prima; e questo secondo comandamento, umanamente così disprezzato, secolarmente così basso, temporalmente così disprezzabile, non è altro, amico mio, non va altro in effetti che a una seconda creazione: E come la prima creazione era di tutto il mondo, la creazione dell’universo, totius orbis universi, di tutta la creazione, questa seconda creazione, questa eco fedele non è altro, non sta per essere altro propriamente che la creazione dello spirituale, che essere la propria creazione propria, ritardata più di cinquanta secoli, del mondo spirituale. Tutto attendeva… Fu il tempo che egli si prese, e nella sua obbedienza stessa per un istante vacillò”.

[1] Charles Péguy, Getsemani, Milano, 1997


Giovanni Papini, Storia di Cristo

Per comodità più che per spirito di classificazione, iniziamo il nostro percorso da alcune Vite di Gesù, forse tra le più note, scritte nell'ultimo secolo.
Giovanni Papini (1881-1956) [1], nel 1921, a seguito della sua conversione, scrisse Storia di Cristo, opera che ebbe molta risonanza perché fu pubblicizzata come l'esito della vicenda intellettuale ed esistenziale di un artista, fino a quel momento, vivacemente dissacratore della tradizione e della religione.
La vita di Gesù, presentata per brevi capitoli, inizia con una lunga presentazione, nella quale Papini spiega i motivi del suo scritto e i suoi intendimenti nel proporre un argomento così contro-corrente.
Ne riportiamo alcuni brani. "… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C'è ancora che l'ama e chi l'odia. C'è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione… Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri… Le vite di Gesù destinate ai devoti esalano quasi tutte un non so che di mucido e stantio che respinge, fin dalle prime pagine, il lettore avvezzo a più delicati e sostanziali pasti…" Dopo tali premesse l'autore presenta cosa l'uomo di oggi desidera incontrare: "… un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d'una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza – perenne epperciò anche attuale – a quelli che l'hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia…" A questo punto Papini può "giustificare" la sua opera di laico già miscredente per credenti e miscredenti, un'opera quindi accreditata dalla vicenda passata del suo stesso autore: "… un libro siffatto l'autore del presente non pretende d'averlo fatto lui, benché confessi di averci pensato spesso: ma per lo meno ha tentato, per quanto arrivavano le sue capacità, di accostarsi a quell'idea… pur tenendomi fedele alle parole delle Rivelazione e ai dogmi della Chiesa Cattolica s'è studiato, talvolta, di ripresentare quei dogmi e quelle parole in modi diversi dai soliti, con uno stile violento d'opposizioni e di scorci, ravvivato da termini crudi e risentiti, per vedere se l'anime d'oggi, avvezze ai pimenti dell'errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità…"
Non ci soffermiamo sui capitoli relativi all'infanzia e alla vita di Gesù, ne proponiamo invece alcuni tratti dal secondo tomo sulla passione, morte resurrezione del Cristo.
Tutti gli autori, e Papini compreso, si interrogano in particolar modo su Guida Iscariota (Ishkarioth), sul mistero del suo tradimento, soprattutto sulle motivazioni di tale azione ignobile.
Ma chi è in realtà Giuda, che personalità si nasconde nelle parole lapidarie della Scrittura?
Papini presenta un ampio ventaglio di ipotesi, ma non ne abbraccia alcuna: "… Il mistero di Giuda è legato a doppio nodo al mistero della Redenzione e rimarrà per noi miseri un mistero"; ma poi aggiunge "… se Gesù non fosse stato venduto sarebbe mancato qualcosa alla perfetta ignominia dell'espiazione…", quindi Giuda non solo è traditore, ma è colui che ha venduto, barattato a basso prezzo un uomo, l'Uomo; Giuda fu un venditore di sangue.
Dopo aver descritto in più capitoli l'ultima cena, l'autore si addentra nel vivo del racconto evangelico con l'agonia di Gesù nell'orto degli ulivi. Solo Papini presenta questo momento come una seconda tentazione del Cristo, dopo quelle che egli subì nel deserto prima della sua vita pubblica "… ora, in questo nuovo deserto, in questa tenebra dove Gesù è solo, spaventosamente solo… Satana torna ad insidiare il suo nemico… L'altra volta gli prometteva le grandezze dei regni….ora ricorre al contrario: spera nella sua debolezza…".
Papini accenna solo a questo profondo tormento del Cristo, poi si ritrae, quasi impaurito da tanto suo ardire "… il racconto di questa notte è il mistero di Gesù. Il mistero di Giuda è il solo mistero umano dell'Evangelo, la Preghiera del Getsemani è il più imperscrutabile mistero divino della storia di Cristo."
Ora il Cristo in questa lotta con le Tenebre gronda sangue, "suda per tutta la persona… il sangue che ha promesso agli uomini comincia a versarlo sull'erba del Monte degli Ulivi." La lotta che Gesù affronta è il diretto confronto tra arbitrio ed obbedienza, cioè tra arbitrio e vera libertà: "la volontà abdica nell'ubbidienza che sola assicura la libertà universale. Non è più un uomo ma l'Uomo; l'Uomo tutt'uno con Dio, una cosa sola con Dio: voglio quello che vuoi."
Inquietante la descrizione che viene fatta di Anna (Hanan) e di Caifa (Cajafa, soprannome che ha diverse assonanze con Cefa, fa notare Papini): uomini senza scrupoli, più attenti agli intrighi di potere che alla religione dei Padri, più interessati ai risvolti politici della predicazione di questo sedicente messia che alle sue parole.
Con Giuseppe Cajafa, Pietra, appare anche Simone Cefa, Pietra nel momento culminante del suo tradimento e del successivo, desolato pentimento al canto del gallo, raccontato dallo scrittore con toni lirici e struggenti: "… quel canto ilare e baldanzoso fu per Simone come il grido che sveglia di colpo l'assopito da un incubo; Come il ricordo improvviso di un discorso udito in un'altra vita, come il ritorno alla casa della puerizia, all'orto mattiniero, disteso fra il lago e le campagne, come una voce da tanto tempo dimenticata che illumina una vita come un lampo la notte. Allora si poté vedere, nell'incertezza dell'albore, un uomo che andava via come un ubriaco, col capo nascosto nel mantello, e le spalle scosse dai singhiozzi d'un pianto disperato".
Sono numerosi i capitoli che Papini dedica alle torture inflitte a Gesù, ben otto, quasi volesse raccontare in tempo reale, attimo per attimo, la sofferenza fisica e spirituale del Cristo. I toni sono realistici, forti, impietosi sia nel tratteggiare giudei, romani che lo stesso Gesù sotto il peso dei tormenti.
Il consiglio ebreo che giudica il Signore è un canile di spettri; i giudei sono vecchi, massicci, nasuti, arcigni, cipigliosi, chiusi nei manti bianchi, le teste coperte da un panno, le barbe carezzate e reverenziali, gli occhi pugnaci. Il Cristo in questo consesso, "sempre colla fune annodata ai polsi spinto in mezzo a codesto canile", pareva il condannato ad bestias negli anfiteatri romani; Egli tace e i suoi silenzi sono gravi di una soprannaturale eloquenza che ha il potere di invelenire i suoi giudici. Tutto ciò fino alla domanda diretta di Caifa, alla quale Gesù non può non rispondere perché per quella suprema testimonianza è venuto.
I gaglioffi del Tempio prendono in consegna Colui che con le sue stesse parole si è condannato: "l'uomo bestia, quando è certa l'impunità, non conosce più bel sollazzo di questo: sfogarsi contro l'inerme, con maggior gusto quando l'inerme è innocente…", poche parole che bastano a farci comprendere le bestialità cui fu oggetto l'Innocente per eccellenza.
Un altro personaggio di questo dramma è Ponzio Pilato, il procuratore romano: se da principio il giudizio che Papini da su di lui pare abbastanza attenuato, poi però non gli risparmia le sue incapacità, i suoi tentennamenti, o meglio, l'essersi mosso per ragion di Stato e non per amore di Verità: "Pilato, a forza di stratagemmi, di rinvii, d'indolenti interrogazioni, di mezzi termini e mezze misure, di titubanze, di risoluzioni maldestre e ringoiate, di mosse mal eseguite, si trovava ora precipitato lentamente dove non sarebbe voluto cadere…". Unica nota luminosa e positiva Claudia Procula, la moglie del procuratore, che la Chiesa orientale venera come santa, poiché si è mossa a favore di Gesù.
Terribile il capitoletto Un re incoronato, per la crudezza di descrizione, per la violenza trattenuta a stento dalle parole nel suggerire le flagellazione.
Il triste corteo con il condannato a morte procede alla volta del Calvario "… in cima alla callotta del Teschio le Tre Croci, alte, scure, colle traverse aperte, come giganti pronti all'abbraccio, campeggiano sul gran cielo amoroso di primavera. Non gettano ombre ma sono orlate dalle riverberazioni scintillanti del sole. È tanta la bellezza del mondo, in quel giorno, in quell'ora, che non sembra possibile pensare ai tormenti; non si potrebbe, quell'antenne di legno, fiorirle con fiori di campo e sospendere, dall'una all'altra, festoni di foglie nuove, mascherate i patiboli con muraglie di verdura e sedere all'ombra, fratelli riconciliati e benevoli, per tutta la siesta?...". Stupiscono questi squarci lirici che frammezzano la narrazione dell'orrore, dell'odio degli uomini verso il Cristo, eppure Papini sceglie di procedere così: allenta la tensione di un narrare serrato con la calma e la tranquillità di questi paesaggi interiori.
Con quattro chiodi, impietosamente, Cristo è conficcato alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzioso compianto delle donne, della madre e di Giovanni. Accanto a lui soffre Dismas: "… in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d'incolpevole, proruppe in queste parole: Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno!"
"Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante… Il cielo, ch'era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente si oscurò… Cristo è morto. È morto sulla croce come gli uomini hanno voluto, come il Figlio ha scelto e il Padre accettò. L'agonia è finita e i Giudei son contentati. Ha espiato fin all'ultimo ed è morto. Ora comincia la nostra espiazione – e non è ancora finita."
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I capitoli conclusivi rivivono, con commozione intensa in cui balena la medesima esperienza trasfigurante dell'autore neo-convertito, gli episodi che dalla resurrezione si dipanano fino all'ascensione di Cristo al Padre. Veramente degna di nota, a nostro avviso, è la preghiera finale, nella quale si condensa tutta la fede ardente di Papini: "Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per tutti noi che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso… Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d'ogni impossibile. E tutto l'amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore."

[1] Giovanni Papini, Storia di Cristo, Firenze, 1945


François Mauriac, Vita di Gesù

Quando Mauriac (1885-1970) decide, nel 1936, di scrivere la sua Vita di Gesù [1] ha cinquant'anni, è famoso da molto tempo ed è anche riuscito ad uscire dal ghetto di una letteratura particolare, imponendosi come voce di uno spirito inquieto e tormentato.
Il pregio e la diversità di questa vita di Gesù rispetto ad altre è quella di aver considerato il Cristo come il personaggio-chiave della tragedia umana; quindi il Gesù di Mauriac non viene né dai libri di indagine storica, che avevano avuto molta diffusione negli anni della sua gioventù, né dai manuali di pietà; è un libro che viene dalla vita e che ci propone quel personaggio misterioso che d'improvviso ci troviamo accanto nei momenti di maggior abbandono, di desolazione e disperata solitudine. Carlo Bo, nell'introduzione all'edizione italiana curata per Mondadori, così precisa: "Il compito che si prefigge è, questo, di non strapparlo all'ombra che limita il nostro quotidiano, di non vederlo né come Dio né come un cuore santo ma – caso mai – di vederlo come un nostro sosia dotato del segreto della verità, carico di un dato di carità che sa trasformare il "nodo di vipere" che rappresenta il cuore dell'uomo in offerta, in amore, in segno di partecipazione."
Sono brevissimi i capitoletti che narrano la vita di Cristo, quasi sospiri, accenni, appunti discreti per suggerire e non esaurire il mistero dell'Uomo-Dio che muore per la salvezza degli uomini.
Dal XXIII con Il convito in casa di Simone ha inizio la settimana di passione di Gesù.
Mauriac focalizza l'attenzione su Maria, sorella di Lazzaro, che spezza il vaso d'unguento profumato sui piedi del Signore: "… Un solo cuore, sollecitato dall'amore, indovinava in quell'uomo coricato, in Gesù, una creatura stanca di correre, un cervo sfinito, errante di rifugio in rifugio. La lampada non ha più olio (la lampada del suo corpo). Sola rimane a Gesù la forza di sopportare e soffrire. È facile immaginare lo sguardo che si scambiano quella santa fanciulla e il Figlio dell'uomo. Gli altri non vedono nulla. Ma egli sa che Maria ha compreso, mentre il vaso d'alabastro si spezza e spande il suo profumo…"
Il racconto si concentra poi sull'ultima cena, quando sta per svelarsi il traditore, Giuda: "… nessuna bravata: senza dubbio egli non sapeva ancora: esitava. Una lotta in fondo al suo essere lo strazia, lotta disperata, nel peggior senso, e che tanti cristiani conoscono: quando l'anima ferita a morte, si dibatte sapendo che alla fine dovrà soccombere. Questo Gesù, Giuda l'ha amato, e ancora l'ama, forse, malgrado gli scacchi, il suo rancore, il suo desiderio di non rimaner solidale col più debole…"
Anche per lo scrittore francese la notte nel Getsemani è fondamentale nella vicenda terrena di Gesù; in quel luogo il Signore combatte una lotta terribile: "… ha paura: conviene ch'eglisperimenti la paura. L'odor del sangue lo fa rabbrividire; egli prova quel terrore della bestia… ogni essere umano, a certe ore del destino, nel silenzio notturno, ha conosciuto l'indifferenza della materia cieca e sorda. La materia schiaccia il Cristo. Egli prova nella sua carne l'orrore di quella assenza infinita. Il Creatore si è ritirato, e la creazione non è più che un fondo di mare sterile: gli astri morti coprono la distesa. Echeggiano, nell'oscurità, dei gridi di belve divorate…"
Mauriac pone poi un serrato confronto tra il tradimento di Giuda e quello di Pietro: il volto già gonfio e livido per le percosse incontra lo sguardo di Pietro, "l'apostolo contemplava con stupore quella faccia già enfiata dai colpi di pugno. Nascose la propria nelle mani, e appena uscito sparse più lacrime che non avesse versate da che era al mondo"; Giuda è ucciso dal rimorso, dopo aver toccato la soglia della perfetta contrizione si abbandona alla disperazione, "… finchésussiste nell'anima più aggravata un barlume di speranza, ella non è separata dall'amore infinito che per un sospiro. Ed è il mistero dei misteri che questo sospiro il Figlio di perdizione non l'abbia esalato."
I giudei, Pilato, Erode, Barabba… tutto è presentato in un soffio. Con un marcato realismo Mauriac descrive la crocefissione e l'agonia del Signore: "Ecco ilo momento più atroce: lo strappo della stoffa incollata alle piaghe, i colpi di martello sui chiodi, l'erezione dell'albero, il peso del frutto umano, la sete spenta con aceto e fiele, e la nudità, la vergogna di quella misera carne… O rifugio della piccola Ostia!"
D'un battito, dopo aver ricordato che le ultime parole del Cristo sono di fiducioso abbandono a Dio (salmo 22), quell'abbandono già deciso con il sangue nell'orto degli ulivi, Mauriac è al mattino di Pasqua, una sera di primavera, l'odore della terra calda bagnata… e quando, qualche settimana più tardi, Gesù si toglie dal gruppo dei discepoli, sale e si dissolve nella luce, non si tratta d'una partenza definitiva. Già egli è imboscato, alla svolta della strada che va da Gerusalemme a Damasco, e spia Saul, il suo diletto persecutore. D'ora innanzi, nel destino di ciascun uomo, vi sarà questo Dio in agguato."

[1] François Mauriac, Vita di Gesù, Milano, 1993


Luigi Santucci, Una vita di Cristo

Questa vita di Cristo di Luigi Santucci (1918-1999), uscita nel 1969 [1] con il titolo Volete andarvene anche voi?, traduce con suggestiva poesia i passi della vita terrena del Salvatore.
Nota dominante di quest’opera, come ebbe a dire lo stesso scrittore, è la poetica della gioia: “La poesia propone e consegna praticamente la felicità quotidiana. Nel mondo della poesia non esistono infelici…” ed infatti la traduzione che Santucci fa del Vangelo non ha la freddezza della ricostruzione storica, bensì la felicità della reinvenzione poetica e della testimonianza di una personale adesione di fede (… in queste pagine ho scelto di accostare il messia quasi da testimone fisico; a volte dal di dentro di Lui e altre dal di dentro di me. Fra i tanti modi possibili di narrare questa storia mi sono pertanto arbitrato di sceglierli e associarli tutti, adottando quell’esauriente pluralismo e quella coesistenza di piani da cui la narrativa d’oggi sembra – del resto ritrovandosi proprio sui modi della narrativa evangelica – non poter più prescindere…)
I capitoli portanti del libro, sette in tutto, sono a loro volta suddivisi in brevissimi paragrafetti aperti da una frase del Vangelo; noi ci addentriamo nel capitolo La Passione.
Proprio all’inizio, per alcune pagine, Santucci soffermandosi sull’ultima cena, evidenzia il desiderio di umiliazione ed abbassamento di Cristo sia nel lavare i piedi ai discepoli, sia nel nascondersi nel pane consacrato; un’umiliazione che tiene conto della carnalità umana, la accondiscende quasi per farsi povero tra i poveri, ultimo tra gli ultimi: “questo è il mio corpo… lo mangino, poco fa si è contaminato con la loro corporeità fangosa, lavando loro i piedi,… adesso vuole fare di più: scenderà nelle loro gole, si mescolerà, sino a trasformarsi, con le loro mucose, si scioglierà a poco a poco in tutte le loro fibre… occorre che egli rimanga con l’unica cosa di noi che veramente conosciamo e cui attacchiamo il cuore e la memoria: il corpo…”
Impressionanti le riflessioni che l’autore fa a proposito di Giuda. Egli non è una marionetta, un vuoto personaggio da tragedia, Giuda può essere ognuno di noi, “Giuda è stato uomo come io sono uomo: Non peggiore, non più peccatore di me…”. Si affatica Santucci per tentare di immedesimarsi nello stato d’animo dell’Iscariota in quella notte del giovedì santo, in modo ansioso, affaticato, convulso, quasi che il ritmo serrato delle frasi ci suggeriscano i moti tempestosi del cuore.
L’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi, anche per il nostro autore, è un momento essenziale di riflessione: Cristo sta tra due silenzi, il silenzio e il sonno degli uomini, i suoi amici e il silenzio incombente di Dio. Proprio nell’oscurità del giardino Gesù riceve la prima ferita: il bacio di Giuda segna l’inizio della Passione e della profonda sofferenza psicologica del Cristo. Dopo quel bacio seguono schiaffi, pugni, bastonate, dileggi, dapprima da parte dei suoi, poi da parte dei romani invasori. A ordire tutto sono “due turbanti”, Anna e Caifa: “La crocefissione di Gesù, lucida come un teorema e senza rimorsi, si è svolta già tutta sotto questi due turbanti, dal primo colpo di frusta alla stoccata della lancia.”
Prima di giungere alla figura di Pilato, che qui parla in prima persona dalle pagine di un suo diario, Santucci ci offre le sue riflessioni sul tradimento di Pietro: “… il primo sangue è sgorgato nell’orto… il primo singhiozzo si leva… Cristo se ne va e gli lascia quest’ultimo dono. L’amara dolcezza di piangere, l’ebbrezza della vergogna e del pentimento: quel gorgo benedetto d’infanzia che sono le lacrime e i singhiozzi e che non ci fa puri ma per qualche divino istante sinceri, gonfi di ricordi e speranze: che ci libera dal presente (ecco cos’è il pianto) che non sia quel benefico sussultare del petto. Pietro piange sul suo passato di uomo, dalle più remote colpe di ragazzo a quest’ultima infamia…”
Diario ai posteri di Ponzio Pilato
è sicuramente una delle più interessanti invenzioni del libro di Santucci quella di far parlare in prima persona uno dei più controversi protagonisti della Passione di Gesù. In queste righe, quasi lettera ai posteri per spiegare le proprie decisioni (o forse per giustificarsi o riabilitarsi), Pilato si presenta quale romano amante della filosofia, non particolarmente incline al sangue, ma nemmeno tenero ed emotivo, attento però ai sogni della moglie, che ha doni di preveggenza e profezia. Pilato confessa di essere affascinato da questo ebreo che i capi dei giudei vogliono far fuori… ma nonostante tutto i capi del popolo ebraico sono più furbi di lui e gli estorcono la condanna a morte, mentre “dalla piazza saliva quel grido bestiale che scuoteva le fondamenta del palazzo: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!»
Mentre Gesù ora, caricato della croce si avvia al patibolo, non è che “ un fantoccio tartassato
dal furore del male, straziato da un odio senza logica e senza responsabili, maledizione e vittima.”
Cristo è inchiodato sulla croce, lentamente muore sotto lo sguardo dei suoi nemici, dei suoi carnefici e di poche presenza amiche che non lo hanno abbandonato, tra esse la madre e il discepolo prediletto. Affida la madre a Giovanni e Giovanni alla madre: alla sesta ora, morente, Gesù rimane orfano, ci ha donato tutto: la sua vita e chi gli ha dato la vita, sua madre.

[1] Luigi Santucci, Una vita di Cristo, Cinisello Balsamo (Mi), 1995


Ferruccio Parazzoli, Vita di Gesù

Ultimo testo di questa prima serie è Vita di Gesù [1] di Ferruccio Parazzoli (1935); lo stesso scrittore presenta così il suo tentativo: “Dopo aver scritto molti libri e molte storie, ho deciso di affrontare il rischio di raccontare, ancora una volta, i fatti e le parole dell’uomo chiamato Gesù… sul racconto di come Gesù è nato, vissuto, morto e risorto, ci sono intere biblioteche, volumi di indagine storica e libri di pietà. Ho provato a dimenticarli per ritrovare quel Gesù uomo e Dio di strada, nostro fratello e nostro sosia, ma dotato del segreto della vita, che da duemila anni ripete a chiunque lo incontri:«Fermati. Sono io colui che tu cerchi»“
Dopo un breve prologo, dove Parazzoli sintetizza i Vangeli dell’infanzia di Gesù, il volume è costituito da due sezioni: Il Redentore e Il Risorto, a sua volte suddivise in numerose brevi capitoletti; ci soffermiamo sull’ultimo della prima sezione Gerusalemme. Processo e morte.
Con acutezza, proprio per rendere concreta dopo duemila anni la morte di Gesù, l’autore segna con date i giorni della Passione, iniziando dal mercoledì 5 aprile (Fra due giorni sarà Pasqua). Il giovedì 6 aprile ha luogo l’ultima cena: tutti i dialoghi del Vangelo sono ritradotto con espressioni a noi più vicine e famigliari, proprio in un moto di avvicinamento e abbassamento che l’autore intende perseguire. Il dialogo è serrato, intenso, le parole di Gesù sono il testamento, il patrimonio di grazia che lascia in eredità ai suoi che, in quel frangente, non capiscono, tanto che, di lì a poco, nell’orto si addormenteranno lasciandolo completamente solo.
Si snoda veloce la narrazione, Parazzoli quasi parafrasa il testo sacro, lesinando per pudore osservazioni e riflessioni proprie… fino alla bella conclusione, in cui viene riportato interamente il salmo che Gesù, nell’atroce sofferenza sulla croce, accenna con il primo versetto “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

[1] Ferruccio Parazzoli, Vita di Gesù, Milano, 1999


L'autore stesso, quindi, motiva l'uso di un linguaggio violento, quasi ad invettiva, proprio per risvegliare alla Verità la coscienza addormentata dei lettori moderni.

"Processo a Gesù" di Diego Fabbri

Rappresentato per la prima volta nel 1955 [1], il capolavoro di Diego Fabbri (1911-1980), scritto dopo una lunga gestazione dal 1952 al 1954, ha trionfato sui palcoscenici di tutto il mondo. L’idea nacque in Fabbri dal processo «politico» che un gruppo di giuristi anglosassoni aveva fatto nel 1933 a Gerusalemme e che si era concluso con l’assoluzione di Gesù. Da tale spunto l’opera di Fabbri divenne un’indagine serrata ed emozionante su una società che aveva perso la speranza della salvezza, la fiducia nei propri valori, soprattutto la fiducia nella condivisione e nell’amore, rifugiandosi nell’individualismo e nell’edonismo. La visione cattolica del drammaturgo non ha nulla di consolatorio e pietistico, ma nasce e si nutre della drammaticità di Dostoevskij, di Pascal, di Manzoni, e dei grandi scrittori francesi come Bernanos, Mauriac, Péguy, Claudel; Fabbri arriva a realizzare, in quest’opera come in molte altre, il documento di un’epoca confusa ed inquieta, dove l’uomo tanto più sente il bisogno di Dio quanto più se ne allontana, cercandolo, per paradosso, per tutte le strade possibili, dagli amori disordinati alle esperienze angoscianti, fino alle improvvise folgorazioni del soprannaturale.
Il dramma è diviso in due tempi con un intermezzo; la scena è semplice e si presenta a sipario alzato. Prendendo spunto dal teatro pirandelliano più tipico, i personaggi, non casualmente con nomi biblici (Elia, Rebecca, Sara e Davide), si presentano agli spettatori, tra i quali è già nascosto qualche attore che in un secondo tempo interverrà direttamente nell’azione scenica, annunciando la messa in scena di un processo a Gesù, una sorta di sacra rappresentazione che cerca di scoprire se Gesù fosse innocente o colpevole, se fu condannato ingiustamente o meno. I quattro, a cui si aggiunge poi un giudice occasionale, sembrano ripetere parti prestabilite: alcuni si mettono alla difesa, altri all’accusa. Il dibattito è però serrato e polemico, tanto da far supporre qualche personale implicazione dei personaggi, tutti ebrei e quindi tutti implicati nell’antico processo al Cristo. Piano piano vengono chiamati a deporre coloro che furono direttamente coinvolti in quel processo: Caifa, Pilato, Maria, Giuseppe e poi alcuni discepoli, Pietro, Giovanni, Giuda; tutti attori moderni che interpretano una parte, ma nello stesso tempo personaggi autentici che difendono un ruolo, una scelta, una posizione pro o contro Gesù. L’amara conclusione a cui si giunge è “ tutti lo misero a morte con nascosto rammarico, ma con un sospiro di sollievo…”
Illuminanti, per la continuazione del dramma, le parole che, ad un certo punto, dice Elia: “… noi non fingiamo niente, noi non ripetiamo niente, come tu credi; noi, al contrario, facciamo ogni giorno del nuovo, perché se quello che succede quassù, tra noi, è quasi sempre lo stesso dibattito, quel che invece cambia sempre, ogni sera, è ciò che accade attorno a noi, tra la gente che ci ascolta…”
Ed infatti, dopo l’intermezzo, in cui si rivela il profondo dramma che lega Sara e Davide, il secondo tempo è un dialogo aperto e coinvolgente con il «pubblico»: intervengono un sacerdote, un intellettuale, una «bionda» e poi una povera donnetta, ognuno dichiarando i motivi della propria adesione a Gesù o del proprio profondo odio.
La conclusione è travolgente, anche se forse un poco “scontata”, perché il vero pregio di quest’opera è nel suo svolgimento dialettico e serrato:” … chi è - chi è – per voi, Gesù di Nazareth?... Perché non lo gridate forte, dovunque e sempre, quel che avete detto stasera? Tutti dovete gridarlo! Tutti! Perché altrimenti si ripete anche per voi, quello che accadde per noi, allora. Di rinnegare… di condannare… di crocifiggere Gesù. Io debbo ormai proclamare… alto… e al cospetto di tutti… che non so ancora se Gesù di Nazareth sia stato quel Messia che noi aspettavamo… non lo so… ma è certo che Lui, Lui solo, alimenta e sostiene da quel giorno tutte le speranze del mondo! E io lo proclamo innocente… e martire… e guida…”

[1] Diego Fabbri, Processo a Gesù, Roma, 1994


"Il Quinto Evangelista" di Mario Pomilio


Mario Pomilio (1921- 1990) nel 1975 scrisse un breve ma suggestivo dramma intitolato Il Quinto Evangelista [1], testo poi raccolto con altri di genere diverso, ma tutti inerenti la riflessione sul cristianesimo e su Gesù, poi raccolti con il titolo Il Quinto Evangelo.
Apparentemente il dramma ricalca quello di Fabbri, ma i toni e lo svolgimente sono meno prevedibile dell'illustre precedente.
L'azione è ambientata nel 1940 in Germania. In una sala parrocchiale un sacerdote sta svolgendo una conversazione sul tema di Gesù, ma ad un certo punto, essendo giunto alla fine del suo intervento, chiede se ci siano domande ed osservazioni e da qui prende avvio l'azione scenica. Subito si delineano i personaggio del dramma: l'avvocato Schimmel è il caparbio razionalista, che pone domande provocatorie e non si lascia convincere da ingenue motivazioni, il dottor Ehrart è il protestante riformato che di continuo fa riferimento all'autorità stessa delle Scritture, la signora Kuyper rappresenta il fedele cattolico semplice, certo delle verità che la tradizione della Chiesa gli ha insegnato, da ultimo lo studente Toepfer, che rappresenta le nuove generazioni scettiche rispetto a tutto ciò in cui credono i padri.
La discussione verte su chi sia Gesù, sulla personalità e sulla vicenda umana del Cristo riportata a noi dagli evangelisti, di cui talvolta si notano le incongruenze e le diversità in una lettura affrontata e critica. I fatti che più animano i protagonisti sono proprio quelli della Passione. "… (Dottor Ehrart) questo confronto fra i quattro testi evangelici si potrebbe non solo portarlo avanti, ma animarlo al modo in cui è gia accaduto poco fa. Scegliamo, ecco, un'intera parte, la Passione, per esempio… e designiamo alcuni di noi perché s'assumano il ruolo dei personaggi che compaiono nella Passione e vengano a dire le loro ragioni, obiettino, contestino… sarebbe una verifica in concreto, dal vivo, delle diverse versioni della Passione di Gesù, e in definitiva della credibilità stessa dei quattro evangelisti…"
Per ovvii motivi di essenzialità della nostra analisi non ci inoltriamo nell'accesa discussione, nella quale i precedenti protagonisti ora interpretano i personaggi evangelici (lo stesso studente interpreta Giuda), ma facciamo rilevare che, ad un certo momento, si materializza un misterioso personaggio che si fa chiamare «quinto evangelista» che si presenta così: "E voi chi dite che io sia?". Questo strano personaggio interviene nella lettura dei Vangeli della Passione precisando, approfondendo, portando considerazioni che costringono tutti ad andare oltre i propri schemi e pregiudizi sulla figura del Cristo.
Uno dei punti di maggior discussione è la parte di Giuda e il rapporto tra libertà umana e prescienza divina: "… la verità è che io non fui affatto il traditore: fui piuttosto la vittima d'un curioso piano di salvezza, esteso a tutti gli uomini, che per essere perfetto avrebbe escluso me. D'un amore infinito, esteso a tutti gli uomini, che per esplicitarsi perfettamente doveva escludere me…" Parole dure, estreme, provocatorie, ma il punto discriminante del tradimento di Giuda non è tanto il tradimento, anche Pietro lo tradì, ma il non amore, il suo ritirarsi dall'amore di Cristo che lo avrebbe salvato.
L'incalzare delle osservazioni porta ad un finale a sorpresa, in uno scambio tra finzione e realtà, dove il «gioco» iniziale, la sacra rappresentazione diventa drammatica ed attuale realtà.

[1] Mario Pomilio, Il Quinto Evangelista, in Il Quinto Evangelo, Milano, 2000

"La ricotta" di Pier Paolo Pasolini


La sceneggiatura de La ricotta [1], scritta nel 1962 da Pasolini (1922- 1975) può essere accostata ad un testo teatrale, benché poi realizzata con il linguaggio filmico.
La ricotta è, a nostro avviso, una moderna Passione, non solo per il suo contenuto (narra le vicende di un set cinematografico dove si sta realizzando un film sulla Passione di Gesù), ma soprattutto per gli squarci di vita e di miseria dei suoi personaggi e del protagonista in particolare, Stracci, che deve interpretare il Buon Ladrone.
L’atmosfera, pur comica e grottesca in molti dettagli (Stracci che ruba un cestino della colazione e lo porta alla famiglia che lo segue sul set, Stracci che mangia e si muove con ritmo accelerato) risulta alla fine tragica ed irreale: da una parte la povertà ed estrema prosaicità di chi sta interpretando i personaggi della Passione (un Gesù che dalla croce bestemmia in romanesco, la Maddalena che fa lo spogliarello per divertire le comparse) e i pretestuosi impossibili atteggiamenti del regista, un «artista» incompreso che insegue le vette dell’arte e dell’ispirazione.
Pasolini è riuscito con molta efficacia, anche nello scritto, a rendere la vacuità del set cinematografico, il vociare della troupe, gli effetti speciali che, qui, di speciale hanno ben poco, considerata l’essenziale miseria dell’insieme, e l’aggirarsi quasi famelico di un giornalista in cerca di scoop e interviste sensazionali per il suo giornale.
Il nulla della finzione cinematografica, a cui Stracci si adatta – vittima consenziente di questa situazione – contrasta con la vita, con la realtà: Gesù è un poco di buono, la Maddalena anche, i figli di Stracci sono dei teppistelli, l’antica Gerusalemme non è altro che il suburbio di Roma, arido, malsano, polveroso.
Tale contrasto è tutto giocato nel finale: in visita sul set giunge anche il produttore, tutti seguono trattenendo il respiro il regista, tutto è pronto per la ripresa clou, Gesù che parla con il Buon Ladrone sulla croce “… Il produttore, che fuma pacifico il suo sigaro, il regista, l’aiuto, le dive, la corte, tutti, tutti in semicerchio, come visti dalle croci, schiacciati contro terra, aspettano. (Regista) Azione! Ma la testa di Stracci resta a penzolare come un prosciutto, immobile.(Esseri umani della troupe) Se sente male. Che cià? È morto!”

[1] Pier Paolo Pasolini, La ricotta, in Alì dagli occhi azzurri, Milano, 1992


Giuda: il mistero insolubile del traditore


Come abbiamo potuto considerare anche in alcune delle opere precedenti, la figura di Giuda è una delle più osservate, forse perché la più complessa, la meno solare, la più enigmatica dei Vangeli e, poiché la Scrittura è essenziale, quasi lapidaria nei suoi confronti, lascia quindi un ampio margine alle “fantasie” degli scrittori.
Vogliamo proporre due romanzi centrati sul personaggio-Giuda: il famoso romanzo di Lanza del Vasto ed uno recentissimo dell’americano Lliteras.
Giuda fu pubblicato Lanza del Vasto (1901-1981) nel 1938 [1] e si presenta, a nostro avviso, come il racconto più completo e più suggestivo scritto sul traditore. Il motivo di tale risultato è suggerito dall’autore medesimo nella presentazione all’edizione che abbiamo tra mano: “Perché Giuda era ed è uno di noi… dove è la colpa, dove il merito, dove la Giustizia di Dio, dove la libertà dell’uomo?... dunque Giuda, Giuda, Giuda son io! E, d’orrore, mi son convertito! Il motore in partenza coprì la voce. L’ignoto sparì. Uno almeno nel mondo aveva capito di che si tratta, di che si tratta! Mi consolò il sentirmelo dire.”
La ricchezza della narrazione e le molteplici sfaccettature psicologiche di Giuda, cosi finemente presentate da Lanza, non ci permettono di esaurire in un riassunto la complessità del romanzo. Da subito però Giuda, già discepolo di Giovanni Battista, ci appare come un parassita, invidioso della grazia altrui, opportunista negli amori, dedito sia alla virtù, usata come strumento per farsi notare, sia a tutti i più abbietti vizi (dalla pedofilia all’idolatria). Lo scrittore interpreta il tradimento di Giuda come una “ritrovata” libertà, che gli altri discepoli, succubi del Maestro, non sanno nemmeno immaginare: “… lo irrita (ndr. È Giuda che dice di Gesù) che io abbia saputo liberarmi dal suo giogo. È geloso pure perché posso frequentare persone altolocate le quali apprezzano in me le virtù che egli ha sempre finto di ignorare per invidia…”
Per una curiosa sovrapposizione di ruoli, nell’orto degli ulivi Giuda, che sta accompagnando coloro che arresteranno il Cristo, vive su di sé i medesimi fenomeni che proverà Gesù: gronda sangue e sudore, cade per tre volte, si sente pecora condotta al macello.
Ma la tragedia di Giuda arriva al compimento proprio nell’istante in cui Pilato presenta Cristo alla folla dopo la flagellazione: “L’avevano travestito da re, con corona di spine in testa e scettro di canna in mano. Il sangue girava le occhiaie e colava sulle guance. La bocca s’apriva appena sull’anelito, gli occhi in tutta la folla guardavano Giuda, lui solo: lo guardavano con pietà. Una mano d’angoscia scendeva nel petto di Giuda, un sospiro gli si formò dentro:«O Maestro, o Signore, o Amico». Ma la voce non uscì. Venivano meno le gambe, ma non potette cadere. La folla mugolando e fischiando lo strinse quasi in un pugno, lo sollevò, lo sventolò come un’insegna. La pietà di Gesù non lo lasciava. Sulla guancia di Gesù, dove lo aveva baciato, colava uno sputo….Lo sguardo di Giuda è infisso alla croce. La sua disperazione si nutrisce del supplizio. «O amico un velo si è strappato e ti vedo. Vedo con orrore che ti amo»“
Giuda non può più, non vuole più tornare indietro, ormai il male è troppo per il pentimento, il dolore troppo per il pianto, l’orrore troppo per il grido, non gli resta che un’ultima, disperata soluzione: “Finire, bisogna finire. Trovò la corda che gli pendeva al collo, la legò al fico maledetto… «E se dall’altra parte, dovessi incontrare lui?» Ma si riprese, fece: no, colla testa, disse con forza: «Credo in te, solo in te, nero e tondo nulla!»
Il secondo romanzo, dello statunitense D.S. Lliteras, autore di altri romanzi a sfondo religioso, Judas (1999) [2] è molto diverso e, a nostro avviso, meno drammatico ed incisivo di quello di Lanza del Vasto.
Sicuramente è singolare la costruzione dell’intreccio: ai capitoli che seguono la vita di Giuda, dalla crocefissione di Gesù fino al suicidio, si alternano altri nei quali per bocca di personaggi diversi (donne giudee, uomini giudei, vagabondi, uomini di Dio, discepoli, scribi) si racconta di Gesù, del suo insegnamento, dello scandalo provocato dalle sue parole e dai suoi miracoli.
Fin dalle prime battute del libro Giuda appare in un’atmosfera allucinata, “la mia bocca è un’arma letale, colma di veleno e d’inganno. E ora… anche di rimorso. La mia bocca è un’arma letale…”, allucinata e serrata, dal ritmo sincopato che bene sa esprimere la confusione e l’angoscia che pervadono l’animo del traditore.
“Aveva tratti del volto decisi: soprattutto il profilo del naso, aquilino, e il taglio degli occhi, grandi, mobilissimi, che guizzavano da un angolo all’altro della taverna. La barba e i baffi erano corti, ma ben curati, come i capelli. Dall’aspetto, lo si sarebbe giudicato un uomo qualunque: né ricco né povero, né esperto nei lavori manuali né dedito allo studio delle Scritture. Era una mescolanza di contraddizioni che sconcertava chiunque avesse rapporti con lui…” e infatti Giuda, secondo l’interpretazione che ne dà Lliteras, è un gentile convertito all’ebraismo e fa parte di una banda di ribelli, che tramano contro i romani invasori; loro capo è Ganto, un uomo facile all’ira, pericoloso, con doti innate di comando che aveva ordinato a Giuda di infiltrarsi nel gruppo dei discepoli di Gesù per studiare quell’uomo e riferire delle sue azioni e del suo insegnamento. Giuda però non ha eseguito gli ordini, si è troppo coinvolto con il Maestro, tanto che “… Judas pensava che io potessi far pervenire l’argento ai membri del sinedrio, affinché non procedessero contro il Nazareno…”. Il suo comportamento viene giudicato da Ganto e dal numeroso gruppo di ribelli, per lo più poveri straccioni che sotto il potere romano hanno perso tutto, come un tradimento e viene quindi condannato a morte. Ma Giuda riesce a fuggire. Fugge, ma per darsi la morte da sé: “Incapace perfino di chiudere le palpebre, guardò con occhi sporgenti la morte muovere all’assalto finale. Il corpo continuava a lottare, deciso a non arrendersi, ma la volontà ebbe il sopravvento: Judas vinse la sua battaglia contro la vita, perdendo ciò che rimaneva della propria vita.

[1] Lanza del Vasto, Giuda, Milano, 1976
[2] D.S. Lliteras, Judas, Cinisello Balsamo (Milano), 2001

Il giudice e i malfattori


Anche la figura di Pilato ha da sempre incuriosito e interrogato: chi fu in realtà questo oscuro amministratore romano che oggi, dopo duemila anni, i cristiani ricordano ancora, ma che la Storia ufficiale ha polverizzato e dimenticato?
A lui, Eric-Emmanuel Schmitt (1960), noto drammaturgo francese, ha dedicato Il vangelo secondo Pilato (2000) [1].
Il romanzo vero e proprio è preceduto da un prologo, Confessioni di un condannato a morte la sera del suo arresto: “Israele è una terra d’ulivi, di pietre, di stelle e di pastori, una terra dove i datteri seccano sulla paglia dei granai, una terra d’angoscia dove i cuori maturano l’attesa del salvatore, una terra di aranci, di limoni e di speranza. Israele è il mio giardino, il giardino dove sono nato, quello stesso giardino dove molto presto dovrò morire. Tra poche ore verranno a prendermi… Ma come è accaduto tutto ciò?” Questa bellissima introduzione, eco quasi di alcune pagine del Cantico dei Cantici, non mantiene ciò che pare promettere. Dopo poche righe si capisce che il narratore è Gesù in persona, ormai nell’orto degli ulivi mentre aspetta che i soldati vengano ad arrestarlo. In quei brevi frangenti Gesù, in un lungo flash-back, rivede tutta la sua esistenza, il suo crescere nell’incomprensione di sua madre (ma che ne è di Maria?), lo scoprirsi inadatto alla vita di tutti (si fidanza con Rebecca, ma presto la lascia… Rebecca, si scoprirà poi essere la vedova di Nain!) dotato nel medesimo istante di una straordinaria capacità di comprendere gli uomini fino alla rivelazione, lenta, di possedere poteri inauditi, che dirompevano in lui da un pozzo profondo di luce, il pozzo della preghiera e del diretto rapporto con Dio.
Troppo fantasiosa e talvolta un poco ingenua, questa prima parte non convince il lettore che si è accostato ad altre ben più complesse e tormentate Vite di Gesù.
Più riuscita, per lo meno come novità di tentativo,il romanzo di Pilato, scritto in forma epistolare: Pilato scrive a Tito, suo fratello, raccontandogli le vicende relative a Jeshua, da lui condannato a morte e poi improvvisamente scomparso.
“… odio Gerusalemme. Quella che si respira qui non è aria, bensì un veleno che dà alla testa. Tutto diviene eccessivo in questo dedalo di viuzze fatte non per trovare il proprio itinerario, ma per perderlo, in questi budelli dove, invece di circolare, si finisce per sbattere l’uno contro l’altro. E tutto intorno un bailamme di linguaggi di marca orientale che sembrano fatti apposta perché non ci si capisca… La legge di Roma viene rispettata solo per esecrarla. La città emana il fetore dell’ipocrisia e delle passioni represse. Persino il sole, al di sopra di quei bastioni, è traditore. Pare impossibile che lo stesso sole, sfolgorante su Roma, a Gerusalemme sia torvo. Il sole di Roma diffonde luce, quello di Gerusalemme proietta ombra. Fornisce angoli per complottare… Odio Gerusalemme. Ma c’è qualcosa che odio ancora di più: Gerusalemme durante la Pasqua… E quando si fa giorno, la loro religione esige sacrifici che trasformano Gerusalemme in un immenso mercato di bestiame fornito di mattatoio. Gli animali gridano a migliaia, prima nell’attesa, poi nell’agonia… io osservo disgustato… come ogni anno ho temuto il peggio. Ma, come ogni anno, ho padroneggiato la situazione… per mantenere l’ordine sono stati sufficienti una quindicina di arresti e tre crocifissioni. Il minimo che ci si potesse aspettare…”
Anche in questo caso l’abbrivio in prima persona del procuratore è suggestivo, singolare nella scelta dei toni, delle immagini che suscitano ansia, atmosfera allucinata e febbrile, quella stessa che, con molta probabilità, si respirava a Gerusalemme durante la Passione di Gesù.
La scomparsa del corpo di Jeshua dà avvio ad un tessuto di indagini e di ricerche non solo da parte di Pilato, ma anche dei capi dei Giudei e degli stessi apostoli; inoltre popolano la vicenda una serie di personaggi, tutti sulle tracce di Gesù risorto: la nobile consorte Claudia Procula (che a sua volta scomparirà in un alone di mistero per poi farsi ritrovare ormai diventata cristiana), Craterio, filosofo cinico, discepolo di Diogene già pedagogo di Pilato e del fratello, con le sue sconcertanti provocazioni, Salomè (qui identificata con la fanciulla che danzò davanti ad Erode) e Maria Maddalena testimoni del Risorto.
Pilato via via vaglia le più diverse ipotesi, confronta e scarta alla fine ogni possibile spiegazione razionale, finché, per amore di Claudia e per onesta sete di conoscenza («Cos’è la verità?»), accetta una spiegazione “impossibile” e soprannaturale: “… io dunque non sarò mai cristiano, Claudia. Perché non ho visto niente, tutto mi è sfuggito, sono arrivato troppo tardi. Se volessi credere, dovrei in primo luogo credere alla testimonianza degli altri. Allora sei forse tu, Pilato, il primo cristiano?”
Da uno scarno episodio dei Vangeli, Pär Lagerkvist (1891- 1974), premio Nobel per la letteratura nel 1951, ha trattato il suggestivo romanzo Barabba (1951) [2]. Barabba è il malfattore di cui Cristo ha preso il posto sulla croce, un uomo che man mano scopre l’eccezionalità inspiegabile di quell’Uomo e del suo sacrificio. Il dramma di Barabba (il cui nome significa «Figlio del Padre» sostituito all’ultimo nella morte da Gesù, «Figlio dell’uomo») è tutto nella sua angosciosa domanda di uomo di fronte ad un fatto che gli sconvolge l’esistenza e che egli non riesce a comprendere.
All’inizio del racconto troviamo Barabba (“… era un uomo di circa trent’anni, di corporatura robusta, ma dal colorito terreo; aveva la barba rossiccia e i capelli neri. Le sopracciglia erano anche esse nere e gli occhi molto infossati, come se lo sguardo avesse quasi voluto celarsi. Sotto un occhio aveva una cicatrice profonda che scompariva tra la barba…”) disorientato e incredulo, mentre guarda le tre croci: da quell’istante che lo ha visto, suo malgrado, protagonista, Barabba cerca di informarsi su Gesù; si avvicina ai suoi discepoli, accoglie le confidenze e lo sconforto del traditore Pietro, s’intrattiene con i primi convertiti i quali, appena scoprono la sua identità, lo respingono con orrore. Barabba non ha più il vigore e la prepotenza di un tempo, vive assorto, stralunato, con una pena segreta di cui non sa darsi ragione: uniche compagne sono la «grassona», la sua antica amante che stenta a riconoscerlo per quell’apatia che lo consuma e la Leporina, una ragazza che vive ai margini della società, rifiutata da tutti, che un tempo rese madre e che ora lo segue con docilità e sommesso affetto. La Leporina si converte e viene lapidata e Barabba, che ha assistito al fatto, vendica la donna con un nuovo delitto, dimostrando di non aver compreso nulla dell’insegnamento di Cristo.
Dopo un breve intermezzo ritroviamo Barabba ridotto in schiavitù nelle miniere, unito alla catena con Sahak, uno schiavo cristiano. La vicinanza forzata diventa silenziosa amicizia, rispetto, attaccamento tanto che anche Barabba si fa segnare sulla piastra servile, che ha legata al collo, le iniziali di Gesù, tenta anche di pregare insieme al suo compagno, ma la sua natura selvaggia rifiuta quella dottrina di mitezza e amore. I due vengono condotti davanti al procuratore con l’accusa di essere cristiani: Sahak verrà condannato a morte, mentre Barabba, per aver salva la vita, dichiarerà cinicamente di non aver alcun Dio.
Come ricompensa viene trasportato a Roma, quale servo in una casa di nobili patrizi; l’impulso di incontrare e seguire i cristiani è però più forte di lui. Si reca ad una riunione ma non trova nessuno: è la stessa sera dell’incendio di Roma. Sente qualcuno gridare che sono stati i cristiani ad appiccare l’incendio: d’impeto s’ingegna allora a spargere il fuoco; se il cristianesimo è distruzione dei nemici, anch’egli si sente cristiano, ma anche questa volta Barabba non comprende il senso vero del cristianesimo.
Viene colto sul fatto ed è perciò incarcerato con gli altri cristiani. In prigione lo riconoscono e tutti lo sfuggono, tranne Pietro che gli parla e lo compiange.
Libro intenso, spesso cupo e inquietante nelle atmosfere che descrive, cupo ed inquieto come Barabba, un uomo che non comprende la novità di Cristo essendo troppo ancorato alla violenza e alla prepotenza del più forte sul più debole.
Forse Barabba è figura dell’uomo d’oggi, incapace di uno sguardo limpido e puro, incapace soprattutto di accogliere e custodire la sorpresa di Cristo, che arriva imprevisto ed imprevedibile. Eppure il libro non finisce nel nulla, Barabba, quasi a sua insaputa, nella morte si ridesta: “Barabba soltanto era ancora confitto ed era vivo. Quando sentì appressarsi la morte, della quale aveva sempre avuto tanta paura, disse nell’oscurità, come se parlasse con essa: «A te raccomando l’anima mia». Ed esalò lo spirito.”
Anche il buon ladrone ha suscitato non pochi interrogativi e curiosità, tanto da essere stato oggetto di analisi e interessanti ricostruzioni, quella che propone Barbellion, sacerdote e teologo francese, intitolandola, Il buon ladrone (2001) [3] è delicata e struggente.
“- Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno -. Gli rispose: - In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso – (Lc 23, 39 -43)
Si possono immaginare le varie vicende della vita che confluiscono in questo dialogo. Immaginiamo un lavoro miracoloso della grazia che dona in poche ore tutta la luce ad un individuo che è alla fine della vita. Un individuo che il Cristo avrebbe già incontrato o, al contrario, che vede per la prima volta. Forse il buon ladrone
(ndr. Disma, il nome che la tradizione gli assegna, in greco vuol dire «malfattore») è stato condannato per un delitto trascorso da tempo, e la sua vita d’uomo marcato dalla colpa lo ha predisposto a una lunga conversione. Si possono immaginare tante possibilità. Mi si rimprovererà senz’altro di aver fatto una scelta, di aver dato una visione troppo personale o romanzata del buon ladrone. Accetto fin d’ora ogni rimostranza. Posso solo dire, a mia difesa, che tutto ciò che è scritto in questo libro è stato meditato nella preghiera. Non è una verità storica, ma una meditazione personale sul mistero del buon ladrone, una persona che ha toccato il mio cuore.”
Se infatti, a nostro avviso, manca un vis narrativa a questo racconto, non manca però la forza del contenuto che tenta di dare tridimensionalità ad una figura solo accennata eppure importantissima nel dinamismo della stessa Buona Novella.
La storia di Disma è la storia di una paternità ricercata. Fin da piccolo ha lottato per sopravvivere; orfano è stato accolto in una famiglia che lo tratta da schiavo; a tredici anni fugge e vive di piccole ruberie sulla strada, finché non incontra un lebbroso, Zeitan, “il solo padre che la vita gli aveva concesso”.
Con Zeitan, pur non potendolo avvicinare, impara a pregare, a lavorare onestamente, impara soprattutto ad avere una dignità, la dignità di che è amato ed è importante agli occhi di un uomo. Ma Zeitan, corroso dalla malattia muore, Disma si sente solo, solo come non mai. Da solo l’uomo non sa mantenersi nella via della santità: Disma per quel suo profondo senso di giustizia, si unisce ad un gruppo di briganti che, con pugnali e clave, rubano il denaro dei ricchi invasori. In uno di questi assalti uccide un uomo: il dolore che prova per quella uccisione è grande, incolmabile. Un suo amico, vedendo la sua disperazione, gli racconta di un maestro che sta predicando parole di speranza: “le parole del Cristo cadono nel cuore di Disma come pane benedetto. A Disma piace il modo con cui i cuori sono trasformati al passaggio del Cristo. È come una scia d’amore… sente dentro di sé che già ama quest’uomo, senza averlo visto… potrà mai, lui Disma, essere perdonato?
Disma è curioso, pur sfidando il pericolo di essere catturato si mette sulle tracce di Gesù per poterlo incontrare, ma nonostante i diversi tentativi non riesce, gli giunge solo e sempre l’eco della parola di Gesù. Viene preso, alla fine, e condotto in prigione proprio negli stessi giorni nei quali il Cristo vive la sua Passione, di cui sente frammenti di notizie.
“La folla grida, insulta. È la terribile realtà: Disma è crocifisso, sta per morire… per sua fortuna, la croce di Gesù è sta piantata tra i due ladroni. Disma è dunque al suo fianco.”
Segue una lunga riflessione sulle parole del Cristo in croce e ciò che esse suscitano nel povero Disma, fino alla morte: “«Sì, è proprio il Figlio di Dio che voi avete fatto morire, e io sono con lui, vicino a lui». Guarda Gesù fino a quando può. Maria e Giovanni seno sempre in piedi sotto la croce. Tutti e tre guardano Gesù, tutti e tre vegliano il suo corpo, centro dell’universo, salvezza degli uomini.”

[1] Eric-Emmanuel Schmitt, Il vangelo secondo Pilato, Cinisello Balsamo (Milano), 2002
[2] Pär Fabian Lagerkvist, Barabba, Reggio Emilia, 1978
[3] Stéfhane-Marie Barbellion, Il buon ladrone, Milano, 2003

Il compianto corale degli amici


Il nostro, forse troppo lungo percorso, si conclude con due libri che propongono l'evento «Gesù» considerato dai suoi amici, o per lo meno da chi seguiva il Cristo con attenta e aperta attesa.
Molto noto è certamente il romanzo del polacco Jan Dobraczyński (1910-1994), Lettere di Nicodemo (1959) [1].
In questo testo lo scrittore ci offre una narrazione dei fatti evangelici vissuta da Nicodemo, citato alcune volte nel Vangelo. Con la forma del romanzo epistolare Nicodemo racconta a Giusto, suo antico maestro e amico, le sue più intime vicende familiari (l'amore, la malattia e la lenta e sofferta agonia di Ruth, sua moglie) intrecciate all'incontro con Gesù, un uomo che lo affascina e lo inquieta, e che gli pone molti interrogativi. Nella figura di Nicodemo, Dobraczyński ha voluto tratteggiare la coscienza dell'uomo moderno, i suoi dubbi, le sue fatiche, le sue attese, tutti quegli aspetti contraddittori dell'animo umano: dagli entusiasmi ingenui alle piccole viltà di fronte al porsi imponente di Gesù e della sua pretesa di unica salvezza per gli uomini. La ricostruzione dell'ambiente è precisa, infatti il romanzo non è solo frutto della sensibilità e fantasia dello scrittore, ma si avvale anche di ricerche bibliche precise e circostanziate.
Il momento della Passione di Cristo inizia ad essere narrato dalla ventunesima lettera, quando Nicodemo riferisce della cena in casa di Lazzaro, nella quale Maria versa olio profumato sui piedi di Gesù. Qual è il ritratto che Nicodemo (Dobraczyński) fa di Gesù all'alba della sua cattura? "… egli (ndr. Gesù) sembra non riconoscere alcun ordine prestabilito. Ora, gli uomini devono seguire determinate regole… egli pretende che ogni norma sia subordinata a un unico comandamento che egli ritiene invariabile e che deve essere osservato a spese di tutti gli altri: quello della carità…"; continua ancora il protagonista, riferendo del colloquio con Gesù, il quale lo invita con insistenza, "Dammi le tue pene!", " Egli è proprio solamente una debole creatura umana, vado pensando da tre anni; tuttavia sono convinto che in lui ci sia anche qualcosa di ben diverso...".
In questa stessa lettera svela che fu sua la casa in cui il Maestro chiese di mangiare la cena di Pasqua con i suoi discepoli, l'ultima; e sempre in questo contesto, a seguito degli avvertimenti di Nicodemo sul malumore dei Giudei riguardo a Gesù, l'autore dà un accenno ai temperamenti così diversi e caratteristici degli apostoli: "«Il Maestro non ha nulla da temere. Se qualcuno tentasse aggredirlo l'avrà da fare con me!» (ndr. Pietro) Svolse un pacco che teneva sotto il braccio e mi mostrò con aria trionfante due spade dalla lama corta e larga… «Queste possono sempre servire!» disse con tracotanza…".
Grazie poi al racconto di Giacomo, che corre ad avvisare Nicodemo dell'arresto di Gesù, lo scrivente può riportare tutte le parole dette dal Maestro nella cena con i suoi più intimi e dei fatti capitati nell'orto, un espediente per nulla artificioso, ma carico di dramma e intensa umanità.
"Perché non è fuggito, lui che tante volte si è miracolosamente sottratto alla vista dei suoi ammiratori?... un Messia che rifiuta di vincere, è la fine della fede nel Messia. E se egli ne fosse semplicemente incapace? Allora egli non sarebbe il Messia. Che cosa è meglio: saper che abbiamo sbagliato o comprendere che la fede stessa è una illusione?": questi e molti altri pensieri turbano Nicodemo, turbano in quel frangente i suoi discepoli e turbano anche noi talvolta, forse troppo spesso.
Nicodemo viene con urgenza convocato per una riunione straordinaria del sinedrio; il sommo sacerdote, Caifa, vuole processare Gesù: "Che dolorosa impressione provai nel vederlo con le mani legate sul dorso, i fianchi cinti da robusta cintura ferrata, munito di corde per mezzo delle quali si può trascinare il prigioniero senza toccarlo!... il suo mantello e la sua veste erano laceri e sporchi, bagnati e macchiati di fango. Aveva i capelli spettinati e i piedi sanguinanti. Il suo viso però, per quanto esprimesse una immensa tristezza, era perfettamente calmo. Il suo portamento tranquillo, ma nello stesso tempo dignitoso e risoluto…". Nicodemo è timoroso e un po' titubante, non osa difendere pubblicamente Gesù, che pure ha seguito; ha più coraggio Giuseppe d'Arimatea, anche lui membro del sinedrio, che contrasta con pacatezza l'odio e la virulenza dei testimoni prezzolati.
L'affermazione culminante di Gesù, quella della sua «pretesa» divinità sconcerta tutti, Caifa si straccia le vesti, Nicodemo disorientato si chiede: "Chi è egli in realtà?... ma chi è egli veramente?... vidi il suo bel viso insudiciato dagli sputi, il capo cinto per scherno da una corona di paglia, le mani ancora legate dietro la schiena… era un uomo gettato al fondo d'ogni umana miseria; un mendicante, un lebbroso, un infermo, un prigioniero, ed ognuno di questi volti era raccolto nel suo viso… ma come difendere, come proteggere un disgraziato che la propria debolezza ha reso quasi – come devo dire?- ripugnante?"
Scorrono come in un film le scene di Pietro in pianto per il suo rinnegamento, la liberazione di Barabba tra le grida del popolo, Pilato livido di rabbia trattenuta per lo scacco che sta subendo. Gesù è oggetto di baratto tra due poteri e viene impietosamente flagellato: "… provai una acutissima stretta al cuore e una pena indescrivibile. Grondante sangue, con la fronte cinta da una corona di spine, un manto scarlatto, gettato sulle spalle per derisione della regalità di cui si vantava, Gesù era l'immagine stessa del dolore".
Il braccio di ferro tra romano ed ebrei va a favore di questi ultimi, che ottengono per il Cristo la pena capitale. Il mesto corteo si incammina verso il Golgota: "... camminavo, inciampando spesso e tenevo gli occhi bassi. Vidi così sulle lastre del selciato l'orma insanguinata di un piede... il suo corpo ormai non era più che una piaga, dal capo forato dalle spine, ai piedi feriti dalle pietre appuntite e taglienti..."
Gesù viene inchiodato e Nicodemo da lontano può vederlo lentamente morire: "...Il Maestro pendeva sullo sfondo del cielo grigio-azzurro: il corpo si tendeva come volesse staccarsi dalla croce; i carnefici gli avevano stirato tanto violentemente le braccia nell'inchiodarle, che il petto, inarcato all'estremo, non poteva appoggiarsi all'indietro; soffocava, aveva il volto livido, le vene del collo gonfie da scoppiare. Io non potei sopportare oltre quello spettacolo orribile... Arrivai ai piedi della croce, riconobbi Giovanni... Maria teneva lo sguardo fisso verso l'alto, impietrita dal dolore. Appoggiava la mano al legno della croce e sulle sue dita colavano dall'alto delle gocce di sangue... i piedi di Gesù erano all'altezza dei miei occhi e li vedevo appoggiati uno sull'altro e trafitti da un lungo chiodo, con le dita irrigidite, convulsamente tese"

Cristo dà un ultimo grido e muore tra il silenzio attonito dei presenti; presto è calato dalla croce, deposto nel sepolcro. Tutto pare finire: i grandi taumaturghi che hanno potuto tanto per gli altri, alla fine per se stessi non possono nulla, conclude con amarezza Nicodemo. Ma fatti imprevedibili sconvolgono il muto scetticismo di questo dottore della Legge, tanto da esserne lui stesso testimone mentre è in viaggio per Emmaus con Cleofa: Gesù fa un tratto di strada con loro e alla fine si fa riconoscere.

L'ultimo testo che proponiamo, e che ci pare adeguata conclusione del nostro itinerarium crucis è Morte di Adamo (1956) [2] di Elena Bono (1921), una delle più grandi scrittrici del Novecento italiano. Si tratta di una serie di racconti biblici che, come scrive Giovanni Casoli "vivamente, plasticamente espressionistici e realistici che attirarono le antenne sensibili di Emilio Cecchi e l'editoria europea, specie anglosassone, con molte traduzioni in varie lingue, e grande successo."
Lo stesso Gioanola, in una riedizione della sua Storia della letteratura italiana, così si esprime "… (racconti) di argomento biblico, ma non riproponenti variazioni su episodi del Vangelo, quanto piuttosto vere e proprie invenzioni traenti spunto da questi episodi. C'è una straordinaria intensità stilistica, che riesce a far vivere davanti agli occhi le scene come se accadessero al momento."
Proprio questo ci pare il pregio e lo stigma dei racconti di Morte di Adamo: rendere presente, contemporaneo il crudo tormento del Cristo nei giorni che culminarono con la sua crocefissione, fino allo stemperarsi, non meno drammatico, dei fatti relativi alla sua misteriosa resurrezione.
Il tessuto narrativo si dipana in otto racconti: Morte di Adamo, Piccolo Abi, La figlia di Giairo, La suocera di Pietro, Il centurione, Guardia al sepolcro, La moglie del Procuratore, Una letteradalla Giudea, in apparenza autonomi, di fatto uno necessario all'altro, per quella concatenazioni di fatti e prospettive che vertono sul Protagonista, per lo più evocato dal ricordo o presente in fugaci e suggestive apparizioni.
La grande, solenne, metastorica ouverture di Morte di Adamo vede il diretto confronto di Dio ed Adamo, il Creatore e la creatura ormai sazia di anni e morente alla presenza dei suoi discendenti. Nel drammatico colloquio, dove viene rievocato l'assassinio del giusto Abele per mano di Caino, Dio conclude con una promessa: "… darò nelle tue mani mio figlio, l'agnello di Dio senza peccato… Egli prenderà sopra di sé i tuoi peccati e in Lui farò giustizia del pianto e del sangue…".
Così il tempo annunciato giunge e si condensa per rapidi lampi in quei pochi giorni gravitanti attorno alla Pasqua: Giovanni e Tommaso alla ricerca della casa dove il Signore vuole consumare la Pasqua con i suoi, la sua ultima Pasqua (Il piccolo Abi); lo scandalo e lo scompiglio tra i parenti di Giairo per il miracolo della piccola resuscitata, Talita, che vive assorta nell'attesa che Lui ancora ritorni; lo sconcerto delle donne di Cafarnao alla notizia che il Rabbi è stato ucciso e la delusione rabbiosa di Rachele, suocera di Pietro.
Ma il ritmo diventa incalzante e ansimante ne Il centurione: la sete di sangue della soldataglia romana e il rumoreggiare sempre più accanito della plebe di Gerusalemme fanno da contrappunto al silenzio del Cristo, carne martoriata, tanto da essere chiamato per scherno lo Straccio. Tra l'Uomo e la folla impazzita sta il centurione, che non si capacita, lui romano difensore del diritto e della giustizia, di quella palese ingiustizia perpetrata ai danni di un innocente. Eppure il comportamento di quell'uomo ridotto ad un ammasso di carne sanguinante inquieta il centurione, quell'uomo non sta subendo tutti quei terribili colpi, quell'uomo li sta cercando: "… te cosa sei?... ci sei venuto di proposito al macello. Perché? Che scopo c'era?... ma tu non sei matto. Andiamo: perché ti fai ammazzare? Ti vuoi far ammazzare, è chiaro... ordini, amico, o se ne danno o se ne eseguono. Da chi li hai presi tu? Chi è il tuo capo, il tuo re, quello che sia?... per conto di chi sei venuto? Da dove? A far che? Gabbare il mondo. Sentiamo: cos'è che gli racconti alla gente?... t'abbaiano tutti dietro; come si spiega tutti?..."
La tensione del racconto vede il suo climax nella scena dell'«Ecce homo»: "«Ecco l'uomo»… stava sulla terrazza, accanto alla toga bianca, l'uomo, una corona di spini calcata sugli occhi, un cencio rosso sulle spalle, una canna fra i polsi legati. Della faccia, solo la bocca gonfia tra i capelli grondanti sangue..." e poi piano trova un doloroso quanto illuminante epilogo nelle ultime frasi "… (il centurione) Fece per alzare la frusta su tutte quelle facce ridenti (ndr. quelle dei soldati che si avventano sull'inerme Gesù). Ma guardò l'uomo e l'uomo lo guardò …".
La fine di Gesù non è la fine della narrazione; la Bono rivive poi, alternando ai toni epico-tragici dei primi racconti quelli comico-grotteschi di Guardia al sepolcro, i misteriosi momenti della resurrezione del Cristo, un evento più suggerito che raccontato.
Suggella Morte di Adamo il lungo racconto La moglie del Procuratore, in cui l'autrice scava nell'animo di Claudia Procula, moglie di Ponzio Pilato. La donna, in un serrato dialogo con Seneca, rievoca i fatti della Passione di Gesù, in mille dubbi e domande, in un alternarsi di certezze e speranze in cui la saggezza della cultura classica è passata al setaccio della folle stoltezza del Figlio di Dio, morto per amore degli uomini. Tra i tanti brani che si potrebbero citare, pena però smarrire il filo conduttore di tutta la narrazione, ne proponiamo due in cui Claudia, dopo molte ricerche, ha rintracciato il centurione che ha comandato l'esecuzione del Nazareno, e che le racconta altri particolari di quella crocefissione: "… abbassò il viso (ndr. Il centurione) che gli era divenuto di un rossore scuro e disse che lui aveva portato il Galileo a crocifiggere. Non era stato che un eseguire gli ordini, gli osservai (ndr. Il colloquio è con Claudia Procula)..mi rispose che infatti aveva eseguito degli ordini; ma non era soltanto questo che doveva rimproverarsi; era quello che ci aveva messo di suo. Rimasi così stupita e anche spaventata che non seppi cosa dire. Mi raccontò tutto lui spontaneamente, da quando aveva visto l'uomo in aula di giudizio, mentre veniva interrogato. Non mi disse che il Procuratore l'aveva trovato innocente. Glielo dissi io. Egli alzò gli occhi a guardarmi e assentì con la testa. "Mi fu consegnato da flagellare, "disse,"e scendemmo insieme la scalinata. Era un uomo alto e grande, ma non faceva nessuna resistenza. Veniva giù con me, come di sua volontà. Lo consegnai a un decurione e io che non sono fuggito mai in vita mia, quella volta fuggii come un vigliacco per non vederlo flagellare; mentre se c'ero, non lo riducevano a quel modo, che pareva una fontana di sangue… Ho visto morire molti uomini, signora, "mi rispose, "e nessuno ha detto mai quello che ha detto lui. Solo Dio può perdonarci tutti e solo il figlio di Dio poteva domandarglielo." Gli ribattei che era un controsenso essere figlio di Dio e morire…"Le cose non stanno così, signora", mi disse, "io chiamo vinto uno che non ce l'ha fatta ad arrivare dove voleva. Ma lui è arrivato." "A una croce, centurione?" "Lo hai detto. Signora. E per lui non era solo questione di vincere la paura che abbiamo tutti... Lui la sera prima aveva fatto sbattere i nostri a faccia a terra… Siamo cattivi, signora, lo vedo io nelle caserme: o bestie o poltroni… nessuno al mondo poteva mettersi tutto sulle spalle. Solo lui… ha aspettato di essere al colmo del patire, per fare lo scambio, e il padre riprenderselo come noi glielo avevamo ridotto, tutto sangue, e lui strappargli il suo compenso. E il primo che s'è guadagnato così, è stato un ladro, appeso vicino a lui… pur vero che, con tutto che era un ladro e che lo vedeva morire come lui su un trave, è stato il primo a capire che quello era figlio di un Re e da dove veniva e dove tornava. Quando morirò, signora, voglio dirgli anch'io così che si ricordi di me, del centurione che stava sotto la croce…"

[1] Jan Dobraczyński, Lettere di Nicodemo, Brescia, 1991
[2] Elena Bono, Morte di Adamo, Recco (Genova), 1988

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